Capitolo 13

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Non sei a Rieti. Quelle parole risuonavano nella testa di Diana in continuazione, anche quando si lasciò andare al pianto, una volta lasciata sola in casa.
Se non si trovava a Rieti, allora dove? Ester le aveva detto che, il giorno del terremoto, a seguito dello svenimento, aveva deciso di portarla nel luogo più vicino a lei conosciuto. Era chiaramente una cazzata, di questo se ne era resa conto quando, affacciandosi dalla finestra della camera in cui aveva passato ben quattro giorni, si era trovata in una zona completamente diversa.

Un'area con tale verde, nella sua mente dalla limitata conoscenza del territorio reatino, l'associava alla Piana, fuori dalla città, dove strutture isolate come la casa dell'anziana signora erano molto frequenti. Forse è a quello che il ragazzo si riferiva con quella frase: non era a Rieti nel senso che non era in città ma ciò non cambiava poi molto la situazione, perché zia Marta aveva la macchina, sapeva guidare, così come Ric e anche Seba.

Perché i primi non si erano fatti vedere? I cellulari non prendevano, il proprio era ormai freddo come la morte e giaceva abbandonato sul comodino accanto al letto, ma Ester aveva detto che la zia era a conoscenza di tutto, dunque, perché non passare nemmeno per un saluto?
Si sentiva abbandonata, di nuovo.

Già crescere senza madre, di cui non era mai riuscita a sapere granché, non era facile: adorava la zia, stava bene con lei e Riccardo era più un fratello che un cugino, ma c'era sempre quella curiosità, un senso di mancanza represso, nel cercare d'immaginare i propri genitori e a cosa fosse loro accaduto. La zia non riusciva a parlarne: nelle poche volte in cui una piccola e poi preadolescente Diana aveva tentato di chiedere dove fossero, la zia aveva risposto che erano lontani.

Lontani per non dire morti? Se era destinata a non incontrarli mai, avrebbe fatto pace con la cosa molto più facilmente se Marta le avesse confessato che sì, i suoi genitori erano morti e la parola lontani era una semplice scusa per non traumatizzarla quando era ancora troppo piccola per capire certe cose. Adesso, nonostante avesse smesso di fare domande, avrebbe detto di comprendere meglio e superare più facilmente la morte anziché l'abbandono, la sensazione di non trovarsi da una parte specifica ma in sospeso tra due, mossa da una leggera oscillazione destinata a indebolirsi man mano che cresceva, inevitabilmente incompleta.

Forse era anche per quello che il non avere risposte veloci e soddisfacenti alle proprie domande la innervosiva così tanto, fino a ridurla, beh, nello stato penoso in cui si trovava e sentiva. Ester, il fratello, la nonna, tutti e tre non avevano risposto alle sue domande, dando forma a un ammasso di frustrazione più che giustificata ma che, poi aveva preso il sopravvento.

Rannicchiata sulla sedia della cucina, sentì la porta sbattere di nuovo, poi dei passi avvicinarsi lentamente. Diana soffocò i singhiozzi, alzò il capo e attese di vedere di chi si trattasse. Possibile che il fratello di Ester avesse già fatto ritorno?

Sì, a quanto pare, perché proprio lui fece timidamente capolino.

Diana si passò la manica del vestito prestatole da Ester sul volto, asciugandosi le lacrime. Il volto del ragazzo era paonazzo, l'espressione mortificata in volto. Si avvicinò di qualche passo, cauto.
-Mi sono rigirato, ho pensato non fosse una buona idea lasciarti sola in queste condizioni. -La sua voce era stranamente ferma, forse quello era il suo tono normale, dato che Diana lo aveva sempre sentito parlare con tono incerto e volume basso.

Sentirlo parlare in quel modo gli conferiva quasi un aspetto fisico completamente diverso, sebbene la postura leggermente incurvata in avanti, le spalle chiuse e l'espressione che probabilmente aveva assorbito anche l'incertezza presente nella voce, lo rendevano il ragazzo con cui aveva cercato di non avere a che fare i quei giorni passati.

-Per paura di ritrovare la casa distrutta al tuo ritorno?

-No, ma...ti ho sentita piangere, non volevo lasciarti sola. -Quelle parole la sorpresero e l'altro, probabilmente, se ne accorse. Arrossì ancora di più, la sua mano sinistra tornò a dedicarsi alla tortura degli innocenti bottoni della camicia.

-Grazie. -Riuscì a dire Diana, distogliendo lo sguardo. Si schiarì la voce. -Sai quando tornerà Ester? Vorrei parlare con lei, soprattutto di ieri.

Il diretto interessato borbottò qualcosa che Diana non comprese, lo vide alzare gli occhi al cielo per una frazione di secondo con fare pensieroso.
-Vuoi venire a casa nostra? Così potrai parlarle. Sarà una strada un po' lunga da fare a piedi ma è molto semplice.

A quelle parole, Diana si sentì assalire dalla vergogna. Pensare di incontrare i genitori dei due dopo la serata precedente? Assolutamente no!

-Ehm...dopo la figura fatta ieri non credo di poter...

-I miei sanno che ti sei sentita male. Nessuno ha sentito le tue parole al di fuori di Ester. – La postura tesa di Diana si sciolse, con un notevole peso in meno.

-Allora sì, va bene. Camminare un po' non mi dispiacerebbe, tra le altre cose. -Così cercherò di capire dove mi trovo e, nella speranza di orientarmi, potrò muovermi per andarmene da qui. Pensò, alzandosi in piedi.

-Non hai mangiato, portati una fetta di torta o, beh, quelle che vuoi. – Il ragazzo la superò, avvicinandosi alla credenza e aprendo un cassetto, da cui recuperò un tovagliolo che fu steso sul tavolo per ospitare la porzione di torta che Diana tagliò: scese la crostata alla crema e cannella.

-Grazie...ehm... -Il suo nome proprio non voleva entrarle in testa!

-Niccolò.

-Niccolò, certo...grazie Niccolò. – Diana cercò d'imprimerselo nella mente. Niccolò, Niccolò, Niccolò... nel ripeterselo mentalmente, si rese conto di trovare molto fastidioso pronunciare la doppia c, come se fosse di troppo, rendendo quel suono poco piacevole.

-Non c'è di che.

I due si diressero all'ingresso, dove la mantella che Ester aveva prestato all'amica era appesa a un gancio. Diana, reprimendo la domanda "Non è meglio una giacca?" la indossò e, con non poche difficoltà, date proprio dalla stoffa che s'intrometteva, addentò la crostata.
Quel dolce era la prima cosa bella e soprattutto buona della giornata.

Le Cronache Delle Streghe- Libro primoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora