-CAPITOLO 25- Devi subito

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Parlando di genitori mi viene in mente di quando ci siamo trasferiti nella nostra ultima casa; lì sì che tutto ha iniziato ad andare per il peggio. Festa della Mamma 2004, quella poesia è stata appesa al muro della vecchia cucina per tredici lunghi anni, sotto gli occhi amorevoli di una madre orgogliosa. Trasferitici a casa nuova quel pezzo di sughero col foglio a forma di cuore è finito per restare in un cassetto insieme ad altre cianfrusaglie di vecchia data. La cornice a più quadranti occupata dalle nostre foto insieme, invece, fu sostituita, dopo un paio di anni dal trasferimento, da uno sciapo ed economico quadro da soggiorno. Non credevano più al nostro legame e io, causa di quella rottura, non meritavo più uno spazio sulle mura di casa. Non meritavo più la rassicurazione costante, gli abbracci immotivati, lo sguardo rilassato di due genitori felici di trascorrere del tempo con la loro unica figlia. Ero diventata adulta, per loro: un incidente ora era uno sbaglio, la smemoratezza divenne irresponsabilità, il disagio un capriccio, le solite ansie che mi tormentavano fin dall'infanzia smisero di essere tollerabili. Così, a poco a poco, tutto diventò un devi-subito: devi maturare, devi migliorare, devi essere forte, non devi piangere, non devi lamentarti, non devi sprecare il tuo tempo, devi capire cosa vuoi dalla vita, devi raggiungere i tuoi obiettivi (tutto subito). Tutti questi "devi" un tempo non avevano ragioni, erano solo un gran macigno allo stomaco che si alleggeriva soltanto quando gridavo contro i miei genitori, coloro che mi avevano spinta, seppur impreparata, in questo sadico pianeta di nome Terra. Quei "devi" erano nei miei attacchi di panico, nell'improvvisa paura della morte, erano nel mio bisogno di controllo e nel mio non averne affatto quando si trattava di cibo. Mi ci sono voluti tempo, spazio, rabbia, dolore e il mio psicologo per perdonare mamma e papà; per perdonare il loro non capire, la loro assurda convinzione che la consapevolezza della solitudine mi abbia reso forte, che la solitudine mi abbia reso forte. Mi è costato sacrifici fisici enormi non sentirmi il petto dilaniato alla domanda retorica "Ma cosa abbiamo mai potuto fare?"

Il dottore, quando gli pongo due possibili cause ad un mio atteggiamento disfunzionale, mi risponde sempre con una domanda: "perché non entrambe?" Sarà dura ancora per un po' accettare il loro non capire che l'amore crea stabilità e mostri, tenerezza e terrori; ché puoi amare ma far del male continuando ad amare convinto di starlo facendo nel modo giusto. Ritrovo quella poesia impolverata nel cassetto e penso che meritavo qualche anno in più lontana da tutti i mali del mondo, che meritavo ancora mia madre a proteggermi da Emotiva Tragica e i suoi insidiosi pensieri suicidi; che meritavo di lasciare Emotiva libera di esprimersi in tutta la sua fragilità con la serenità che per qualsiasi cosa avrei potuto piangere sulla spalla di qualcuno. In fondo sono così pochi dodici, tredici ma anche diciassette anni e io ho iniziato così presto a non sentirmi scudi, ho iniziato così presto ad evitare mio padre per la sua irascibilità e la sua incoerenza, ho iniziato così presto a diffidare dal sangue del mio sangue; a proteggermi dall'amore respingendolo pur di non restare ferita. Ho imparato così in fretta che l'ambizione lavorativa distrugge i rapporti, che il lavoro stesso, se c'è crisi, allontana. Ero così piccola quando papà è dovuto partire per la Svizzera a lavare i piatti dopo essere stato licenziato per un taglio del personale, quando è andato a Foggia e poi a Firenze saltando di anno in anno da un lavoro all'altro; con l'età che avanza e l'umiliazione dietro l'angolo nel fare ogni volta un lavoro che non lo appassiona solo per darmi un tetto sulla testa. È per questo che ho dovuto perdonarli: perché l'amore che provano per me logora loro prima che me; avrei solo voluto capirlo un po' più tardi, vivere anche solo per un attimo in quella campana di vetro che tanto criticano. L'avrei voluta quell'irresponsabile serenità della vuotezza infantile.

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