2-2 la mia Firenze

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Genni sale a bordo, infila le mani in tasca e si lascia cadere su uno dei posti vuoti. L'autobus vibra e poi riparte. Gli occhi di Genni osservano, senza vederli, i palazzi che sfilano uno dietro l'altro mentre l'autobus acquista velocità, la mano destra giocherella con il groviglio dei fili dell'auricolare, la sinistra stringe il cellulare. I suoi pensieri sono frammentari, si intricano e si annodano peggio della matassa informe dell'auricolare ficcata infondo alla tasca. Se provassi a seguirli, per conoscerla meglio, sono sicuro che farei una gran fatica, ma in questo momento sono distratto da altro. Sto pensando a casa mia, alla mia strada, a quanto sia assurdo trovarmi qui a vedere attraverso gli occhi di qualcun altro i posti della mia vita. Dopo la mia morte ne ho visti tanti di posti, molti di più di quanti ne abbia visti in vita. Sono stato in buona parte d'Italia, da sud a nord. Una volta mi sono trovato in Germania con Enrico Tazzoli, ricercatore con borsa di studio, morto investito. Sono arrivato addirittura in Argentina nella vita di Jeremy Antonioli, emigrato di seconda generazione, morto per una puntura d'ape. Sempre italiani. Sembra che almeno nella morte io sia molto patriottico, sentimento che in vita non ho mai provato. Comunque non ero mai tornato nella mia Toscana, né tantomeno nella mia Firenze, la città in cui sono nato e vissuto.

Corinna. Il pensiero successivo è per lei. Sono trascorsi diciotto anni, quindi ha cinquantaquattro anni e molti più capelli bianchi di cui lamentarsi, ma sono sicuro che la troverei ancora bella come quando ci siamo innamorati. Chissà se vive ancora qui, se lavora ancora nello stesso studio di commercialisti, se vede ancora Amanda, la mia migliore amica dei tempi del liceo, quella che poi è divenuta la sua migliore amica. Mi domando soprattutto se scopi ancora col suo principale.

«Che stronza!» borbotto, e siccome mi piace la sensazione che mi dà dirlo, lo ripeto con più convinzione. «Grande, grandissima stronza!»

Genni infila gli auricolari e io mi ritrovo nelle orecchie dei tizi sconosciuti, che in stereo vomitano strofe prive di senso su una base musicale che a me suona piacevole come una scatola di stoviglie rovesciata a terra. È davvero possibile appassionarsi a questo genere di musica?

«Non hai niente di meglio nella playlist?»

Per tutta risposta Genni alza il volume e si mette a scorrere i social sul cellulare. Scende cinque fermate dopo. Siamo in periferia, conosco bene la zona, ogni tanto passavo da queste parti. Lei si incammina, ha un passo veloce e la musica ancora a isolarla dal resto del mondo. Siamo diretti verso un negozio di tatuaggi, oggi la sua amica Becca fa il suo quinto e sebbene non sia il primo ballo con l'ago, è un bel po' nervosa. So tutto questo non perché sia riuscito a "leggerlo" nei pensieri di Genni, più semplicemente l'ho letto dalle chat sul cellulare. Per questo so anche che, una volta tenuta la mano a Becca, avremo un colloquio di lavoro in un bar. Un certo Sergio ci ha scritto di fargli sapere come va. Genni ha storto la bocca quando ha letto il messaggio e ha messo via il cellulare.

Rebecca, detta Becca, è una tipetta minuta in jeans e camicia, capelli corti e trucco dark. Saluta Genni appena la vede svoltare l'angolo e le viene incontro.

Le due si salutano, entrambe con le mani in tasca, quasi svogliate, ma finalmente percepisco qualcosa di distinto e netto nella mente di Genni: un profondo affetto. A dispetto del saluto freddino, sono amiche di lunga data e l'atteggiamento di finto distacco è solo il loro modo di stare assieme.

Le lascio a parlare tra di loro e torno a pensare al fatto di trovarmi così vicino a quella che è stata casa mia. Per la prima volta di nuovo a Firenze e per la prima volta nel corpo di una donna. Lo so già che non dovrei cercare un senso in tutto questo, che il caso mi ha giocato solo un altro dei suoi tiri curvi, ma non riesco a fare a meno di voler credere che ci sia una sorta di disegno, un piano, un organizzatore - alla faccia del mio dichiarato ateismo -, qualcuno che mi ha portato qua. Anche se so che alla fine mi farò solo del male, continuo a ripetermi che non può essere solo un caso.

Analizziamo i fatti. Diciotto anni fa sono morto a meno di trenta metri da dove vive oggi Genni. Lo ricordo perfettamente.

Era un pomeriggio caldo e io ero di furia, ma non ricordo per quale motivo né dove stessi andando. Ricordo che ero un bel po' agitato anche se non so per cosa, e di aver sbattuto più volte la bici contro il portone prima di riuscire a uscire. Il ricordo del mio ultimo minuto di vita è nitido come una ripresa in alta definizione, ricordo la bici che brilla azzurra sotto il sole, i pedali che mi sfuggono da sotto i piedi mentre impreco, la ragazza sul marciapiede che si sposta per non farsi colpire dalla ruota anteriore mentre invado il marciapiede come uno stronzo. I giorni precedenti invece sono sfocati e distorti come un sogno. O forse meglio dire un incubo? Immagini allungate ed echi di voci mi rotolano nella testa senza fissarsi in niente di comprensibile. Che cazzo era successo per farmi essere così fuori di me? Qualcosa che riguardava Corinna? Sono quasi sicuro che la stronza c'entra pure con la mia fine da fesso.

Ricordo di aver replicato al commento acido della ragazza sul mio invadente balzo in sella, di essere sceso dal marciapiede con una mano sul manubrio e una a indicare alla ragazza la direzione da prendere per andarsene a fanculo. Non il migliore dei miei momenti, e purtroppo anche l'ultimo. Sceso dal marciapiede sono già nel traffico, ma troppo impegnato a essere un vero stronzo non guardo dove vado e certo non mi salvano i riflessi dell'ottuagenaria a bordo della Panda che mi prende in pieno. Un banale incidente stradale: ciclista contro auto. La velocità è ridotta, ma la mia testa centra il marciapiede e io ovviamente non ho il caschetto. Ricordo distintamente il mio ultimo pensiero «Che cazzo, signora!» tutto rivolto alla vecchietta che dopo avermi bocciato devia e travolge un cassonetto. Ricordo anche l'ultima cosa che ho visto: il volto della ragazza sul marciapiede; nel suo sguardo un misto di sorpresa e orrore, con appena un'ombra di "te lo sei meritato stronzo!"

Ecco la mia banale, quasi imbarazzante, morte. Trovo difficile vedere un collegamento con la mia attuale situazione. Spero non sia solo per la mia infelice uscita dal portone, e dal palco della vita, che qualcuno- stai a vedere che divento credente - mi ha condannato a questo perpetuo reiterarsi di morte.

Facendo un ulteriore passo indietro, volendo credere a qualcuno (o qualcosa) che tiene il conto di bene e male, o a qualunque nesso tra quello che fai da vivo e quello che succede quando muori, definirei la mia vita e il bilancio delle mie azioni, nella media. Tanto nella media da risultare quasi noiosa. Eccessi di gioventù piuttosto contenuti, non sono mai stato uno a cui piace esagerare o mettersi troppo in mostra; numero di avventure sentimentali inferiore al numero di dita in una mano, le ragazze sono sempre state un mistero per me; vita adulta regolata, un lavoro stabile, un solo amore, Corinna - la stronza - e nessuna sbandata degna di nota. Messa giù così sembra anche un po' deprimente, forse lo era, ma sto divagando.

Tirando le fila, non voglio dire che fossi una brava persona, questo dovrebbe dirlo chi mi ha conosciuto da vivo, ma comunque posso asserire con buona certezza di non aver fatto niente che faccia pensare al fatto che mi sia meritato questa schifosa non-fine.

Concluderei che non ho alcuna spiegazione di come sia finito qui né che senso abbia essere di nuovo a Firenze, così vicino al luogo in cui sono morto. Non ne ho davvero la più pallida idea. Se qualcuno (o qualcosa) mi ha messo su questa giostra è il caso che sia un tantino più chiaro, se ci sono delle istruzioni da seguire, una multa da pagare o una penitenza da espiare.

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