VII - Marrone in palette

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Adriel

«Prima o poi dovrai smetterla di farmi prendere questi colpi in piena notte!»

«Nonna, te l'ho già spiegato. È stata Hanna a venirti a parlare. Fosse stato per me, sarei rimasto in stanza»

«Oh, Hanna è stata una col sale in zucca! Piuttosto, quella ragazza così graziosa... mi ha detto che è venuta ad aiutarti. Chi è? Parla in maniera così stucchevole» ridacchiò, al di sotto dei tondi occhiali da cui sbucavano dei piccoli occhi azzurri. Si ripulì le mani piene di farina sul grembiule rosso con delle mele disegnate sopra e mi guardò con le guance rosse e i capelli bianchi sparati in tutte le direzioni.
Sbuffai e alzai gli occhi al cielo.

«Piantala, d'accordo?»

Ma lei continuò a fissarmi, un sorrisetto divertito impiantato sul volto.

«È la tua ragazza?»

«Come? Cosa? No! Smettila, basta così» digrignai i denti. Ma a mia nonna non facevo più paura da anni, ormai. Congiunse le mani tra di loro e se le portò accanto al viso, sognante.

«Me la porteresti a conoscere? Le vorrei offrire dei biscotti per ringraziarla dell'aiuto»

«Ho detto di no. Discorso chiuso»

«E io lo chiederò al dottore!» sbuffò, quindi, lanciando via un canovaccio. Era sporca di farina sulla guancia.

«Che cosa c'entra Henry?» mi veniva quasi da ridere per l'espressione buffa che aveva sul volto. Mi appoggiai con le mani al bancone su cui riposavano dei panetti di pane fresco sotto un pezzo di stoffa.

«Ti convincerà a presentarmi la tua ragazza» fece tranquillamente, dandomi le spalle e stendendo il panetto con un matterello.

«Non è la mia ragazza!» sbottai, passandomi nervosamente le mani tra i capelli. Cominciai a sbuffare e afferrai la maniglia della porta. La sua voce mi bloccò di nuovo sull'uscio.

«E allora perché non ha paura di te come tutti gli altri?»

Ma avevo già chiuso la porta alle mie spalle.

Qualche ora dopo, ero fuori la camera di Sienna a bussare. Sbagliavo e continuavo sapendo di sbagliare. Ma credevo fosse l'unico mio modo di agire. Io, nella vita, sapevo solo
rompere e sbagliare.

In realtà rimasi con la mano a mezz'aria chiusa a pugno. Qualcuno mi stava tirando la maglietta. Mi voltai, ma non vidi nessuno. Abbassai il volto e trovai un bambino a fissarmi. Un bambino estremamente familiare, dai folti capelli castani e qualche lentiggine a puntellargli le guance.
Ma ciò che attirò la mia attenzione era una polo di Armani e un accento inglese e serioso.

«Tu sei l'amico di Ettore? L'hai visto per caso?»

Alzai un angolo delle labbra.
«Tu sei suo fratello?»
Annuì e mi allungò la mano.
«Mi chiamo Giulio Carlo De Angelis»

Sembrava un uomo in miniatura. E parlava come un vecchio. Gli strinsi la mano soffocando una risatina, mentre la sua postura restava austera e l'espressione seria.

«Adriel Calloway»

«Sei il ragazzo che si è sentito male qualche notte fa?» inclinò il volto in un gesto che mi fece ricordare che fosse un bambino e non un uomo d'affari.
«Quello che ha aiutato Diego?» annuii entrambe le volte.

«Be', credo di doverti ringraziare a nome della mia famiglia, allora»

Continuai a sorridere, pensando che avesse un lessico molto più aulico del mio. Gli scompigliai i capelli, ma il piccolo Giulio se lo aggiustò con movimenti meccanici. Sbattei le palpebre.

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