12-2

92 31 64
                                    


Ci vuole un numero di pasti compresi tra otto e dodici prima che mi meriti di nuovo il privilegio di uscire dalla mia stanzetta. Non sono sicuro del numero perché le cose si sono mescolate un bel po' nella mia testa in questi ultimi giorni. Sono un assassino? Me lo domando spesso ultimamente. Ho ucciso Corinna? E gli altri? Come? E questo è davvero un manicomio? Non li avevano chiusi, i manicomi? E le stanze imbottite? Ci sono davvero le stanze imbottite come questa? Tutto questo è reale? O è più probabile che io sia veramente morto e poi abbia vissuto nella testa di trentotto uomini per morire con loro? Cazzo, messa così sembra veramente una totale follia. Caro signor Ignoto Landi ci spiace comunicarle che lei è pazzo da legare. Ma se io sono qui vuol dire che Genni è salva? Trentotto, non trentanove, ha detto Dentigialli. È mai esistita una Genni di Gennaro? Che nome assurdo.

Silenzio mi afferra per un braccio e mi conduce fuori. Con un certo sollievo oggi andiamo a sinistra. Niente terapia con l'esimio Dottor Dentigialli. A sinistra ci sono altre stanze per i pazienti, la porta a vetri che dà sulle scale, la saletta degli infermieri e soprattutto la sala della tv.

È uno stanzone ampio, con grandi finestre dotate di robuste sbarre e un certo numero di tavoli sparsi. La televisione, un dinosauro a tubo catodico, se ne sta relegata in un angolo, con lo schermo sempre acceso che trasmette solo interferenze. Le sedie davanti ad essa sono vuote, a uno dei tavoli è seduto Storto e davanti alla finestra c'è Giovanna.

Silenzio mi lascia andare, non prima di avermi indicato a Golfino, l'infermiera che se ne sta a sferruzzare dietro al vetro della saletta di guardia. Mi guardo attorno in cerca di altri ospiti, magari qualche faccia nuova, ma non c'è nessun altro quest'oggi. La mia conta dei pazienti è ferma a sei, quella degli infermieri a tre.

Evito Storto che non fa altro che stare con la testa piegata su un lato a sbavarsi sui vestiti e mi affianco a Giovanna, intenta a guardare fuori.

Si vede sempre il solito parco vuoto, il prato pieno di sterpaglie invaso da pezzi di plastica e gli alberi smorti sul fondo. A quanto pare è nuvoloso anche oggi.

«Forse sono un assassino» dico, più rivolto al vetro che a Giovanna. Lei non si è mai mossa di lì da quando sono arrivato, mai detto una parola o dato cenno di essere consapevole della mia presenza. Non si chiama nemmeno Giovanna, ma assomiglia molto a una mia vecchia collega e da lì il nome che le ho dato.

«Forse sono un pazzo e un assassino» lo ripeto e stavolta mi volto verso di lei. Vedo che guarda lontano, chissà cosa vede; il respiro le si condensa sul vetro davanti al viso, tanto è vicina.

«Così non vedi tutto annebbiato?» le domando.

Parlare con qualcuno che ti ascolta è di conforto anche se quel qualcuno non ti considera o, come nel caso di Giovanna, non è neppure conscio del fatto che gli stai parlando. Non le avevo mai rivolto la parola, ma da quando Silenzio mi ha trascinato fuori dall'ufficio di Dentigialli le cose tra noi non sono più come prima.

«Forse dovresti fare mezzo passo indietro» le consiglio, ma lei sta bene dove sta.

Mi stringo nelle spalle, dentro la mia camicia di forza.

«Sembra che io abbia ucciso la mia compagna, Corinna, ma non ne ho memoria. Ho dei ricordi frammentari, immagini che mi provocano una grande angoscia, ma non mi ricordo niente di quello che ho fatto. Ci credi?»

Giovanna guarda fuori. Il suo respiro fa allargare la nuvola di vapore sul vetro.

«Be', sì, sono d'accordo. È assurdo non ricordarlo. Eppure non è la parte peggiore di quello che ho fatto. A quanto pare, dopo Corinna ho ucciso altre trentotto persone. Questo riesci a crederlo?»

Giovanna sbatte gli occhi. Sono grandi, azzurri. Mi piace parlare con lei. Molto meglio che con Silenzio.

«Già, sembra una vera follia, anche perché io ricordo tutta un'altra storia. La vuoi sentire?»

Giovanna osserva il parco, forse gli alberi, forse cose visibili solo ai suoi occhi, ma sono certo che ascolterà volentieri la mia storia e io ho bisogno di raccontarla a qualcuno. Inizio da quello che ricordo come il mio ultimo giorno, gli parlo di Filippo, di Danilo e di tutti gli altri fino ad arrivare a Attilio e a Genni.

«Lei sarebbe stata la numero trentanove. La mia prima ragazza. Non sai quanto sono felice che non sia morta anche lei. Era davvero speciale, una tipa in gamba.»

Giovanna solleva una mano e la appoggia al vetro, come se qualcosa là fuori avesse attratto la sua attenzione. Il suo naso lascia un segno nella nuvola di vapore.

«Parlavamo, io e lei. Intendiamoci, non è sempre andato tutto bene tra noi, ma mi manca non sentirla più e la cosa peggiore è che non so nemmeno se sia mai esistita.»

«Giorno di visita» dice all'improvviso Giovanna. «Giorno di visita» ripete e si appoggia col viso contro il vetro.

«C'è un giorno di visita?» le domando.

«Giorno di visita» dice ancora Giovanna, stendendo le braccia contro la finestra come volesse abbracciarla.

«Grazie» dico a Giovanna e mi metto a guardare anch'io il parco. Non ci avevo mai fatto caso, ma c'è un cancello che si intravede tra gli alberi. Deve essere quello l'ingresso per i visitatori. Lo guardo incuriosito: è un imponente cancello con robuste sbarre dritte, grigio scuro senza nessun decoro; a essere onesti non ha l'aria di un accesso, sembra più la cancellata di una prigione, qualcosa di adatto a impedire una fuga piuttosto che l'ingresso di chicchessia. E poi chi dovrebbe venirmi a trovare? Genni? Osservo ancora gli alberi che coprono il cancello alla vista dalla sala della tv, non sono molti, in effetti, il cancello si vede abbastanza bene. Come ho fatto a non vederlo prima? Ho già guardato fuori da questa finestra e non l'avevo visto. Datemi del pazzo – facile, ho una camicia di forza – ma sono quasi sicuro che fino all'ultima volta che sono stato qui, no anzi, fino a dieci minuti fa, quel cancello non ci fosse.

«Tu lo vedi?» domando a Giovanna, scosso da un brivido.

«Giorno di visita» ripete Giovanna dondolando la testa, tracciando col naso due linee curve nel vapore sul vetro, sembrano una bocca sorridente, un sorriso pieno di denti gialli.

«Capisco» annuisco con lo stomaco stretto da un nodo e un'improvvisa certezza. Se Genni dovesse venire, lui la prenderebbe.

CrepeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora