1-2 numero trentotto

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Le sei e trenta, e il lunedì mattina già entra dalle serrande abbassate. Attilio è da un po' che si gira nel letto e non fa dormire neanche me.

Mi faccio trascinare fuori dal letto controvoglia: si annuncia l'ennesimo giorno di medicine, televisione e, se il tempo tiene, forse due passi ai giardini.

Mentre lui si stropiccia la faccia davanti allo specchio io cerco i segni della morte. È solo un gioco che faccio ogni tanto, forse un po' macabro, ma mi annoio e l'umore malmostoso di Attilio mi contagia e mi rende cattivo. Sono stanco del continuo dolore alle ginocchia, di alzarmi a pisciare due volte per notte e della malinconia del quotidiano.

Niente pallore, niente tachicardia, il respiro non è più corto del solito, non sento dolori nuovi. A meno di un improbabile, improvviso, crollo del palazzo o di un banale incidente domestico Attilio dovrebbe sopravvivere.

«Forse la scampi anche oggi, vecchio mio» gli dico mentre mi sento un po'in colpa per aver pensato, anche solo per un momento, che preferirei un compagno di sventura più giovane.

Ne ho avuti parecchi. Ho passato con loro gli ultimi momenti della vita e non sempre è stato il lento spegnersi di un anziano. Ho vissuto con ragazzi giovani, con un adolescente e con molti uomini nel fiore degli anni. Ho avuto parecchi incidenti, mezza dozzina di infarti, una volta mi hanno sparato e tre malattie terminali. Posso dire, con cognizione di causa, che non tutte le morti sono uguali.

Ricordo ognuno di loro. Quanti sono stati? Trentasette. Esattamente trentasette vite spezzate, la più breve che ho vissuto è durata neanche una settimana, la più lunga quasi un anno.

Il primo non me lo posso scordare. Filippo Antonio Berneschi, bello ,giovane e ricco rampollo di una famiglia di industriali emiliani. Tutto è iniziato così, subito dopo la fine - la mia fine, intendo.

Avevo quarantun anni quando è successo. Sì, sono morto giovane e quando è successo non mi aspettavo niente di che, certo non questa condanna.

Subito dopo la mia morte ricordo solo un gran buio. Freddo e buio. Me lo aspettavo, ho sempre oscillato dall'essere agnostico convinto ad ateo moderato, ma sul momento l'ho trovato un po' deludente. Una minuscola porzione del mio pensiero ancora sperava in una seconda occasione, non dico il paradiso, ma almeno qualcosa: un passaggio a una nuova vita, una reincarnazione, un secondo giro, qualcosa che non fosse solo tutto quel buio e tutto quel freddo.

Poi però una mattina mi sono svegliato nel corpo di qualcun altro. Filippo, appunto. In una camera luminosa, bello nudo di fianco al corpo altrettanto nudo e molto più bello della sua fidanzata. Il fugace pensiero di aver avuto una gran botta di culo non si era ancora del tutto formato nella mia testa che già avevo iniziato a percepire la fregatura. Nessun controllo, nessuna possibilità di partecipare. Come ricevere il più bello dei videogame e non trovare nella scatola il controller.

Mi piaceva Filippo, gran bravo ragazzo: leale, onesto e soprattutto umile nonostante che, al tavolo da poker che è la vita, il caso gli avesse messo in mano una scala reale. Quel genere di fortuna alla nascita che in molti crea l'illusione di essere migliori degli altri e li spinge a diventare dei veri stronzi.

Se fin da subito avevo capito di non aver avuto una seconda possibilità, mi ero in qualche in modo illuso di avere un ruolo. Supportavo Filippo, facevo il tifo per lui, lo consigliavo e a volte, in qualcosa che faceva, credevo che riuscisse a sentirmi. In un impeto di ottimismo mi autonominai suo consigliere. No, voglio essere del tutto onesto, arrivai a definirmi suo angelo custode, in barba al mio dichiarato scetticismo su ciò che riguardava divino e religione. Dopotutto ero lì e mi ero persuaso che la mia presenza, seppur intangibile, avesse una qualche utilità.

Per due gloriosi mesi tutto andò a meraviglia. Io ero parte della vita di Filippo, promuovevo le sue scelte, lo consigliavo quando lo vedevo indeciso, lo riprendevo quando sbagliava, gli gridavo contro quando mi faceva incazzare. E tutto l'impegno che ci mettevo mi lasciava l'illusione di fare davvero la differenza. Che fesso!

Il terzo mese giunse il tracollo. Filippo iniziò a non stare bene e il responso degli esami fu nefasto. Leucemia in una forma molto aggressiva. Di fronte a quello ogni mia velleità di essere in qualche modo di aiuto si infranse contro la più cupa delle realtà. Non potevo fare niente. Tutti i miei consigli, il mio impegno non erano serviti a nulla. Ero inutile.

