Capitolo 27

1.2K 82 21
                                    

I giorni passano, il dolore no.

Il quarto giorno di silenzio arriva inesorabile e mi investe con tutta la potenza convergente dell'universo.

"Aspettare", è questo che non fanno che ripetere i medici

L'attesa fa parte del mio lavoro. Ogni paziente ha le sue tempistiche e problematiche differenti che impiegano altrettanti tempi diversi. Il centro della terapia è l'attesa.

Ma che significa attesa quando la donna che ti ha cresciuta e amata in modo impensabile è sdraiata inerme in un letto di ospedale? Che attesa è quella di una nipote disperata che passa dal letto, alla sedia della cucina, al divano e ricomincia il giro dell'inferno da capo? Che attesa è quella di una figlia che dopo un divorzio doloroso è tornata a vivere con la propria madre e che ora si prospetta una vita vuota e senza destinazione?

È atroce. E il fatto che ancora non possiamo andarla a trovare, parlarle, invitarla a fare ciò che ritiene più giusto ma facendolo in fretta, è una delle torture peggiori a cui mi sia sottoposta senza la mia volontà.

Dopo il quarto giorno sento le meningi esplodermi, il corpo afflosciato e le gambe stanche. Quindi decido di staccare la mente e infilandomi al volo un completo sportivo con leggings e top interamente neri, decido di uscire di casa e correre fino a quando non sentirò cedere i polmoni

Faccio solo una breve deviazione in cucina per lasciare un bigliettino per i miei genitori ed Emily ed Andrew, poi esco velocemente da questa casa che è stata sempre il mio rifugio, il mio porto sicuro...e che ora sembra opprimermi e schiacciarmi al suo volere senza lasciarmi vie di fuga

Corro lungo il marciapiede adiacente alla lingua di sabbia della spiaggia di San Diego osservando le file di palme versi e rigogliose ergersi intorno a me

Oggi fuori la giornata è semplicemente meravigliosa. Il sole accarezza la mia figura accompagnandomi lungo tutto il percorso e il mare è di un intenso blu senza alcuna increspatura. Semplicemente uno spettacolo da togliere il fiato. Ho sempre amato vivere in California e soprattutto a San Diego perché senza caldo e mare non saprei vivere. Odio gli inverni rigidi che ti paralizzano gli arti. Ed è proprio così che mi sento in questi giorni nonostante il calore esterno: paralizzata dal freddo.

Do un'occhiata alla spiaggia deserta dovuta all'orario fin troppo rigido in cui ho fatto la mia fuga. Sono le sei e un quarto del mattino ma il sole è già alto e cocente. Sono pochi i corridori che incontro lungo la mia corsa e non mi dispiace. Ho bisogno di stare da sola, di pensare a tutto fuorché al dolore che mi logora e divora da dentro non lasciandomi scampo.

Ma poi incrocio lo sguardo con l'insegna del bar dove io e la nonna andavamo sempre a fare merenda dopo che passava a prendermi da scuola, successivamente mi imbatto nel chioschetto di dolcetti dove nonna Grace era solita fare scorta come se dovesse viziare un esercito di bambini e invece doveva soddisfare solo se stessa e la sua golosità e alla fine scovo persino la sua libreria preferita dove era solita passare la maggior parte del suo tempo libero uscendone sempre carica. Sento la bile risalirmi fino in gola in forma di conato di vomito e allora mi fermo piantando i piedi sull'asfalto del marciapiede e poso le mani sulle ginocchia per riprendere fiato ed evitare di vomitare quel poco che ho assimilato ieri a cena, ovvero un pacchetto di cracker.

Sento gli occhi pizzicare ma li struzzo subito e mi mordo un labbro per impormi di non lasciarmi nuovamente andare

Respiro affannosamente per lo sforzo fisico e mi impongo di non guardarmi più intorno lasciando ai ricordi di invadermi e sovrastarmi

Quando imbocco la via di casa sono le dieci di mattina, ciò significa che sono stata a correre per ben tre ore e mezza e neppure me ne sono resa conto.

Through the water Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora