CAPITOLO 3. DIVERSA.

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Pov Akito.

Aveva accettato – più o meno – di seguirmi senza neppure sapere dove volevo portarla. Alla faccia di quella che non voleva avere rapporti con me!
Mi camminava a fianco da circa cinque minuti e non aveva ancora detto una parola. La vedevo arricciare il naso ogni qualvolta passavamo accanto ad una coppia che si baciava e subito dopo spostare lo sguardo altrove. Mi venne da pensare che forse non adorava particolarmente veder fare certe cose in pubblico o, cosa ancora più probabile, aveva sofferto in un rapporto di coppia.
Meglio, pensai, le ragazze volubili sono le più semplici da conquistare.
Notai che al sole i suoi capelli assumevano sfumature particolari: dal rosso vivo al castano; mi piaceva la sua chioma e soprattutto mi piaceva il modo in cui le ricadeva sulle spalle nude visto che la bella giornata le aveva permesso di indossare un top senza spalline. Aveva delle belle spalle – gliel'avevo già detto a lezione– e quasi invitavano a toccarle.
Era carina tutta impacciata al mio fianco, mi faceva l'impressione di una ragazzina al primo appuntamento.
Che ingenua, un appuntamento con me poteva solo sognarselo.
Eppure dovevo ammettere che mi urtava che mi considerasse uno stronzo, non perché fosse vero ma perché in un certo senso mi importava della sua opinione nonostante non sapessi il motivo. Arrivati davanti alla mia macchina capì quanta fatica avrei dovuto fare per far si che si fidasse di me. Non mi piaceva l'idea di fare qualcosa senza il suo consenso, principalmente perché non ero uno stupratore – tutte le ragazze che erano finite nel mio letto, o meglio nel loro con me addosso, lo avevano fatto in modo assolutamente consensuale – ma soprattutto perché volevo che fosse lei a chiedermelo. Questa nuova filosofia mi era assolutamente nuova e sapevo che sarebbe stata valida solo per Sana Kurata.
«Non salirò sulla tua auto, chissà quante ragazze ti sei scopato su quei sedili!». Mi guardò disgustata, posando velocemente gli occhi prima su di me e poi sulla macchina. Risi, divertito dalla sua espressione buffa.
«Il mio SUV è sacro, Kurata, come il mio letto. Non scopo con nessuno in questi due posti.».
Era vero, non avevo mai portato una ragazza nel mio appartamento ne tantomeno le avevo permesso di salire sulla mia macchina. Sana mi guardò con fare interrogativo così mi affrettai a precisare la situazione.
«Vuoi che mi metta una mano sul cuore e giuri?». Capì che mi credette sulla parola quando aprì la portiera e si accomodò sul sedile del passeggero.
«Non ho tutto il giorno, ti muovi Hayama?».
La seguì in macchina e misi in moto con un considerevole rombo. Notai il suo sguardo preoccupato e le consigliai di calmarsi perché non ci avrei provato fin quando non fosse stata proprio lei a supplicare.
Mi diede una gomitata spostandosi verso di me per poi tornare al suo posto. Dove la stavo portando? Ah si, a pranzare al Blitz.
Sperai di trovare un tavolo libero perché, solitamente, alle due era già tutto pieno e se fosse stato così avrei dovuto riaccompagnarla a lezione senza poter passare anche quel poco tempo insieme a lei.
Guidai per circa cinque minuti prima che si decidesse a parlare.
«Allora, dove stiamo andando?» mi chiese accennando un sorriso che catturò in un secondo la mia attenzione.
«A nutrirci con un pasto vero.»
«Ma non possiamo mangiare fuori dalla mensa!». Corrugò la fronte attendendo una mia risposta.
«Non preoccuparti, la signora Ryan se ne farà una ragione.»
Odiavo quella vecchia signora: era acida e poco collaborativa e soprattutto non mi dava mai ciò che le chiedevo a mensa perché era totalmente sorda riservandomi sempre quel cibo per cani che mi disgustava non poco.
Arrivammo al locale e dopo esserci accomodati all'unico tavolo libero della sala, Madison, la cameriera, ci portò i menù. Sana si sedette di fronte a me poggiando la borsa con i libri sulla terza sedia accanto a lei.
Cominciò a scorrere il menù e io invece mi ritrovai a pensare che se avesse ordinato un'insalata mi sarei alzato e l'avrei lasciata lì da sola.
Quando Madison era venuta a prendere l'ordinazione, invece, aveva ordinato un piatto di pasta. Pasta era uguale a carboidrati perciò quella ragazza mi piaceva sempre di più.
«Allora, vieni spesso qui?» mi chiese guardando la cameriera con aria disgustata. Era per caso gelosa? Quel pensiero mi fece sorridere come un idiota ma dovetti cacciare via immediatamente quell'espressione dalla mia faccia.
«Ogni tanto vengo qui con Tsu a farmi una birra.». Mi guardò come se avessi appena bestemmiato e mi affrettai a precisare. «Tsu, Tsuyoshi.. è il mio migliore amico.»
«Oh..» si limitò a dire lei.
Spostai la discussione su un altro fronte, non amavo parlare della mia vita.
«Allora Kurata, me lo vuoi dire il motivo del tuo odio nei miei confronti?». Alzò gli occhi al cielo, quanto odiavo quel gesto! Se non fossi stato un gentiluomo l'avrei presa a schiaffi stile Christian Grey.
No, non avevo letto quel libro, ma quando le tue compagnie sono principalmente femminili ti ritrovi a sapere certe cose. Ecco, io odiavo che le ragazze alzassero gli occhi al cielo tanto quanto lo odiava Mr. Grey sulla sua bella Anastasia.
«Ancora? Io non ti odio, semplicemente non mi piaci.»
Quella frase mi provocò non poco fastidio. Non capivo il motivo di tanto rifiuto verso di me: ero uno stronzo e su questo non c'erano dubbi ma non mi ero permesso nemmeno una volta di mancarle di rispetto e se l'avevo fatto non me n'ero reso conto.
Decisi, quindi, di metterla alle strette.
«Per questo sei venuta con me, perché non ti piaccio?».
Distolse lo sguardo e prese a fissare il tavolo davanti al nostro, probabilmente per non guardarmi negli occhi. Tutte le ragazze che avevo conosciuto non aspettavano altro che guardarmi in faccia per farmi vedere quanto fossero sfacciate e decise, ma lei no. Sana non riusciva a reggere il mio sguardo per più di cinque, sei secondi al massimo e questo mi affascinava.
Non era come le altre, questo l'avevo capito subito nel momento stesso in cui l'avevo stretta a me nel ballo di qualche sera prima, ma soprattutto non faceva nulla per farsi notare.
In realtà era strano perché essendo un'attrice avrebbe dovuto avere un carattere espansivo e invece si sentiva in imbarazzo anche solo guardandomi. Probabilmente non aveva avuto molte esperienze con il sesso maschile – e con il sesso in generale.
«Sono venuta perché mi ci hai trascinato.» rispose seccata subito dopo.
«Si, infatti mi hai mollato un ceffone e sei andata via.».
Strinse le labbra e poi mi prese la mano che avevo poggiato sul tavolo. Il contatto con la sua pelle mi provocò un sussulto. Era morbida, proprio come la ricordavo.
«Senti Hayama, sono qui perché mi ci hai trascinato, te l'ho già detto. Non sono una persona maleducata ed è per questo che non ti ho dato uno schiaffo e sono andata via. E poi.. ero curiosa.»
«La curiosità uccide il gatto.» risposi stuzzicandola. Nel frattempo la cameriera stava posando sul tavolo il nostro antipasto.
«Peccato che io non sia un gatto.» rispose lei mordendo una patatina fritta e poi leccandosi le dita.
Qualcosa si mosse nei pantaloni e la maledissi mentalmente per quel gesto troppo provocante. Probabilmente non aveva nemmeno idea di quanto fosse sexy e questo mi fece sorridere.
Cercai di concentrarmi su qualcos'altro per evitare di alzarmi e sbatterla sul tavolo prima che potesse proferire parola.
«Come mai hai deciso di fare l'università? Pensavo che un'attrice non volesse mai mettersi sui libri.». Mi guardò infastidita, ma quella ragazza sorrideva mai?
«Mi sono ritirata dalle scene ormai. Il mondo dello spettacolo non fa più per me.»
Pronunciò quelle parole con malinconia, quella scelta la faceva soffrire e si vedeva lontano un miglio.
«So che sei brava, mia sorella ha una specie di adorazione per te.»
«Non me ne vanto» disse aprendo le braccia con fare quasi strafottente «ma si, sono brava.»
«Ho sempre pensato che gli attori fossero persone false e..»
«Luogo comune.» mi interruppe decisa. Capì che avevo toccato un tasto dolente quando abbassò gli occhi che avevano assunto una sfumatura triste che prima di quel momento non avevo mai visto.
Non volevo rattristarla ma volevo sapere qualcosa in più di lei, per un motivo che mi era sconosciuto. Prima di quel momento le uniche parole delle ragazze che mi interessavano erano quelle dette sul loro letto in momenti che potrebbero essere definiti poco casti mentre con Sana era diverso. Oddio, mi interessava quell'aspetto di lei ed era ancora il mio principale pensiero ma sentirla parlare sul serio era abbastanza piacevole e interessante.
«Cambiamo argomento: il tuo ragazzo è contento che tu sia venuta all'università?». Si incupì nuovamente e io mi maledissi per essere sempre così inopportuno.
«Non ho il fidanzato, Hayama. E se l'avessi tu saresti proprio un vero bastardo a provarci con una ragazza impegnata.»
Uno a zero per Kurata.
«Io non ci sto provando con te. Perché non riesci a capirlo?»
Ero bravo a discolparmi, lo facevo circa trenta volte al giorno quando Tsuyoshi mi accusava di essere uno stronzo e quando, una volta all'anno, sentivo mia sorella al telefono perché mi aggiornava sulle condizioni di salute di mio padre. All'età di diciassette anni, quando ero letteralmente scappato da casa mia, avevo ricevuto una sola telefonata in cui gli insulti non si potevano neppure contare.
Ai tempi, da ragazzino quale ero, avevo cercato più volte di dire un semplice mi dispiace ma, dopo averci riflettuto a lungo, avevo anche capito che non ne valeva la pena. Se la persona che avrebbe dovuto amarmi più di tutte mi riempiva di male parole, perché avrei dovuto chiedere scusa per qualcosa di cui non avevo colpa?
Tornai alla realtà quando Kurata mi pregò, nel vero senso della parola, di smetterla di parlare di lei. Sorrisi ammiccando.
«Per me sei il migliore argomento della giornata.»
Vidi un rossore depositarsi sulle sue guancie e sorrisi di rimando.
Uno a uno, cara Kurata.
«Parliamo di te.»
«Non c'è nulla da dire su di me.» risposi lapidario. «Tu piuttosto...»
«Ho detto che non voglio parlare di me.». Chiuse il discorso in maniera categorica e sapevo che non sarei riuscito a riprenderlo senza prima accontentarla un po'.
«Va bene, parliamo di me. Cosa vuoi sapere?»
«Mmm..» alzò gli occhi al cielo facendo finta di pensare alla domanda da pormi per poi tornare a guardarmi dritto in faccia e sputare la sua sentenza. «Perché al mio dormitorio c'è una regola sul non farti entrare?»
«Storia lunga.»
«E questa storia comprende il cuore spezzato di qualche ragazza lì dentro?». Spostò la bottiglia d'acqua di lato per guardarmi meglio negli occhi.
La ragazzina mi stava sfidando, notevole.
«La responsabile è una mia ex.» dissi secco. Ci avevo messo due mesi a liquidare Arimi perché era stata una delle poche ragazze per cui avevo provato pena. Si, pena. Non simpatia, non affetto, niente di niente. Non provavo nulla del genere per lei ma dovevo ammettere che a letto ci sapeva fare e l'unico motivo per cui l'avevo scaricata era lo stesso per cui lasciavo tutte le ragazze che mi scopavo: voleva di più. E io non ero nemmeno lontanamente capace di darglielo.
«Ex fidanzata?». Azzardò quella domanda accennando un sorriso prima di ravviarsi i capelli spostandoli dietro le spalle.
Quel gesto mi mandava in tilt, era così sexy nel compierlo che, quando le risposi, pensai che fossero passati secoli dalla sua domanda. Avrei potuto fissarla per l'eternità.
«No, ex...» mi fermai un attimo a rifletterci. «.. non saprei come definirla.» conclusi infine consapevole che quella risposta l'avrebbe disgustata.
«Credo che la definizione sia scopamica.». Mi lanciò un'occhiataccia che avrebbe potuto trafiggermi e da quel gesto compresi che in un modo o nell'altro le interessavo.
«No, non è così. La scopamica è qualcuno di fisso. Io non ho nessuno di fisso.».
Sicuramente mi stavo scavando la fossa da solo ma non riuscivo a mentirle veramente perché mi guardava con quegli occhi che imploravano verità. Occhi che di bugie e bugiardi ne avevano abbastanza.
«Evviva la sincerità.» disse sorridendo.
Non volevo che mi respingesse e, soprattutto, volevo che smettesse di guardarmi come se fossi un mostro. Quello sguardo, quel maledetto sguardo, l'avevo visto per tutta la mia vita prima dell'università ed ero stanco di essere considerato il diavolo solo perché ero quello che ero.
Era la prima persona, ovviamente dopo la mia famiglia, che mi trattava in quel modo: tutte le ragazze che avevo avuto sapevano che tipo ero e che cosa cercavo in una relazione quindi non avevano la presunzione di chiedermi nulla o pretendere qualcosa che sapevano benissimo non avrebbero ottenuto.
In ogni caso non avevo idea di come farle capire che volevo solo esserle amico; certo, avrei diligentemente evitato di dirle che volevo infilarmi nel suo letto ma quelli erano solo dettagli.
Finimmo di mangiare e ci avviammo alla mia macchina dopo aver litigato perché voleva pagarsi il pranzo e io invece, da gentiluomo, le avevo immediatamente ordinato di togliere quei soldi di mezzo.
Almeno quella era una cosa per cui non potevo lamentarmi: facevo due lavori, uno come barista e uno come insegnante di karate alla palestra cittadina. Ergo, potevo permettermi di pagare ciò che volevo a chi volevo e farlo per Miss lingua lunga non mi dispiaceva affatto.
L'avevo trascinata verso la macchina sentendola borbottare per poi passare davanti a me, gesto che apprezzai enormemente. Infatti questo mi permise di ammirare ancora meglio le sue forme e di convincermi che si, dovevo averla.
Ma non era come le altre. Per ottenere ciò che desideravo avrei dovuto sudare sette camicie – magari pure dieci – e quella prospettiva mi allettava. Non avevo mai combattuto per nulla, da quando ero nato la mia famiglia mi aveva sempre dato tutto ciò che volevo, tranne quello di cui avevo veramente bisogno, per non sentirmi neppure parlare e, arrivato al liceo e poi all'università, ogni cosa era stata semplice per me.
Ero bello, e non per mia convinzione ma quando hai centinaia di ragazze che pendono dalle tue labbra non puoi negarlo, simpatico, avevo imparato ad esserlo col tempo, e mi facevo accettare anche da chi non mi sopportava.
Tranne da questa maledetta attrice. Nessun discorso la imbambolava, nessun sorriso o apprezzamento le facevano cambiare atteggiamento e questo mi fece capire che, prima di tutto, non era stupida e, in secondo luogo, che non mi avrebbe dato vita facile.
Non sapevo nemmeno perché perdevo tempo dietro a quella ragazza. Probabilmente perché era la prima volta che mi sentivo nel posto giusto al momento giusto: accanto a lei, a nemmeno un metro di distanza, con il controllo della situazione perché per sua grande sfortuna e mio grande piacere, potevo portarla ovunque volessi.
Anche se, dovevo ammetterlo, l'unico luogo in cui avrei voluto portarla era il mio letto e nemmeno per possederla nel senso stretto del termine ma solo per affondare il viso tra quei capelli e per tenerla stretta a me.
Stavo diventando un pappamolle.

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