Rimasi a guardare Filippo spegnersi lentamente, condividendo la sua paura, il suo dolore, invidiandogli il coraggio che mostrava di fronte ai suoi cari mentre tutti i tentativi di curarlo fallivano e fingersi ottimisti si faceva sempre più penoso. Ricordo gli ultimi faticosi respiri prima di spegnermi assieme a Filippo, ricordo che piansi per lui che non aveva più energie per farlo e per me che vigliaccamente provavo sollievo per poter tornare a quel buio che inizialmente avevo trovato così poco accogliente. È la vita a far paura, non la morte.

Ma il mio sollievo non è durato molto. Dopo una parentesi di oblio mi sono trovato ad aprire gli occhi con Danilo Turrisi, infarto fulminante sul campo da calcetto e poi con Riccardo Alemanni, incidente d'auto mentre rientrava dalle ferie assieme alla moglie e ai figli. Non ho mai saputo se almeno loro sono sopravvissuti.

Ce ne sono stati molti altri. Sono morto trentasette volte dopo la mia prima volta. Attilio sarà il numero trentotto e poi vedremo. Ho smesso da tempo di cercare di dare consigli che nessuno potrà sentire e che comunque non serviranno a niente. Ho smesso di credere che tutto questo abbia un senso o uno scopo. Per questo, a volte gioco a cercare i segni della morte o faccio scommesse con me stesso su cosa mi ucciderà. Devo solo aspettare che succeda un'altra volta.

Mentre io vado alla deriva nella mia autocommiserazione, Attilio si è preparato la colazione del lunedì mattina: biscotti secchi nel caffellatte. Li tuffa a coppie, aspetta che si disfacciano - un modo di mangiarli che personalmente trovo disgustoso - e nel frattempo si domanda se il pomeriggio precedente ha annaffiato i fiori in terrazza.

«Sì, li hai annaffiati» gli dico collaborativo, ma non importa. Non si sa come, il ricordo di altri fiori ha portato il pensiero di Attilio a virare di nuovo verso Agata. Ricorda la gioventù, lei a malapena ventenne sul carro della fiera con una corona di fiorellini di campo sulla testa, rammenta come la gonna si fosse alzata sulle gambe buttate di lato sul fieno. La memoria del desiderio provato allora per lei scatena una sequenza di pensieri che non ci si aspetterebbe da un uomo e un nonno come Attilio.

«Calma, calma o qui ci giochiamo le coronarie!» cerco di placarlo, divertito da tutta quella carica improvvisa. «Non mi sembra che sia il caso di pensare alle gambe di Agata a quest'ora del mattino. Ti vanno i biscotti di traverso!»

Attilio quasi si strozza, tossisce, facendoci sussultare di dolore per le costole mai del tutto guarite dall'incidente in acciaieria dell'82.Un brutto incidente davvero.

«Che ne dici se andiamo a comprare altri chiodi? Ne abbiamo quasi un secchio pieno e niente da inchiodare, ma credo che ad Agata farà piacere vederti» lo esorto, ma non sono del tutto onesto. La verità è che trovo deprimente l'idea di sedere in poltrona e guardare la televisione fino all'ora di pranzo.

Attilio tossisce ancora, quasi inizio a preoccuparmi, ma poi si riprende. Si asciuga la bocca col fazzoletto e sorride come un ragazzetto innamorato.

«Cosa avrai da ridere? Reggi a malapena il respiro tra i denti e pensi ancora alle donne?» lo prendo in giro, sollevato. «Non credo che riusciresti a sopravvivere a quello che hai appena pensato di fare con lei, lo sai vero?»

Suonano al campanello. Forse è sua figlia, fa la parrucchiera e il lunedì è il suo giorno libero. Anche Attilio lo spera, ma è solo il postino. Provo la sua stessa delusione, ma a differenza di lui non ho l'amore paterno a mitigare la stizza.

«Che stronza!» impreco.

Attilio riappende la cornetta del citofono con inusitata veemenza, tanto da farla saltare via dal supporto e cadere, trattenuta dal filo. Quasi che la mia rabbia lo abbia contagiato. È sorpreso quanto me per la reazione avuta.

Se non avessi la certezza che non può essere, mi illuderei che sia stato a causa mia.

«Usciamo lo stesso. Fregatene» provo a scuoterlo, ma sento già la rinuncia dentro di lui. Se prima l'idea di uscire poteva ancora saltare fuori, ora la cosa è definitivamente naufragata.

Niente più Agata, niente più fiori. Poltrona, telecomando e sprofondiamo assieme nel baratro dei programmi tv.

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