3-1 le strade della memoria

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Genni sta dormendo rannicchiata sul letto. Si è assopita da poco, guardando filmati sul cellulare; li sento ancora scorrere dietro le palpebre socchiuse. Erano quasi le due di notte l'ultima volta che ho visto l'ora, ma il sonno calato su Genni non mi ha coinvolto. Intrappolato nel corpo inerte della ragazza faccio l'unica cosa che mi è consentita, lascio correre l'immaginazione per ammazzare il tempo.

Dopo l'ultima volta non ho nessuna voglia di tornare nel mio personale luna park, ma posso fare due passi tra le strade della mia memoria, i posti che mi sono stati cari in vita. Il primo che mi viene in mente è la spiaggia dove io e Corinna eravamo soliti trascorrere le nostre brevi fughe dalla città. Nessun luogo paradisiaco, una comune lingua di sabbia distesa tra la linea arruffata dei cespugli sulle dune e la schiuma delle onde sulla battigia. Eppure era il nostro posto e lì siamo stati felici. Corinna ovviamente non c'è – la stronza – ma passeggiando trovo l'asciugamano su cui era solita sdraiarsi. Lo ricordo bene, bianco e azzurro con una grande conchiglia al centro. O erano gabbiani? L'immagine cambia un paio di volte cercando di convincere la mia memoria fino a quando non lascio perdere. Non è così importante ricordare quell'asciugamano. Mi guardo attorno respirando l'aria salmastra portata dal vento. Di solito vedo degli ombrelloni in lontananza, ma a parte me oggi non c'è nessuno e così resto in pace a guardare le nubi all'orizzonte, cullato dal suono della risacca. Quando guardo di nuovo verso la spiaggia vedo che adesso c'è qualcuno poco distante, steso sulla sabbia. Sembra che la mia fantasia abbia deciso che ho bisogno di un po' di compagnia, anche se di una conoscenza immaginaria si tratta. Mi incammino facendomi schermo con la mano dal sole che d'improvviso mi abbaglia. Il qualcuno è un lui, vedo la sua figura alzarsi dall'asciugamano su cui è steso, solleva la mano e mi saluta. A quanto pare mi conosce. Repentino come è comparso, il sole scompare dietro una nuvola e mi lascia lì come un idiota a fissare il ragazzo che mi saluta. Lo conosco anche io e vederlo lì mi fa così male da non riuscire più nemmeno a respirare.

«Finalmente ti conosco» mi dice con un sorriso stanco «Abbiamo passato tanto tempo assieme e non ti avevo mai visto.»

È Filippo Antonio Berneschi, il mio primo compagno di sventura. Apro la bocca, ma non so che dire e comunque ho la lingua come inchiodata al palato.

«Già, dimenticavo che tu non parli molto» annuisce Filippo «Sai, mi avrebbe fatto piacere qualche parola di conforto in più, nei lunghi giorni all'ospedale quando restavamo soli, io e te.»

Noto che non è steso su un asciugamano, ma su un lenzuolo d'ospedale. Quando torno a guardarlo ha di nuovo l'aspetto emaciato degli ultimi giorni, prima della fine. Nell'aria adesso aleggia l'odore di disinfettante. Puzza di ospedale. Sento di voler piangere ma non riesco, vorrei dirgli qualcosa ma la mia mente è vuota e il respiro ancora bloccato in fondo ai polmoni.

«Va tutto bene» mi sorride Filippo e torna a stendersi sulla spiaggia, con le braccia che gli tremano per lo sforzo. «Tutto bene» ripete e chiude gli occhi gonfi sotto il sole.

Un attimo dopo sono di nuovo solo.

«Cazzo!» esplodo sputando fuori il fiato assieme all'imprecazione. «Cazzo» ripeto piegandomi in avanti, portandomi le mani alla testa. Crollo in ginocchio sulla sabbia.

«Vaffanculo!» impreco, furioso con la mia fantasia per quello che mi ha appena fatto vedere. «VAFFANCULO!» grido, rivolto a nessuno e abbatto i pugni sulla sabbia, ancora incapace di dare sfogo a tutto quello che mi sta divorando da dentro. Resto lì, inginocchiato, prostrato su una sabbia che non esiste ad ascoltare il ricordo del suono della risacca fino a quando una voce squillante non mi riscuote.

«Posso offrirle un gelato, signore?»

