capitolo 1

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Agosto 2012, Italia.

La strade erano buie, l'aria fredda, la notte silenziosa e lei camminava lentamente nel centro della strada, torturandosi le mani strette l'una all'altra, in una sorta di conforto o di incoraggiamento.
Indossava scarpe basse, jeans larghi e una felpa di almeno due taglie più grande. Nessuno, nessuno al mondo, vedendola, avrebbe potuto immaginare quello che faceva.
Certo era bella, quello sì. Incredibilmente bella, forse esageratamente, ma di una bellezza non comune. C'era probabilmente qualcosa che stonava, in lei, ma che la rendeva ancora più attraente.
Ci stava bene, nei suoi venticinque anni, ma aveva negli occhi neri una scintilla strana, che a volte dava l'impressione che avesse più anni di quanti in realtà ne aveva. Non fisicamente, è chiaro, ma mentalmente sì.
Una macchina le si accostò e il finestrino del lato passeggeri fu abbassato.
Gli occhi di un giovane uomo la scrutavano dal basso verso l'alto.
"Ehi, dolcezza, quanto prendi all'ora?"
Non rispose e continuò a camminare, il passo lento e sicuro che aveva sempre avuto e che niente al mondo poteva toglierle.
Non lo faceva, non lavorava così. Non si vendeva sulla strada, non entrava nelle macchine di sconosciuti. Prendeva appuntamenti tramite telefono, parlava prima con i suoi clienti, li incontrava e poi decideva. Era prudente, per quanto quel lavoro glielo permetteva.
La macchina continuò a seguirla, piano piano.
"Mi hai sentito?" domandò l'uomo.
Marta era quasi arrivata, a pochi metri da lei c'era l'entrata del suo appartamento.
Fece ancora qualche passo e poi si voltò verso l'uomo.
"L'ho sentita." il tono aspro e diffidente.
"Allora rispondi." nonostante fosse chiaro che stesse perdendo la pazienza, aveva ancora un tono accondiscende e un sorriso storto sulle labbra, ma gli occhi erano velati da un qualcosa che lei non sapeva definire.
"A lei?" rise e aprì la porta di casa.
L'uomo accese di nuovo l'auto, ma prima di allontanarsi gridò: "Anche una puttana schizzinosa mi dovevo trovare."
Poi se ne andò.
Marta lo ignorò come era abituata a fare.
Arrivò nel piccolo, malconcio appartamento - era già tanto che non vivessero per strada, sia chiaro - quando l'orologio segnava già mezzanotte passata. Il cliente di quella sera le aveva preso più tempo del previsto.
Si erano incontrati davanti al bar a tre isolati da casa sua, lui l'aveva caricata in macchina e si erano diretti a una delle case non abitate dell'uomo.
Si sentiva male e aveva voglia di vomitare, le succedeva spesso quando aveva appuntamenti con clienti che non le piacevano; ma appena si avvicinò alla porta udì il pianto del suo bambino e una televisione accesa.
La voglia di vomitare passò.
Entrò nella stanza e vide la babysitter addormentata sul divano sfondato, e a terra, vicino alla tv, la figura strillante e piangente dell'unica sua ragione di vita.
Provò un senso di rabbia fuori dal comune, per quella diciassettenne irresponsabile che si era offerta di guardare suo figlio quando lei doveva lavorare.
Costava poco, però. E lei non aveva assolutamente soldi da spendere, quindi non si sarebbe potuta permettere qualcun altro che guardasse il suo bambino.
La svegliò senza delicatezza, ma con quell'aria da mamma arrabbiata che non riusciva a nascondere. Quando la ragazzina se ne andò prese tra le braccia il figlio e lo riaddormentò.
L'appartamento era in disordine, c'erano vestiti in giro per la stanza, mobili rotti, il divano era sfondato e il rivestimento in brandelli, nel bagno lo sciacquone non funzionava e il lavandino si intasava ogni tre giorni, ma era l'unica dimora che poteva permettersi essendo una mamma single disoccupata che dava il suo amore in cambio di qualche soldo.
Lo faceva, però, solo per la creatura che teneva tra le braccia; per darle un futuro, per non farla morire di fame.
Era stata licenziata quando era rimasta incinta, una cosa comune in realtà, ma aveva un buon rapporto con il suo datore di lavoro, e credeva che non l'avrebbe mai messa a casa se non per il mese prima del parto e quello successivo. Veniva pagata bene, scriveva per un buon giornale, si occupava di cronaca e i suoi articoli avevano successo, ma quando informò il suo capo della gravidanza, l'uomo ci mise poco a prendere quella decisione che avrebbe rovinato la sua vita.
Ma non voleva pensarci, preferiva sorvolare su quel periodo, altrimenti la voglia di prendere a schiaffi l'uomo che l'aveva ridotta così le cresceva dentro al petto e le faceva stringere i pugni.
Stese il bambino sul letto e si infilò in bagno per farsi una doccia fredda. Si spogliò lentamente ed evitò di guardare la sua figura nello specchio. Non si guardava più da tanto tempo. Non voleva guardarsi perché se lo avesse fatto si sarebbe rivista sopra o sotto quegli uomini, e non voleva. Desiderava eliminare dalla sua vita quelle ore, quelle persone, quella parte di sé che era costretta a tirare fuori.
Si strofinò la pelle bianca più e più volte, fino a volerla corrodere, fino a voler eliminare quello strato che era stato toccato da uno sconosciuto. Sì passò la spugna insaponata su tutto il corpo, lavandosi e purificandosi come meglio poteva. Insaponò, sciacquò, insaponò di nuovo e sciacquò di nuovo il suo seno e la sua intimità. E lo fece ancora, ancora e ancora.
Era appena uscita dalla doccia asciugandosi la pelle e i capelli, quando il pianto di Davide, il suo bambino, le trapassò le orecchie.
Si vestì e tornò ad addormentarlo.
Era questa la vita di Marta.

Maggio 1986, Italia.

Gemma teneva le mani poggiate sul grembo, le torturava le une con le altre mentre l'uomo davanti a lei la guardava sprezzante, vagamente disgustato, e abbondantemente attratto.
Era una donna, discriminata per questo, lì, nella sua terra. Presa a schiaffi da un concetto socialmente costruito. Odiata dagli uomini e presa in giro dalle donne.
Era una delle poche. Una di quelle che credeva nel salto, nell'uguaglianza, nei propri diritti.
Sognava; sognava un lavoro che le donne non facevano, sognava la legge, i tribunali, i dibattimenti. Sognava una vita in cui avrebbe potuto riscattarsi.
L'uomo che le si trovava di fronte, però, per poco non le scoppiò a ridere in faccia.
Le ridiede il suo curriculum scuotendo la testa, e senza neanche dirle una parola chiamò la segretaria per farla accompagnare all'uscita. Prima che potesse varcare la soglia della porta però, la voce dell'avvocato la colpì in pieno, come un colpo di frusta.
"Signorina, al massimo possiamo assumerla come segretaria."
Poi la lasciò andare via.
Aveva ventisei anni e si sentiva invincibile, ottimista e invogliata, ma era solo il primo giorno e aveva già ricevuto tre porte in faccia e due risate.
Studiare all'università le era costato sacrifici immensi. I suoi genitori l'aiutavano come potevano, ma stava a lei mantenersi. Era andata a studiare lontano da casa, perché quel posto la opprimeva e non le dava speranza; era scappata da un destino già scritto e aveva provato a buttare giù uno schizzo di quel futuro che invece desiderava.
Lavorava come barista, a quel tempo, racimolava i soldi necessari a pagare l'affitto, le bollette e il cibo. Studiava al pomeriggio e lavorava la sera, e quando lavorava il pomeriggio studiava la sera. Sentiva ancora nel naso il profumo del caffè, negli occhi la stanchezza delle notti in bianco passate sui libri.
Aveva rinunciato a tutto in quel periodo, proprio a tutto. Ad una vita sociale, all'amore, al divertimento, alla libertà.
E tutto per inseguire il suo sogno. Si sentiva fiera di sé stessa.
Se l'era dovuta sudare la laurea, e non per mancanze intellettuali, ma semplicemente per il fatto di essere donna.
Era pronta.
Credeva in sé stessa, adesso doveva solo convincere anche gli altri a credere in lei.
Nel frattempo continuava a sognare.

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