CAPITOLO 1. PERSA

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Pov Sana.


Ero scappata, ancora una volta. Ero scappata dalla mia vita e non me ne vergognavo. Avevo diciotto anni e tutta la mia esistenza mi aveva portato solo sofferenza. Tanta fama indubbiamente,visto che il mio lavoro di attrice di quella me n'aveva data abbastanza, a volte anche troppa, ma anche tanta sofferenza. Naozumi Kamura mi aveva spezzata il cuore, dopo tre anni e mezzo aveva magicamente deciso che la nostra storia non era abbastanza solida per poter continuare. Che significa poi che una storia deve essere solida? Io credevo che tutto si riducesse all'amore, che senza quello niente sarebbe potuto andare bene. Eppure Naozumi mi aveva dato come spiegazione un semplice 'Ti amo, ma non possiamo stare insieme!'.
Non mi aveva più risposto alle chiamate, aveva cestinato i miei messaggi e ignorato le mie e-mail. Ad un certo punto avevo smesso di provare a contattarlo e, dopo un po', avevo smesso proprio di esistere per lui. Fino ad allora c'ero riuscita abbastanza bene, non avevo di certo intenzione di farmi rovinare la mia esperienza universitaria dalla rottura con Naozumi Kamura.
Avevo scelto di eliminare per un po' dalle mie priorità il mio lavoro: avevo soldi a sufficienza per pagare i miei studi, specializzazione inclusa, e per vivere serenamente per almeno cinque o sei anni dopo la fine dell'università. Insomma, non avrei dovuto preoccuparmi di lavorare per i successivi quindici anni. Alla mia età quasi nessuna star possedeva così tanti soldi ma dovevo ammettere che la mia carriera era stata piuttosto brillante. Fino ad allora, quindi, avrei studiato, mi sarei laureata, avrei rivoluzionato il mio mondo e sarei stata felice. Si, questo era il mio programma.
Ero arrivata al dormitorio dopo aver guidato per circa due ore verso la mia facoltà con in sottofondo 'Accidentally in love' dei Counting Crownes. Altro che accidentalmente in amore, ci ero caduta con tutte le scarpe e pure di mia spontanea volontà. Sistemando la mia roba riflettevo un po' sulla mia relazione con Kamura: eravamo due bambini quando ci spiavamo di nascosto dai camerini dei vari sceneggiati che interpretavamo insieme e siamo diventati grandi tra le mura di quegli studi televisivi che hanno conosciuto fin dall'inizio quello che io credevo fosse amore. Un vecchio proverbio diceva "Se qualcuno smette di esserti amico, allora significa che non lo è mai stato!". Col tempo avevo capito che questo detto era applicabile anche ai fidanzati: se mi ha lasciato non era amore e di questo ero più che sicura.
Ma se avessi dovuto dare retta a tutti i proverbi e gli avvertimenti che anche mia madre si preoccupava di mettermi davanti allora non avrei mai vissuto nulla di tutte le cose meravigliose che Naozumi mi aveva fatto provare. Nulla che va oltre, ovviamente, ero ancora come mia mamma mi aveva fatta e di questo ero contenta: se fosse stato con Naozumi me ne sarei pentita e sicuramente sarei stata molto più male. Non che in quel momento sprizzassi felicità da tutti i pori ma almeno avevo la soddisfazione di non averla data al primo che mi aveva riempito di parole dolci e quelle, con Naozumi, non mancavano mai.
Qualche volta Naozumi me l'aveva anche chiesto ma io avevo sempre sviato il discorso; capivo benissimo quanto fosse infastidito ma ogni volta riuscivo a farmi perdonare con qualcos'altro. Era questo che mi piaceva di più di Naozumi: non sapeva arrabbiarsi con me e soprattutto non sapeva resistermi.
Mentre ero immersa nei miei pensieri e, soprattutto, nei miei vestiti la porta sbattè improvvisamente e nella stanza si fiondò una ragazza che avevo visto la prima volta che avevo fatto visita all'università: il giorno delle matricole. Che brutta parola è 'matricola', sembra quasi di essere diversi. Mi venne da pensare al liceo quando i ragazzi del primo anno, tra cui anche io, venivano chiamati 'quartini' perché frequentavano il quarto ginnasio. Poi, con gli anni, avevo dimenticato quanto fosse brutto essere etichettati in quel modo e anche io come gli altri avevo iniziato a riferirmi ai ragazzi più piccoli in quel modo.
La ragazza se ne stava zitta, imbarazzata da me probabilmente perché ero una celebrità; provai a parlarle ma l'unica risposta che ebbi fu un flebile 'Piacere io sono..' seguito da un nome che non riuscì a decifrare.
Dovevo ammettere che era proprio una bella ragazza, il totale opposto di me: alta, bionda e con gli occhi di uno stranissimo azzurro. Non era il solito celeste, somigliava piuttosto al colore che assumono le pietre sotto il mare, con tutte quelle sfumature sul turchese che ti lasciano senza parole.
Continuai a sistemare i miei abiti cercando di metterli in modo ordinato pur sapendo che il giorno dopo l'armadio sarebbe stato esattamente come non doveva essere: un completo disastro. Quando Arimi, la responsabile del dormitorio, venne a chiamarci per il raduno delle matricole finalmente la mia compagna di stanza parlò: «Scusami, ma tu sei Sana Kurata?» mi chiese nervosamente chiudendosi la porta alle spalle. Feci cenno di si, sorridendole per cancellare l'imbarazzo iniziale creatosi tra noi.
Cominciammo a conversare: era simpatica, non esageratamente spigliata come me ma, diciamolo, nessuno è perfetto.
Dopo averci spiegato le regoli generali del dormitorio, tra cui una che non capì ma a cui alla fine non diedi molto peso, andai in camera con Beth, così si chiamava la mia compagna di stanza, per prepararci alla festa di benvenuto per i nuovi arrivati.
Optai per un vestito a fiori semplicissimo e un paio di stivaletti sul beige senza tacco che mi avrebbero evitato un dolore atroce per i successivi tre giorni. Mentre aspettavo che Beth finisse di arricciarsi i capelli uscì in corridoio a vedere come procedeva la serata per le altre ragazze: la maggior parte era ancora indaffarata a prepararsi come la biondina in camera. Mi piaceva quella ragazza, nonostante l'approccio iniziale si era rivelata simpatica e socievole.
Beth uscì dalla camera con indosso un pantaloncino di jeans, un paio di stivaletti simili ai miei e questa lunga chioma di capelli biondi tutti arricciati. Era stupenda, non avrei potuto dire diversamente.

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