-CAPITOLO 23- Tutto ridimensionato

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Sono tornata a casa di nonna. "Andare nella casa dove sei cresciuta e non ricordare il codice del citofono è un altro tipo di dolore." ho scritto furtivamente alla mia amica nell'attesa dell'ascensore. Questo pensiero mi accompagna per tutti gli otto piani, perfino lo specchio porta dentro il riflesso della me bambina che fa le smorfie. Busso alla porta e mi sembra di sentire lo strofinio delle pantofole di nonna invece è solo un estraneo, il compagno di mia zia. L'ansia cala per un attimo nel vedere il corridoio uguale ma non appena è il momento di girare a sinistra ogni ricordo sembra sparire. Mi sforzo di rimettere a posto tutti i pezzi, di immaginare i mobili di legno antico al posto dei nuovi asettici, di rivedere la porta pieghevole con la vetrata e le tacche di legno sulle pareti. Era sempre buia quella cucina, ora invece è una luminosissima cucina-soggiorno e mi dà fastidio. La stanza di Zia questa volta ha la porta aperta e rivederla è un pugno in petto: era molto più piccola di quanto ricordassi. Quando ho parlato della casa di nonna ho subito descritto l'enormità di quella maledetta stanzetta, tutta inglobata da cianfrusaglie; avevo stampata nella mente l'immagine delle tavolate a Natale e del divano-letto comodo e spazioso. Tutto si ridimensiona: le misure, la percezione, l'idea d'impossibile rinascita di una stanza così grande e devastata. Dov'era quella grandezza ora? Dov'erano il tavolo lungo e i mobili alti? Ero al punto piccola l'ultima volta che ci sono entrata da vedere tutto così grande? Arrivare a questa conclusione mi devasta. La stanza è bianca e spoglia, un po' di confusione è nascosta da un separé e accanto alla porta c'è una sedia, quella sedia. Di tessuto ormai ingiallito, anche un po' stracciato e con le rose sbiadite quella sedia con le rotelline mi ha tenuta vicina al computer a giocare a campo minato, trascinata per tutta la casa con l'aiuto di Zio. Il ricordo è vago ma mi piaceva così tanto da avermi lasciato comunque dietro un velo di memoria. Non c'è più l'acquario vuoto e melmoso, ora ce n'è un altro più piccolo in corridoio ma nuovo e pieno di pesciolini. Anche qui, nel vedermi giocarci proprio come quand'ero piccola, l'entusiasmo viene strozzato dalla tristezza. "Oscilli" direbbe lo psicologo e non posso fare a meno di accorgermene da sola e comprendere quanto questo costante oscillare mi abbia portato ad avere il mal di vita. È una nauseante ricerca di stabilità emotiva nei meandri dell'incontrollabile destino della vita. Mi affaccio al balcone per prendere una pausa da tutto il caos interno e subito noto la vetrata che lo separa da quello confinante: ricordo solo il senso di inquietudine che provavo nel vedere le sagome dei vicini storpiate dal vetro satinato. Ma dov'è il dolore in tutti questi ricordi meravigliosi? Mia zia. Zia mi manca e mi odio solo a pensarlo, vorrei astenermi dal volerle bene ma più spesso la vedo e più non ci riesco. Non voglio che mi regali i gioielli della nonna o mi nasconda i soldi tra le mani, io volevo solo averla accanto per tutto l'arco della mia vita, con la stessa intensità. Eccola Emotiva Tragica, lei e la sua scelta in uomini sempre perfettamente sincronizzata con i dolori dell'infanzia. Compare nella domanda: "perché tutti se ne vanno?", nell'idea che ce lo meritiamo, che siamo opprimenti e sbagliate, che se provo ad essere sicura di me ci aspettano solo delusioni. Vorrei si ridimensionasse anche lei, che chiudesse quella sporca bocca senza troppe storie, senza lotte. Vorrei risolvere i miei dolori senza il disagio di sentirmene complice. 

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