Riconosco la voce prima di vedere il panino di denti gialli sorridermi dalla bocca dell'uomo. Mi rialzo di scatto, scosso da un brivido e mi allontano di un passo. Il bigliettaio del luna park è davanti a me con indosso una divisa bianca da gelataio e mi sorride.

«Abbiamo il cono, lo stecco o il biscotto. Che preferisce signore?» mi domanda come se gli occhi stralunati con cui lo fisso potessero essere parte di un'espressione normale.

Scuoto la testa, non solo perché non voglio il suo fottuto gelato, ma per negare tutto quello che sta succedendo. Voglio solo svegliarmi (ma sto dormendo?), invece resto lì davanti alla faccia sorridente del bigliettaio-gelataio che mi osserva in attesa di una risposta. Ha occhi grandi e azzurri, assurdamente sgranati, come se tenerli semplicemente aperti non gli bastasse. «Signore?» domanda ancora, in attesa di una risposta e mi sorride un po' di più mostrandomi altra superficie di quella dentatura abnorme.

«Non voglio niente» dico con una voce che non sembra la mia. «Niente» ripeto, perché quegli occhi azzurri continuano a fissarmi.

«Ne è sicuro?» sorride ancora di più il bigliettaio-gelataio e per un assurdo momento sono quasi sicuro che tutta la faccia dell'uomo si stenderà fino a scomparire attorno a quei denti gialli.

«Sicuro» annuisco, cercando stavolta di farlo con un tono di voce normale.

«Come vuole» dice il bigliettaio-gelataio e per un attimo non sorride più. «Comunque passerò di nuovo, più tardi, se cambia idea.»

Detto questo, si volta e si allontana lungo la spiaggia deserta. Io faccio un passo indietro senza riuscire a distogliere lo sguardo dalla figura bianca che cammina sulla battigia, con la sua scatola di gelati a tracolla. Pochi attimi ed è già lontano. Solo allora faccio un altro passo all'indietro e mi volto per andarmene. Nel farlo urto contro qualcuno. È Genni. Mi guarda sorpresa.

Genni spalanca gli occhi di soprassalto e si tira su a sedere, riportando anche me nella sua camera. Dal cuore che le batte all'impazzata e il respiro corto deduco che abbia fatto un incubo.

«Non so che cosa hai sognato, ma fidati il mio è stato peggio» le dico.

Genni emette un gemito inarticolato e rovescia metà delle cose ammassate sul comodino prima di riuscire ad accendere la luce. Ha ancora il respiro corto e veloce a causa del panico. Deve essere stato brutto anche il suo.

«È stato solo un incubo» mi viene da rassicurarla. Lo dico con voce il  più possibile calma e al tempo stesso lo ripeto anche a me. Non riesco ancora a togliermi di dosso l'angoscia e la paura. Genni si prende la testa tra le mani, le sfugge un lamento e inizia a singhiozzare. Un attimo dopo la porta si apre e si affaccia Nina. «Genni, che succede?»

Genni scuote la testa cercando di dire che non è niente, ma quando Nina viene a sedersi sul letto le si getta tra le braccia e riprende a piangere più forte di prima.

Ci vuole un po' perché si calmi nell'abbraccio della ragazza.

«Era solo un incubo» le dice Nina cullandola tra le braccia. Genni annuisce, ma sento che ha ancora paura. Si stringe più forte a Nina quando lei fa per sciogliersi dal suo abbraccio.

«Ok, ok» capitola Nina. «Ma sia chiaro che questo è un evento eccezionale. Adesso fammi posto.»

Genni si sposta per farla stendere a fianco a lei e torna ad abbracciarla.

«Ehi, piano!» la prende un po' in giro Nina. «Mani a posto! Ricorda che siamo solo coinquiline.» Riesce a farle fare una smorfia che potrebbe sembrare un sorriso.

«Non sei neppure il mio tipo» aggiunge Nina e stavolta Genni sorride davvero.

Si sistemano nel letto. «Ne vuoi parlare?» domanda Nina quando Genni le impedisce di spegnere l'abat-jour. Lei scuote la testa tornando a sistemarsi nel suo abbraccio.


Stanno quasi per assopirsi quando nell'appartamento, di nuovo silenzioso, si ode improvviso un brontolio cavernoso. Le due ragazze si riscuotono, si guardano: è Dado che russa beato, ignaro di tutto. Nina scoppia a ridere e questo fa cedere anche Genni. Alla fine si addormentano e io resto da solo nell'oscurità dietro le palpebre. Non credo che riuscirò a dormire stanotte.

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