Capitolo 26: Lucy

20 3 0
                                    

Mi sentivo stanca ma allo stesso tempo non riuscivo a chiudere occhio. Un flusso di domande e pensieri continui mi vorticava dentro. Ero nel letto enorme di mia nonna, stesa a pancia in sù, che fissavo costantemente il soffitto cercando di non perdermi nei meandri di me stessa. Quando il telefono si mise a suonare. Chi poteva disturbarmi a quell'ora? Pensai che fosse successo qualcosa a casa, ma in realtà era Neif. L'ansia non fece altro che accumularsi ancora di più, come se volesse e potesse schiacciarmi da un momento all'altro. Per poco non cadevo giù dal materasso per finire sulle piastrelle, mentre velocemente cercavo di acchiappare il cellulare messo a caricare sul comodino.

«Neif, che succede?»

«Scusa per l'ora. Volevo solo dirti che sono nel palazzo. Mi dici a quale porta devo bussare o le provo tutte?»

Deglutii. «Stai scherzando?»

«No, ho corrotto il tuo fratellino con delle caramelle. E mi ha detto che sei nell'appartamento di tua nonna. Adam mi ha prestato la sua macchina.»

Non potevo crederci. «James ti ha detto dove sono?»

«Già, te lo avevo detto che odio parlare per telefono. No?» sospirò. «Stai tranquilla comunque, non lo dirò a nessuno. Ora è tardi, non vorrei prendermi degli insulti... Ma a che campanello devo suonare?»

Non potevo davvero crederci. «Ti apro il cancello. Devi salire al settimo piano. Porta B.»

Neif era stato capace di seguirmi. Mi sentivo quasi male, come se le mie gambe fossero fatte di burro e gelatina.

«Perché sei qui?» raggiunsi il citofono all'ingresso, «Perché?» ripetei incredula.

«Pensala come una piccola vacanza... Io e te. Mi sono autoinvitato.» Eccolo, il vecchio Neif, con il suo atteggiamento sfrontato e sfacciato. Percepii che stava salendo delle scale dal suo passo. «E davvero, se non mi avessi risposto, avrei provato tutti i campanelli.»

«Scemo» sibilai, tornando indietro e infilandomi un lungo golfino beige di mia nonna, sopra al pigiama. Mi controllai al grande specchio fissato sulla porta, mi arrivava alle ginocchia. Mi passai una mano tra i capelli per lisciarli e togliere qualche nodo. Ok. Così potevo affrontarlo.

«Entro nell'ascensore. Ci vediamo tra pochissimo.»

La mia unica speranza era che l'ascensore si bloccasse. Mise giù la chiamata. Sospirai sapendo che sarebbe comparso davanti a me, da un momento all'altro. Non ebbi il tempo nemmeno di pensare ad un piano di riserva, che già il trillo del campanello mi risuonò nelle orecchie, allarmandomi.

Aprii la porta e mi ritrovai lui, avvolto in una giacca nera e dei jeans. I soliti capelli scompigliati e un leggero odore di sigaretta addosso. Lo sapevo che non avrebbe smesso di fumare solo perché glielo chiedevo io. Incrociai le braccia al petto e abbassai gli occhi, per evitare di guardarlo mentre mi osservava.

«Posso entrare? O mi lasci fuori?»

Sapevo che non era colpa sua se mi avevano aggredita, ma mi sentivo in agitazione, perché se non lo avessi conosciuto non sarebbe successo.

«Entra» mi scostai dall'ingresso. Non potevo lasciarlo nel corridoio, anche se una parte di me avrebbe voluto richiudere quella porta. Il cuore sembrava che volesse esplodermi nella cassa toracica.

Lui eseguì la mia richiesta e richiusi la porta. Non si guardò nemmeno attorno e tornò a fissarmi. Il suo sguardo era così penetrante che mi sentivo davvero in imbarazzo. Nessuno dei due disse nulla. Finché lui incurvò le labbra in un sorriso leggero.

«Ti trovo bene.»

«Perché sei qui?»

«Perché voglio dimostrarti qualcosa, credo.»

Non farmi stare maleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora