Capitolo 2: Lucy

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Per fortuna non ero una di quelle persone con il vizio di mangiarsi le unghie. Altrimenti sarei rimasta senza.

Venti minuti di ritardo! Ne avrei aspettati altri dieci, ma non di più.

L'ansia mi stava divorando da dentro, come un verme intento a mangiarsi il terreno umido, ma almeno ero seduta. Ivan aveva insistito affinché ci incontrassimo per chiarire. Non se lo meritava, non avevo bisogno di essere una seconda o una terza ruota di scorta, ma in fondo al cuore volevo davvero rivederlo e magari conoscere il motivo per cui mi aveva abbandonata, e forse dimenticata per tutta l'estate. Forse ero davvero solo la regina degli stupidi, dopotutto sapevo che cosa aveva in mente, oppure il mio cuore aveva manie di autolesionismo.

Picchiettai con la punta della scarpa la gamba del tavolino. Non gli interessavo davvero, gli stavo soltanto permettendo di sprecare il mio tempo. Come non interessavo davvero a Neifion, o meglio, lui almeno me lo aveva mostrato in modo palese che fosse interessato soltanto alle mie labbra. E a giudicare dalla sua fama anche a qualcos'altro. 

Erano passati già due giorni. Non lo avevo più rivisto. Quella mattina avevo sognato che la polizia trovava il suo cadavere al parco, ma sicuramente non era morto. Di sicuro lo avrebbero detto al notiziario, dopo tutto questo tempo. Non ero ancora diventata un'assassina, per fortuna, anche se si sarebbe comunque trattata di legittima difesa. Mi costrinsi a non pensare a lui. Dovevo concentrarmi su una cosa per volta. Ivan, per primo.

Sbloccai lo schermo del cellulare sul tavolino.

Ventidue minuti di ritardo. Avrebbe almeno potuto avvisarmi!

E se gli fosse successo qualcosa? Cercai il suo numero nella rubrica e lo chiamai.

«Pro... Pronto?»

La sua voce era pigra, impastata dal sonno. Il live accento russo mi riscosse.

Mi portai le dita alle labbra e drizzai la schiena sullo schienale della sedia. «Ti ho svegliato?»

«Lù... Lucy?»

A quanto pareva era ancora vivo anche lui. «Già, sono proprio io.»

«Oddio, scusami. Mi sono addormentato, cazzo, è tardissimo!»

«Eh sì, è tardissimo!»

«Ti prego, perdonami.»

«Non fa nulla, Ivan. Ti aspetto qui.»

Un giovane cameriere si avvicinò al mio tavolo, ma vedendomi parlare al telefono, deviò il suo tragitto e andò a prendere l'ordinazione di una donna seduta due tavoli più in là.

«Mi sono appena svegliato, non possiamo rimandare?»

Sospirai. «Non puoi proprio metterti un paio di pantaloni, una felpa, non lo so, e venire qui? Sei tu che hai voluto incontrarmi, e io ti sto aspettando al bar di cui mi hai mandato l'indirizzo. Ricordi?»

«Sì, lo so. Ma ho tantissime cose da fare adesso.» Un tintinnio risuonò sotto la sua voce. Sembrava il rumore di chiavi che sbattevano. «Non avrei dovuto addormentarmi, cazzo.»

Sbuffai così forte che lo avrebbero sentito anche dall'altra parte della città.

«Mi farò perdonare, te lo prometto.»

E quando? Quando ti farai perdonare? Tra un anno, forse? Quando ti ricorderai che esisto. «Potevi dirmelo se non ti sentivi bene, avrei capito.»

«Ho avuto il turno di notte in albergo. Mi dispiace.»

Sbuffai di nuovo. Un tonfo. Forse gli era caduto qualcosa dalle mani.

«Lucy... Mi farò perdonare, te lo prometto.»

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