VIII - Il sette gennaio

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Luce

Sapevo di essere sola. Lo sapevo dall'attimo esatto in cui avevo messo piede su quell'aereo che mi avrebbe portato lontano. Ne ero consapevole. Cercavo di riempire le giornate di pensieri, fuggire dalla realtà per non soppesarla. Fingevo non esistesse. La mia smania per il controllo ossessivo era sempre stato il mio tallone d'Achille.
Puoi avere quello che vuoi, ma la notte non hai scampo. Lei è furba e sa quello che ti manca.

La realtà mi piombò in faccia quando, una mattina in cui io e Diego avevamo lezioni diverse, ero sola ad aprire il mio armadietto. Loro erano le uniche persone con cui non ero mai sola. Il mio porto sicuro.
Quella mattina non fu così.

«Ciao. Io sono Red Miller, tu sei l'italiana?»

Avevo la testa ficcata nel mio armadietto. Ebbi un fremito. Afferrai i miei libri, il mio cellulare e chiusi l'anta di metallo con un tonfo, senza voltarmi nemmeno e procedendo in direzione opposta. Non avevo mai seguito letteratura inglese, quella era la prima volta.

Sentii dei passi seguirmi. Dirizzai la schiena e puntai il mento all'insù, in un'espressione di strafottenza. Ma ciò non impedì al ragazzo di prima di affiancarmi.
Prima corse e poi cominciò a camminare col mio stesso passo.

«Ehi, sai parlare la nostra lingua? Se vuoi posso darti una mano. Sono sicuro che non sia facile ambientarsi in un posto così nuovo» ridacchiò. Ma lo fece da solo. Io tenevo lo sguardo dritto di fronte a me.

«Oh, hai letteratura inglese con la Colman? Anche io. Potrei passarti gli appunti, abbiamo iniziato già il programma» nel mio raggio visivo entrò il suo indice che indicava il mio libro. Lo seguii con le pupille, poi le rialzai con un sonoro sbuffo.

Il ragazzo fermò il suo cammino improvviso. Ne ero felice, così sorrisi vittoriosa, continuando a camminare.

«D'accordo, forse dovevo dare ragione alle voci che si dicono in giro. Siete praticamente un esercito, no? Voi siete diversi da noi. E lo sapete. Non vi mischiate con la gente comune. Temete che il vostro sangue puro venga infettato?» sbuffò, ad alta voce. Qualcuno si fermò a guardarci, ma io continuavo imperterrita il mio cammino.

Finalmente l'avevano capito.

«Sai che c'è? Anche io sono arrivato solo lo scorso anno, in questa scuola. Eppure ci ho provato, mi sono fatto forza e mi sono aperto. Non tutti gli sconosciuti sono nemici» sbraitò. La sua ombra rifletteva sul pavimento e lo immaginai aprire le braccia. Mi stava dando sui nervi, avrei voluto raggiungere l'aula velocemente e togliermelo dai piedi. E stavo quasi per farlo. L'avevo intercettata: era la B6. Il cartellino penzolava di fronte ai miei occhi e qualche studente già entrava, con lo zaino in spalla.

«Dovresti sentirti fortunata ad aver iniziato perlomeno a settembre. Io ho iniziato a gennaio! Il sette, precisamente, il giorno del mio diciassettesimo compleanno... pensa un po'» il tono sagace era ben distinguibile.

Le mie scarpe sfrusciarono sul pavimento. Mi salì un groppo alla gola. Il mio cuore mi piombò tra i piedi, pesante come una zavorra. Non ebbi il coraggio di girarmi.

«Sei ancora tra i piedi? Non l'hai capito che ti sta ignorando?»

Una voce estremamente familiare stridette in quel momento. Quello mi diede il coraggio di voltarmi. Ma non feci in tempo, poiché la mia vista fu coperta dalla schiena di Adriel che mi si parava di fronte.

«Sta' calmo, Calloway» fece l'altro ragazzo. Non riuscivo a vederlo, con quel palo fastidioso che mi copriva.

«Gira a largo» sbuffò il rosso, prima di cambiare completamente direzione e proseguire verso l'uscita della struttura. Non si voltò verso di me, né mi guardò negli occhi. Faticai a credere che un attimo prima fosse lì.

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