XXIII - Edoardo Russo

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Adriel

Era passato qualche giorno, eppure non riuscivo a togliermi dalla testa la scena delle sue labbra che cantavano con le mie, in maniera simultanea e incredibilmente armoniosa. Mi ero sorpreso di trovarla lì, ancora di più quando aveva iniziato a cantare.

Luce aveva il potere di illuminare ogni cosa attorno a lei ed io ne ero rimasto maledettamente bruciato, folgorato, ustionato.

Quando ero accanto a lei, le cicatrici divampavano come un avvertimento, una paura incontrollata. E la rabbia tornava a scorrere nelle vene come un'amica di vecchia data.

Mi guardai allo specchio, nudo, con quei segni che erano ancora lì. La mia condanna e il mio supplizio. Entrai nella doccia e mi ritrassi quando l'acqua bollente mi sfiorò la schiena.

Il calore era la parte peggiore. In estate, mi toglieva il respiro. L'asfissia mi sbatteva contro un muro di cemento, una lotta da cui non avevo scampo e l'unica in cui avrei sempre perso.

Appoggiai la fronte contro il muro della doccia, l'acqua - ora tiepida - scendeva su tutto il mio corpo. Chiusi gli occhi e respirai profondamente, il mio cuore non seguiva quello che diceva il mio cervello, galoppava, pompava astio, frustrazione e brutti ricordi. Digrignai i denti contro un nemico senza volto, passai le mani tra i capelli più volte e li tirai alle radici.

Chiusi l'acqua del soffione con un pugno. Le mie ossa vibrarono ma giurai di non aver sentito il minimo dolore. Uscii dalla doccia della mia stanza, mi avvolsi in un'asciugamano e cominciai a strofinarmi in maniera prepotente, fino a quando i lembi di pelle si arrossarono, fin quando i peli delle gambe si annodavano e si strappavano, restando attaccati all'asciugamano.

Mi vestii dei primi vestiti che trovai sottomano in camera ed uscii, sbattendo la porta.

Nella mia testa cominciavano ad accavallarsi scene di fiamme ardenti, fumo tossico e due occhi neri e profondi, di cui ne riconoscevo la scintilla.

Attraversai il corridoio del dormitorio maschile sballottando contro le pareti, il respiro cominciava ad accorciarsi. Digrignai i denti, serrai la mascella fino a farli spaccare e, con un grugnito, mi tolsi di nuovo la maglietta. Il calore mi stava soffocando.

Abbassai lo sguardo e mi fissai le mani, immobile: tremavano. Dovevo cercare Sienna. Porto sicuro.

Finalmente raggiunsi l'uscita, l'aria autunnale mi colpì il viso, ma dopo qualche secondo mi sentii di nuovo ribollire. Una catasta di studenti occupava il giardino, qualcuno fissava di sbieco, qualcuno correva via e altri fingevano di non star captando nulla. Ci erano talmente abituati da sapere come comportarsi e la cosa mi accese una fitta allo stomaco talmente forte da piegarmi in due.

Mi accasciai a terra, una mano sul petto e l'altra ficcata nell'erba per sorreggermi. Sputai, nella speranza di poter togliere l'amaro incastrato tra le labbra.

Qualcuno urlò ed io cominciai a tossire. A tastoni, provai a mettermi seduto contro un palo della luce. Avevo il fiato corto e mi sentivo la gola esplodere e la testa vorticava tanto da farmi perdere l'equilibrio. Cercai tra le tasche il cellulare ma, quando lo ebbi tra le mani, la mia vista era talmente sfocata da non distinguere i tasti e i numeri.

<Adriel!>

Una voce. Distinta. Un accento europeo marcato.

Quando alzai gli occhi su di lei, era a non più di qualche metro da me. Stretta in un completo lilla elegante, i capelli raccolti in una coda bassa ordinata e una pelliccia beige. Era talmente bella da farmi incazzare ancora di più.

Però, non era sola.

Accanto a lei, c'era un ragazzo.

Era alto, dalle spalle robuste, con occhiali specchiati e la carnagione abbronzata. I capelli ordinati e una mano ficcata dentro le tasche di pantaloni Versace. Nonostante la poca lucidità che avevo in corpo, lo riconobbi: era fuori dalla mia stanza qualche giorno prima. Ed era italiano. E stava parlando con lei.

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