CAPITOLO 12. SPALLA SU CUI PIANGERE.

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Pov Sana.

«Avanti, Hayama.». urlai voltandomi indietro. «Non abbiamo tutto il giorno!».
Akito si era fermato e guardava incantato una coppia di ragazzi che combattevano proprio al centro della piazza principale di Manhattan, notai subito come il suo sguardo rapito seguiva, con attenzione, ogni loro singolo movimento, ma improvvisamente i suoi occhi divennero tristi e malinconici, come se quella visione gli procurasse dolore. Mi aveva raccontato della sua passione per le arti marziali, che da piccolo aveva preso lezioni, ma non mi aveva spiegato il motivo per cui poi alla fine aveva abbandonato. Immaginai che fosse stato per colpa di suo padre e della sorella, ma non mi azzardai a chiederglielo direttamente perché sapevo che sarebbe stato difficile per lui darmi una risposta.
Hayama aveva subito un trauma che, se non avesse affrontato, si sarebbe rivelato dannoso per lui e anche per me. Per lui, perché vivere con un peso sul cuore come quello non rendeva di certo le cose facili, in quanto a me, non avrei sopportato ancora per molto di vedere la persona più importante della mia vita soffrire in quel modo.
Dopo essere tornata indietro e aver fatto gli occhi dolci per riguadagnare la sua attenzione, continuammo a camminare per le strade di New York e mente ero intenta ad ammirare l'ennesima vetrina, notai Hayama che timidamente avvicinava la sua mano alla mia per poi intrecciare le nostre dita. Non mi dispiaceva quel contatto, probabilmente la gente ci avrebbe scambiato per una coppia e, se ci fosse stato qualche giornalista nei paraggi, in meno di ventiquattro ore la mia foto sarebbe finita sulla copertina di un giornale con qualche titolo che annunciava la mia nuova relazione.
Non m'importava assolutamente, anzi, desideravo che i giornalisti ci vedessero insieme, non perché la gente pensasse che avevo dimenticato in fretta Naozumi, ma perché volevo vedere la reazione di Akito ad un'eventuale nostra foto pubblicata in prima pagina.
«Per quanto tempo hai fatto karate?» gli chiesi vedendo che aveva ancora un'espressione estasiata dopo aver visto quei ragazzi. Hayama mi rivolse un'occhiataccia, consapevole del fatto che il mio solito giro di domande stava per iniziare, sbuffò e poi mi rispose. «Sei anni, più o meno.»
«Ma è un sacco di tempo!» esclamai sorpresa. «E perché non sei riuscito a prendere la cintura nera?».
La sua espressione cambiò immediatamente, ma evitò la domanda dicendomi che non aveva voglia di parlarne. Non insistetti, non mi sembrava giusto forzarlo a parlare di qualcosa che lo feriva, ma ero così curiosa.
«D'accordo, non hai voglia di dirmelo..» conclusi io sbuffando.
«Non sono cose di cui parlo volentieri, Kurata. E poi non mi va di annoiarti.». Smise di guardarmi, come se fosse stato infastidito dalla mia intromissione e, mio malgrado, dovetti riconoscere che aveva ragione. Non avevo diritto di costringerlo a tirare fuori i suoi scheletri, quando non ero nessuno per chiederglielo.
Quella consapevolezza mi fece comprendere ancora di più quanto, purtroppo, non lo conoscessi. Sapevo che era irascibile, impulsivo, riservato, sapevo che mi voleva bene e che si sarebbe gettato nel fuoco per me, ma non sapevo nulla di lui in realtà. Non conoscevo i suoi tormenti, non si era mai aperto con me come aveva sicuramente fatto con Tsuyoshi, mentre io avevo affidato quasi tutta me stessa a lui, specialmente in quel viaggio.
Se Hayama non avesse accettato di fingere, mi sarei ritrovata con un bel problema tra le mani, avrei dovuto affrontare Naozumi da sola e sapevo che non ne sarei stata capace. Non perché non ero abbastanza forte da contrastarlo ma perché, negli anni in cui eravamo stati insieme, avevo sviluppato una tendenza di sottomissione davanti a lui. Qualsiasi cosa facessi, per lui non andava bene, e io mi ritrovavo sempre a chiedermi cosa gli piacesse di me.
Mi faceva sentire sbagliata, inappropriata al nostro ambiente, aveva la faccia tosta di dirmi che mi amava ma, in realtà, non me lo dimostrava mai.
Guardandomi indietro, a dispetto di quanto avevo sofferto quando mi aveva lasciata, avrei dovuto ringraziarlo, se non l'avesse fatto non avrei mai conosciuto l'amore vero. Anche se con Hayama non avevo alcuna speranza, anche se io e lui non saremmo mai diventati un noi, non potevo pentirmi di averlo incontrato. Mi aveva ridato la gioia, in tutti i sensi. Prima di lui non avevo mai conosciuto nulla che non fosse legato al mondo dello spettacolo, e il fatto che lui non ne facesse parte mi piaceva ancora di più.
«Lo sai che non mi annoi, comunque.» conclusi io dandogli un buffetto sulla guancia. Mi sorrise e, in quel sorriso, ritrovai la serenità che avevo appena perso pensando a Naozumi.
Ci avviammo verso la stazione della metropolitana per raggiungere Coney Island, ci avevano dato indicazioni precise di prendere la metro F, la più veloce nell'arrivarci.
Il viaggio durò circa un'oretta, che passammo a ridere e scherzare come due bambini. Non mi accorsi nemmeno del tempo che era trascorso, con Hayama ogni volta mi sembrava che il tempo passasse troppo velocemente e il motivo era semplicemente perché con lui stavo così bene... non mi era mai capitato con nessuno, neppure con Fuka, di sentirmi così a mio agio. Con Hayama era tutto naturale, non semplice perché avevo sempre il terrore di fare qualcosa di sbagliato, ma totalmente privo di finzione.
Quando arrivammo a Coney Island, sulla mia testa dominava l'enorme ruota panoramica, simbolo del luogo. Volevo fare un giro per vedere il paesaggio dall'alto, ma sapevo che Hayama non sarebbe stato altrettanto entusiasta, quindi eliminai immediatamente quella possibilità, accontentandomi di qualche giochetto in cui lui avrebbe vinto, ovviamente, e in cui io invece avrei fallito miseramente ritrovandomi ad essere presa in giro all'infinito.
«Non pensare nemmeno che salirò lì sopra.» ringhiò lui notando il mio sguardo estasiato alla vista della ruota. «Non ne avevo intenzione.» risposi sorridendo.
Entrammo al Luna Park, tenendoci sempre per mano, e cominciammo a cercare qualche attrazione da provare. Hayama iniziò con il tiro al bersaglio, vinse, ovviamente, e mi regalò un pupazzetto a forma di pipistrello.
«È bruttissimo!» esordii io ridendo. Nel darmelo, Hayama mi sfiorò involontariamente le dita e il mio cuore sussultò.
«Ovvio, altrimenti non sarebbe tuo.» rispose spostandosi con un sorriso. Quel commento mi rattristò, e mi portò a convincermi ancora di più di quanto fossi inappropriata ai suoi occhi. Come potevo pensare di competere con quelle specie di Barbie a cui era abituato?
Hayama mi guardò perplesso, sbuffò e poi sorrise, avvicinandosi a me e prendendomi per i fianchi. Il mio corpo rispondeva ad ogni suo tocco e mi maledissi per quello, mi sentivo di gelatina sotto le sue mani, ma non volevo che si accorgesse del mio turbamento perché, dopo quella frase infelice, non sarei stata in grado di sopportare nessuna delle sue battute.
Si avvicinò ancora di più a me e mi posò un bacio sulla guancia che assunse subito un colorito vivace, poi sorrise allontanandosi ma senza staccarsi da me. «Lo sai che sei bellissima.» concluse infine, accarezzandomi il fianco lasciato nudo dalla maglia troppo corta.
Le sue parole mi strapparono un sorriso, non sapeva nemmeno quanto mi interessasse ciò che diceva. Non avrei mai creduto che mi sarebbe importato così tanto dell'opinione di un uomo, ero sempre stata riempita di complimenti per la mia bellezza particolare diversa dalla solita giapponese, ma nel momento in cui Hayama mi aveva detto il contrario, mi ero convinta che fosse vero.
Continuammo a girare il Luna Park, ogni volta che proponevo qualcosa ad Hayama lui mi rispondeva con un ghigno e proseguiva per la sua strada lasciandomi indietro.
«Kurata, vieni qui!» mi urlò mentre lo raggiungevo. Avanzai velocemente, ritrovandomi davanti all'attrazione che avevo volutamente evitato per tutto il tempo: la casa degli orrori.
Prima ancora che potessi rifiutarmi, Hayama pagò i biglietti e mi ritrovai seduta al suo fianco in una specie di doppio sedile piuttosto scomodo.
«La pagherai per questo.» sibilai accostandomi a lui. Era buio, non riuscivo a vederlo in faccia ma percepii immediatamente che si era fatto vicino e che stava spostando i miei capelli per parlarmi nell'orecchio.
«Oh, non vedo l'ora...» sussurrò.
Bastardo, pensai, l'avrei ucciso non appena avessimo messo piede fuori da quel tunnel infernale.
«Aaah!» urlai. Uno scheletro era sbucato dal nulla ed era finito su di noi mentre in sottofondo si sentiva una risata terrificante. Volevo uscire, cominciava a mancarmi l'aria e non avevo alcuna intenzione di avere un attacco di panico davanti a lui.
Hayama scoppiò a ridere e solo dopo mi accorsi di essermi involontariamente buttata su di lui, aggrappandomi stile koala al suo petto, come se lui potesse salvarmi dal pericolo inesistente.
Lui non si lamentò, non fiatò neppure, e rimanemmo in quella posizione per un po'. Percepivo la vicinanza della sua bocca al mio collo e il suo respiro che mi solleticava appena dietro l'orecchio.
Non riuscivo a controllarmi, volevo abbandonarmi agli impulsi e baciarlo, toccare quelle labbra così morbide che avevo già assaporato di nascosto e mantenere quel contatto all'infinito, senza allontanarmi mai.
Akito era l'inferno e, come ogni dannato che si rispetti, aveva un fascino che non poteva portare nulla di buono. Era tossico per me ma, come una droga, non riuscivo più a farne a meno e ne volevo sempre di più. Ero dipendente da Akito Hayama.
Pensai di non poter sopportare un minuto di più la sua vicinanza, la mia parte razionale stava per cedere lasciando campo libero a quella che invece cercavo di reprimere in ogni momento. Mi voltai di scatto e mi ritrovai a pochi centimetri dalla sua bocca. Il respiro mi si mozzò in gola e lui allargò le labbra in un sorriso sfacciato che mi fece innervosire e contorcere allo stesso tempo.
«Puoi baciarmi, se vuoi.» disse tutto d'un fiato.
«Se avessi voluto, l'avrei già fatto.» risposi stizzita.
Sapeva riconoscere ogni mia reazione e decifrare ogni mio comportamento, probabilmente mi conosceva meglio di quanto conoscessi me stessa, mentre per me lui rimaneva un mistero.
Non capivo mai il motivo delle sue azioni, le sue parole mi lasciavano sempre mille dubbi addosso perché aveva un non so che di ambiguo che non lasciava trasparire ciò che veramente voleva dire.
«Dovrei crederti?» sussurrò avvicinandosi.
Cinque centimetri... quattro centimetri... tre centimetri.... due centimetri... un centimetro...
La distanza tra noi stava per essere colmata e il mio cuore cominciò a battere troppo rapidamente. Stavamo per baciarci, eravamo così vicini, ma di nuovo il mio buon senso ebbe la meglio e minimizzai quel gesto sorridendo e poggiando la bocca sulla sua guancia, come per scusarmi.
Avevo la sensazione che il mio corpo andasse a fuoco, e che la bocca fosse il punto d'esplosione. Mi concentrai solo su ciò che stavo provando, senza badare troppo ai pensieri che si fecero strada nella mia testa, pensieri che avrebbero potuto privarmi di quel contatto immediatamente, ma che non vinsero.
Non volevo pensare. Se l'avessi fatto non mi sarei goduta il momento, se solo avessi riflettuto un po' su quello che stavo facendo, mi sarei resa conto che avrei sofferto per un cedimento. Il nostro rapporto – quella specie di amicizia, che poi amicizia non era – era deleterio per entrambi ma nessuno dei due riusciva veramente a mettere un punto a quell'assurda situazione.
L'avrei messo io, se fosse stato necessario.
Se solo lui si fosse staccato, se avesse messo fine a quell'agonia...
Hayama si allontanò un attimo e mi accarezzò dolcemente i capelli, in un gesto affettuoso e comprensivo.
Avrei tanto voluto baciarlo, era la cosa che desideravo di più, ma non potevo comportarmi come una stupida e rovinare l'unico rapporto vero che avevo avuto nella mia vita.

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