Capitolo 4

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L'ultima cosa che Diana ricordava era l'inquietante espressione riso-piangente di Cristina, accovacciata sotto al tavolo mentre il terremoto prendeva il sopravvento sulla situazione, spargendo panico ovunque.

Poi, il vuoto.

Aveva sognato per tutto il tempo, sebbene non sapesse definirne la quantità, una serie di immagini rese sfocate dalla velocità con cui cambiavano che era tanta quanta il fastidio che le procurava: molta. Le intro dei film Marvel a confronto erano nulla (eppure si ritrovava obbligata a distogliere lo sguardo per evitare un istantaneo mal di testa e nausea).

Sfortunatamente era una cosa ricorrente di quando aveva la febbre ma, quella volta, era stato mille volte peggio e la sua testa pesava come se cementificata e pulsava. Infatti, pur essendo sveglia, non era intenzionata ad aprire gli occhi e incontrare direttamente la luce: la infastidiva già così! In più percepiva un lieve senso di vertigini e il bruciore allo stomaco persisteva, anche se era diventato più che sopportabile: si sentiva come se avesse appena mangiato piccante e si fosse spinta appena oltre il limite di sopportazione.

Aveva capito di essere distesa su un letto ma che non le apparteneva: allungando il braccio destro non incontrava il muro ma il materasso era molto più grande del suo. Forse era in camera di zia Marta, sul suo letto matrimoniale.

Stranamente non sentiva Pablo russare e, tentando di attirare la sua attenzione con dei deboli colpetti sulla coperta, non lo sentiva né arrivare, né tentare di salire sul letto esibendosi in buffi saltelli che si sarebbero poi trasformati in altrettanto buffi lamenti intesi come richiesta d'aiuto.

Non accadde nulla di tutto ciò e un po' le dispiacque.

Sospirò, rigirandosi e sistemandosi le coperte pesanti fin sopra le orecchie, tentando di trovare la forza di chiamare la zia o Riccardo per poter chiedere un'aspirina.

Riuscì ad aprire la bocca dopo mezz'ora di tentativi o, meglio, le parve d'impiegare tutto quel tempo: -Ric?- Chiamò ma, dalle sue labbra, uscì qualcosa di più simile a un lamento. Provò a schiarirsi la gola ma si rivelò essere un gesto tanto faticoso quanto doloroso: ci riuscì ma si guadagnò una fitta alla testa degna di nota.

-Riiic?- Andò meglio, anche se aggiunse qualche i di troppo. Attese il tempo che attese, sperando di sentire i passi del cugino raggiungere la stanza in cui si trovava.

Effettivamente, dei passi parvero farsi sentire, anche se parecchio deboli e anche lenti ma, nessuno, si fece vivo. Diana decise di tentare di nuovo. –Ric? - Chiamò, riuscendo ad alzare di poco la voce.

Attese, di nuovo.

 I passi che pareva aver sentito poco fa si fecero più concreti, molto più chiari: qualcuno era di fuori e anche vicino alla porta ma, invece di aprirla, parve allontanarsi, scendendo delle scale che in casa di zia Marta non c'erano, essendo un semplice appartamento al secondo piano di un palazzo.

Scale? Qualcuno va giù. Chi? Dove sono? Ho troppo sonno per avere ansia. Pensò, tentando di aprire gli occhi ma inutilmente: aveva le palpebre serrate e non avevano la minima intenzione di muoversi neanche di un millimetro.

-Sicuro che sia sveglia? - La voce di Ester. L'avrebbe distinta tra mille. Era a casa sua? Perché non a casa di Marta? Diana non era mai andata a casa di Ester, si rese conto all'improvviso: era abituata a vederla a scuola e da sempre, man mano che il loro rapporto si stringeva, era sempre Ester a rimanere da Diana e non viceversa.

-L'ho sentita parlare. Pareva chiamar qualcuno- una voce maschile che Diana avrebbe dato a un ragazzo sui vent'anni, anche se a scuola vi erano alcuni ragazzi del primo anno che avevano una voce molto più profonda rispetto a quelli più grandi.

Le Cronache Delle Streghe- Libro primoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora