"Chi muore giace. Chi vive, si dà pace."
Proverbio.
Il destino ha un modo tutto suo, per chiudere la bocca agli scettici.
Io lo so, meglio di chiunque altro.
Proprio io, che al destino non avevo nemmeno mai creduto.
Non avevo mai creduto in niente, a dire il vero.
Giovane, eppure amara e disillusa. Ecco com'ero io.
A ripensarci, stento a credere che quella di allora e quella che sono adesso, siano la stessa persona.
Però, a voler essere obbiettiva, è perfettamente normale che la me di adesso differisca tanto dalla me del passato.
E la colpa di tutto... va data solo al destino.
Il destino, che tra tanta gente al mondo, aveva avuto la brillante idea di venire a bussare proprio alla mia porta. Proprio da me, la regina indiscussa delle scettiche.
E se posso dire, l'aveva fatto con la delicatezza di un martello pneumatico contro l'asfalto.
Ancora mi sento sconvolgere dentro, quando ripenso a ciò che mi è capitato, alla travolgente catena di eventi che il destino ha scagliato contro di me come fossero pietre.
Ho rischiato di perdere tutto ciò che possedevo, tutto ciò che amavo, inclusa me stessa.
Si, il destino ha davvero un modo tutto suo, per chiudere la bocca agli scettici.
E lo fa nei modi più disparati che si possono immaginare.
Tramite le persone, che ogni minuto di ogni giorno entrano ed escono gli uni nelle vite degli altri.
Tramite gli eventi, meravigliosi o devastanti che siano, che colpiscono quotidianamente il singolo individuo come l'intera popolazione.
In maniera tanto plateale che ne puoi percepire l'arrivo, come con il temporale.
O in modo del tutto inaspettato, come un fulmine che squarcia il cielo sereno.
Con me fu proprio così: un fulmine a ciel sereno.
Solo che di fulmini ne caddero a bizzeffe, altro che uno.
Il primo, quello che diede il là a tutto ciò che si abbatté sulla mia vita nei mesi successivi, si celò dietro a una delle cose più innocue e allo stesso tempo più pericolose al mondo: una telefonata.
Era un mercoledì, me lo ricordo perfettamente.
Mona Sheridan, la mia segretaria, mi aveva fatto una testa così, sui mercoledì.
Sosteneva che le portassero sfortuna, anche più dei più popolari venerdì 13 e 17.
Ma era una cosa sua, aveva detto, non influenzava la vita delle persone che la chi la circondavano, quindi non dovevo temere alcuna ritorsione personale.
Non che me ne preoccupassi davvero, ovviamente. Non credevo alle superstizioni ufficiali, figuriamoci a quelle personalizzate.
Però Mona ci credeva ciecamente, ed ogni mercoledì veniva puntualmente trasformato in una baraonda: Riti scaramantici contro la sfortuna, oggettini scaccia malocchio e aromaterapia contro la negatività.
Io in cuor mio trovavo tutto estremamente assurdo e ridicolo, ma non ero il tipo di persona che giudicava gli altri, per cui l'avevo sempre lasciata fare. Mi stava bene finché non mi tirava in mezzo, insomma.
Quel giorno, come dicevo un mercoledì, tra l'altro particolarmente pigro e sonnacchioso, me ne stavo seduta con le ginocchia sotto il mento sul balconcino della finestra del mio ufficio, che dava proprio su un parco.
Mi rilassava profondamente osservare il vento leggero insinuarsi tra i rami degli alberi, solleticando piano le foglie neonate tra di loro.
La primavera era appena arrivata, eppure l'aria già iniziava ad intiepidire, e trasportava un leggero profumo di fiori.
La primavera era la mia stagione preferita, e la ammiravo dare il meglio di sé in quel meraviglioso parco davanti alla finestra del mio ufficio ogni anno.
Mi ricordava la mia infanzia, a casa.
Dio... quanti anni, erano, che non ci tornavo?
"Miss Raincourt, la sua macchina!" mi disse improvvisamente Mona, il fiato corto dall'agitazione. "Ho visto dalla finestra del bagno che non è nel suo solito posto auto! E mercoledì, Miss Raincourt, l'hanno certamente rubata!"
Mona era entrata con tale dirompenza nella stanza, che per poco non caddi giù dalla mia postazione sul balconcino. Riprendendomi dallo spavento che mi aveva causato, la guardai, sospirando esasperata.
"Mona, ne abbiamo già parlato del tuo mercoledì nero... sono solo suggestioni!"
"Ma miss Raincourt... e la sua auto, allora?" insistette lei.
"E dal meccanico per la solita revisione, stamane sono venuta al lavoro in taxi."
Mona tirò un lungo sospiro di sollievo.
"Dio sia ringraziato, meno male! Lo sa che le ho promesso che alla prima avvisaglia che uno dei miei mercoledì neri l'avesse in qualche modo intaccata, lei avrebbe dovuto mandarmi via di corsa. Santo cielo, ho temuto veramente che quel giorno alla fine fosse giunto..."
"Dubito fortemente di poterti licenziare usando come causale l'eccesso di superstizione." scherzai io. "Mea culpa, comunque. Sapendo quanto tu sia suscettibile ai cambiamenti, specie se avvengono di mercoledì, avrei fatto meglio a dirti tutto per tempo..."
Mona mi sorrise amorevolmente.
"Si figuri, Miss Raincourt. In realtà, penso anch'io di essermi lasciata prendere un po' la mano da questa storia dei mercoledì iettatori. Cercherò di essere un po'più razionale. Promesso!"
Le sorrisi a mia volta, e la osservai uscire dalla stanza canticchiando allegramente.
Avevo assunto Mona cinque anni prima, e l'avevo fatto non solo perché aveva la qualifica migliore tra tutte le candidate, ma anche perché qualcosa di lei aveva attirato particolarmente la mia attenzione.
Era... praticamente il mio opposto. E la cosa mi aveva affascinata fin dal primo istante.
Il mio amaro e scettico Io non era solo ben visibile dal mio carattere e dal mio modo di fare, ma traspariva anche nel mio aspetto esteriore.
Ero quello che ero, dentro come fuori.
Non mi piaceva indossare nulla che non fosse nero, marrone o grigio, e sceglievo sempre capi patologicamente incapaci di valorizzarmi: camicioni, maglioni o insipide t-shirt. Mai avuto scarpe con i tacchi, solo ballerine e scarpe da ginnastica.
Un maschiaccio bello e buono.
Non ero brutta, ne avevo un fisico sgraziato o fuori forma. Ero alta, slanciata e con le mie forme nei punti giusti. A dire il vero, a mio modesto parere... ero abbastanza carina.
Non che il mio fosse un peccato di vanità, sia chiaro, c'era un motivo ben preciso per cui mi piaceva il mio aspetto.
Mi piacevo... perché ero la copia esatta di mia madre.
Non l'avevo mai potuta conoscere, visto che se n'era andata dandomi alla luce, e da bambina nutrivo la curiosità di conoscere il suo aspetto. Specialmente perché anche mio padre era venuto a mancare prima che potessi conoscerlo, prima ancora che nascessi, addirittura.
Sicché, avevo trascorso l'infanzia con un grande dubbio in testa: A chi dei due somigliavo?
Fortunatamente, frugando qui e là, mia zia June era riuscita a trovare una foto di mamma ai tempi delle scuole superiori, colmando almeno in parte questa mia lacuna.
Fu meraviglioso, per me, costatare che ero la sua copia sputata.
Gli stessi capelli rossi, gli stessi occhi verdi e limpidi, la stessa pelle chiara e lentigginosa.
Mi innamorai di mia madre, la trovai incredibilmente bella. E sapermi così simile a lei, mi rese molto orgogliosa del mio aspetto.
Di mio padre, invece, non ci fu modo di conoscerne il volto, se non per qualche vaga descrizione. Mio nonno Irah, suo padre, ovvero colui che mi aveva cresciuta, non ne aveva conservato una sola foto.
Mi piace pensare che questa mia anima uggiosa io l'abbia ereditata da lui, ma oso dubitarne. Il mio mondo era nero... perché ero io che lo vedevo nero.
Da lì, la mia decisione di assumere Mona.
In netto contrasto, me lo ricordo come fosse ieri, con il mio maglione oversize nero pecie, i miei leggings grigio topo, il mio chignon sfatto e le mie anonime ballerine scure, Mona quel giorno mi si parò davanti indossando un abbagliante abito a stampa maiolica, un grosso fiocco giallo canarino a fermare una bella coda di cavallo tutta boccoli di un bel colore turchese, occhiali da vista azzurri glitterati e delle scarpe col tacco altissime intonate al vestito.
Era un vero capolavoro di colori pastello e di luminosità.
Mi provocò un vago capogiro, guardarla tutta insieme. E in tutta onestà... non mi fece affatto una bella impressione. Tutto quell'arsenale di colori sgargianti la facevano apparire come una ragazza piuttosto vuota e pacchiana, un'oca esibizionista.
Ma passato il momento di stupore, e intavolata una bella conversazione colloquiale, realizzai che Mona non era per niente ciò che io avevo supposto che fosse.
Anzi... era con tutta probabilità una delle persone più autentiche che mi fosse mai capitato di conoscere.
Come lei, avevo incontrato solo un'altra persona, al mondo. Il suo nome era Jeanette, ed era la mia migliore amica da anni.
Jeanette viveva a Belfast, ed erano rare le occasioni in cui suo lavoro le permetteva di venirmi a trovare, e di conseguenza ne sentivo molto e spesso la mancanza. Mona, si può dire, aveva reso questa lontananza più sopportabile.
E soprattutto... come con Jeanette, speravo che l'influenza positiva di Mona potesse allargare un varco di luce nel mio animo oscuro e negativo.
Io avrei tanto voluto che ciò accadesse, giuro.
Non mi piaceva quel limbo nero in cui vivevo.
Da bambina, lo ricordo distintamente, non ero affatto così.
Avevo dei sogni, degli ideali... un'anima romantica, perfino!
E non avevo idea, di che fine abbia fatto tutto ciò...
Probabilmente, avevo smarrito la retta via per il semplice fatto che nessuno di quei miei progetti, in trent'anni di vita, erano andati in porto.
Da piccola, io sognavo di fare l'illustratrice. Disegnare era da sempre la mia più grande passione, e onestamente parlando, me la cavavo pure bene.
Volevo studiare arte, e poi viaggiare per il mondo ad ammirare le grandi opere dei miei artisti preferiti. Volevo la mia galleria d'arte, le mie personali mostre...
E invece, su ordine del mio caro nonnino, ero finita a studiare legge, una cosa che odiavo, ed ero diventata un'avvocatessa, una cosa che mi faceva a dir poco schifo.
Ero brava, nel mio lavoro, per quello. Mi ero costruita una più che rispettabile reputazione, guadagnavo bei soldoni, avevo una carriera, ma... odiavo lo stesso tutto, di quella vita.
Mi rendeva... infelice da morire.
Per quanto riguarda il settore romanticismo... beh, sì e adeguato al resto, direi.
Ho visto la bruciante fiamma dell'amore una volta sola nella mia vita, ma non sono riuscita ad avvicinarmici abbastanza da poterne avvertire il calore. E non era mai più capitato.
Come può dunque, vengo e dico io, una persona trovare la luce alla fine del tunnel dopo tutto ciò?
Eppure, sebbene navigassi nel mar nero della mia depressione da anni, non mi riusciva di arrendermi.
Da lì la mia decisione di circondarmi di persone allegre e spontanee come Jeanette e Mona.
Io la volevo ad ogni conto, la primavera della mia vita. Ne avevo diritto come chiunque altro al mondo. E in cuor mio, speravo che la luce trasmessa dagli altri, alla fine illuminasse anche la mia, di anima.
Mona lottava coi miei demoni da cinque anni. Jeanette da dieci.
Nessun risultato.
Ah beh, nessuno aveva mai detto che sarebbe stato facile...
"Cambiando argomento, Miss Raincourt... "
Mona era tornata nel mio ufficio, stavolta con più delicatezza e armata di te nero e biscotti, ma facendomi comunque sobbalzare di nuovo. "Che ne è stato della promessa che mi aveva fatto?"
Aggrottai la fronte.
"Di che parli?" chiesi.
Mona mise le mani dalle unghie laccate color ciclamino sui fianchi.
"Non faccia orecchio da mercante, miss, non ci provi. Parlo della promessa di indossare, almeno una volta a settimana dei colori pastello, anche tenui. Oggi è esattamente una settimana da quando ha promesso. Ebbene?"
La guardai spiazzata, e indicai il mio nuovissimo maglioncino di cachemire.
"E questo cosa dovrebbe essere, secondo te?"
Mona inarcò un sopracciglio.
"Quello non è un colore pastello..."
"Come no, ma se è rosso!" protestai.
"È bordeaux, non rosso." puntualizzò lei.
"Rosso, bordeaux... sempre di colori pastello si tratta, no?"
Mona girò gli occhi al cielo, e fece una piroetta.
"Vede il bordeaux da qualche parte, miss?" mi chiese.
La guardai, un po' irritata. Indossava un vestito taglio anni 50 molto scollato di un bel punto di turchese con stampa di limoni, in perfetto abbinamento ai suoi capelli turchini legati nella solita coda tutta boccoli da un bel fiocco giallo. Ai piedi, indossava sandali gialli dalla zeppa vertiginosa. Mi facevano male le caviglie solo guardandole.
"No, ma magari oggi non ti andava di metterlo..."
"Non mi andrà mai di metterlo, perché e un colore deprimente!" sbottò lei. "Però... almeno lo è meno di quei soliti neri, blu notte e grigi che ormai perseguitano persino i miei sogni. Lo prenderò come un progresso! Mercoledì prossimo, però, voglio un vero rosso papavero!"
"Non contarci. Già così mi sento fin troppo appariscente..." mormorai, inzuppando un bel biscotto con il cuore di marmellata di fragole nel mio adorato te nero.
"Rosso Tiziano, magari!" rispose lei, uscendo dal mio ufficio allegramente. "O un meraviglioso rosso magenta!"
"Non credo proprio..." risposi a bocca piena.
"La scambierò per cappuccetto rosso!" mi disse, chiudendo la porta del mio ufficio.
"Il lupo, casomai..." dissi, ormai più a me stessa che altro.
Andai di nuovo alla finestra, il vapore profumato del te a inebriare l'aria.
Magari fosse tutto così facile. Mantenere una semplice promessa come quella, e comprare un maglione dai colori sgargianti. Magari... ne fossi stata davvero capace.
Il telefono squillò fuori dalla porta, e sentii Mona rispondere cordiale.
Non le avevo mai parlato del desiderio di liberarmi di quel mio orrendo velo nero di oscurità interiore ed esteriore, ma sospettavo l'avesse intuito da sé.
I colori del mio abbigliamento erano un punto di partenza, probabilmente. Un passo alla volta, doveva essersi detta.
Che bello, doveva essere, sentirsi in cuore tanto ottimismo.
Avrei pagato a peso d'oro, per averne anche solo un grammo...
Un istante dopo la nascita di quel roseo pensiero nella mia mente, per la terza volta in una sola mattinata, Mona fece ingresso nel mio ufficio.
Sussultai di nuovo, ma stavolta non per lo spavento... ma per lo stupore.
Mona, do solito sorridente e gioviale, aveva in viso un'espressione di assoluto dolore. Lacrime colorate di ombretto e mascara le rigavano le guance, e singhiozzava in modo concitato.
"Miss..." pigolo piangendo. "Miss..."
"Mona! Santo dio, ma che accidenti è successo?" esclamai, correndo da lei.
Mona afferrò stette le mie mani, in presa al pianto.
"Oh, miss... al telefono..." singhiozzò. "Mi... dispiace così tanto, miss!"
"Ma ti dispiace di cosa, Mona!? Chi diavolo era, al telefono?!"
Mona prese fiato, cercando di calmare i suoi singhiozzi.
"Al telefono..." mi disse, ancora un po' agitata. "Era... sua zia, Madame Juniper..."
Una fitta al cuore mi attanagliò il petto.
"Che cos... come, mia zia? Mona, parla, che ha detto? E 'successo qualcosa a casa?"
Mona annui, addolorata.
"Cosa, dimmi!" le dissi agitatissima, ormai anche quasi più di lei.
Mona mi guardò negli occhi, e le lacrime ripresero a scorrere sul suo viso, ormai risotto ad una maschera di trucco sfatto. Sembrava un clown triste.
"Suo... suo nonno, miss. La scorsa notte... ci ha lasciati, miss."
La guardai. Poi chiusi gli occhi, e trassi un profondo respiro, avvertendo la tensione e la paura abbandonarmi.
"Cristo santo, Mona... mi ha quasi fatto venire un colpo." Le dissi, andando a sedermi alla mia scrivania.
Mona mi guardò con aria quantomeno allibita e scioccata, come se improvvisamente avessi iniziato a parlare finlandese.
"Mi scusi, miss... ha capito cosa le ho appena detto?" mi chiese, esitante, avvicinandosi.
"Si, certo, non sono sorda..." le risposi, e accesi il mio pc. "Manderò una mail a mia zia June, avvisandola che non ha nulla di cui preoccuparsi, mi addosserò completamente ogni spesa relativa al funerale. Per il resto, dovremmo aspettare che il notaio decida la data per l'apertura del testamento. Spero vada bene che la cosa si svolga anche senza la mia presenza."
"Miss..."
"Scusami, Mona, ma non ho assolutamente tempo per darti retta, ora. Una volta scritto a mia zia, avrò da fare almeno una dozzina di telefonate, quindi se non ti dispiace..."
"Ma miss Raincourt..."
"Se vuoi fare qualcosa per aiutarmi, Mona, potresti gentilmente posticipare tutti i miei appuntamenti di oggi. Spostali a data da prestabilire, grazie. Mh, forse sarebbe meglio fare lo stesso con gli appuntamenti di domani..."
"Miss Raincourt, vuole cortesemente..."
"Non ho mai fatto una cosa del genere, non ho idea di quanto tempo mi porterà via. Che dici, mi prendo il resto della settimana, tanto sono solo un paio di giorni..."
"TABITHA!"
Sussultai al suono di quel grido inatteso, e mi voltai a guardare Mona. In cinque anni di onorato servizio, sebbene l'avessi invitata a farlo più volte, Mona non si era mai concessa di darmi del tu, neanche una volta. Sentirla dunque ora chiamarmi per nome, per di più sbottando adirata, mi sorprese non poco.
"Mona" risposi, un po' stupidamente.
Mona mi guardava, a metà tra lo sconvolto e l'inorridito.
"Santa madre di dio, Miss... ma si può sapere cosa le passa per la testa? che reazione assurda, sembra... sembra che lei stia organizzando un meeting! Santo cielo... ma si rende conto della situazione, ha realizzato cosa le ho appena comunicato, miss?"
Aggrottai la fronte, confusa.
"Assolutamente sì, non sono mica scema, Mona. Quella che si sta comportando in modo strano, qui, sei tu, temo."
Mona portò una mano all'ampio petto cosparso di paffuti limoni gialli, basita.
Poi, lentamente, vidi fiorire una sempre più crescente ira sul suo viso.
Era davvero bizzarra, come immagine, da vedere. Sembrava la fatina dei limoni incazzata.
"Ora mi stia bene a sentire, miss..." si proruppe, respirando a fondo con il naso, adirata. "Sono cinque lunghi faticosissimi anni che combatto strenuamente e incessantemente con il suo soffocante miasma gotico da vampira mancata, che lei va spargendo allegramente per tutto il palazzo come fosse un incenso, e ciò nonostante non ho mai detto niente. Ma devo dire che stavolta ha decisamente passato il segno, Miss! Come può, di tutta coscienza, rispondere con un tale menefreghismo alla tragedia che si è appena abbattuta sulla sua famiglia e sulla sua vita?"
Sollevai un sopracciglio, indecisa se offendermi o meno.
"Per tua informazione, Mona, quello che tu hai chiamato 'miasma gotico da vampira mancata' non c'entra nulla con la mia reazione alla morte di mio nonno. A titolo informativo, sappi che me ne sbatterei altamente anche se fossi una melensa fatina di zucchero come te..."
Un silenzio assordante cadde nella stanza, come un telecomando invisibile avesse abbassato a zero il volume. Dopo qualche istante, però, Mona parve pronta a riprendere lo scontro.
"Non le credo. Una melensa fatina di zucchero come me, al suo posto, avrebbe il cuore in pezzi, e si starebbe organizzando per raggiungere la sua famiglia il prima possibile!"
"Certo, non stento a crederci. Tutti i nipotini del mondo, davanti all'improvvisa dipartita dei loro amati nonnini, sarebbero sconfortati oltre ogni dire..."
"E allora, se come dice comprende cosa le sto dicendo, vuole spiegarmi perché accidenti lei sta reagendo con tanto cinismo e distacco, come se il caso non fosse il suo?"
Mi voltai di scatto a guardarla, e a giudicare dalla sua espressione atterrita, la mia sì che doveva essere un'espressione davvero adirata e spaventosa.
"In teoria non sarebbero affari tuoi, ma visto che insisti te lo dirò, sebbene mi scocci alquanto parlarne. Vedi, cara Mona, sono così cinica e distaccata per il semplice fatto che il mio caro nonno recentemente defunto lo e stato in egual misura con me fin dal giorno in cui sono nata, senza esclusione di colpi. Ho passato diciotto anni sotto il suo tetto, grazie a dio in tempi limitati solo al periodo natalizio e a quello estivo, e sono stati anni freddi e solitari, per me. Ho cosi odiato vivere con lui che appena conquistata la maggior età ho immediatamente preso il volo, e non ho più fatto ritorno, neanche per natale. Non sento dunque mio nonno da quindici anni, e onestamente mi andava benissimo. Ti dirò... onestamente, lo credevo già morto da un pezzo. Per me lo era, almeno."
Ripresi a scrivere la mail a mia zia June, senza degnare Mona neanche di uno sguardo.
La vidi con la coda dell'occhio fissarmi impietrita, una statua di sale.
Mentre scrivevo, cercai di riacquistare il mio solito autocontrollo.
Ero pienamente cosciente di essere stata volutamente crudele con Mona, e di non aver usato alcun filtro, ma non avevo potuto fare altrimenti.
Quell'argomento era un nervo scoperto per me, una ferita sanguinante. Parlarne, mi faceva sentire come la bestia del castello se qualcuno osava avvicinarsi all'ala ovest: rabbiosa e terribilmente vulnerabile.
Sebbene fossero trascorsi molti anni, il mio risentimento nei confronti di mio nonno era ancora vivo in me come allora. Avrei voluto che restasse per sempre sepolto in fondo ad uno dei cassetti della mia memoria per sempre.
Come disse quel tale, tutti abbiamo un capitolo della nostra vita che non vogliamo leggere ad alta voce. Ecco, quello era proprio il mio. Il capitolo oscuro della mia vita.
Oscuro in tutti i sensi, poi.
Mio nonno aveva imbevuto la mia vita di anaffettività e solitudine, ma non si era mai degnato di dare spiegazioni, a riguardo. Non avevo mai capito, cosa lo spingesse ad odiarmi tanto da far finta che non esistessi.
Le poche e insoddisfacenti risposte che ebbi, a riguardo, me le diede zia June.
Irah Raincourt, mio nonno, era il padre di mio padre, Doughal Raincourt.
Papa era il primo figlio del nonno, e tale rimase.
Mia nonna Silvya, infatti, a causa di una salute cagionevole che la accompagnava fin dalla nascita, a sentire i dottori non avrebbe mai dovuto affrontare uno sforzo abnorme come una gravidanza con relativo parto.
Ma il suo desiderio di maternità scavalcò il volere dei medici, e contro il loro parere rimase incinta, ed ebbe mio padre. La sua luce si spense pochi anni dopo. Mio padre era poco più che un bambino.
Nonno Irah combatte il dolore per la perdita di sua moglie dedicando anima e corpo al suo unico figlio, costruendo per lui un ricco mosaico di aspettative per il suo futuro.
Mio padre, figlio devoto e integerrimo, assecondò benevolo ogni desiderio del suo amorevole padre. Finche, sul suo cammino accuratamente delineato per lui, non apparve un'imprevista deviazione: L'amore. Alias, mia madre, Erykah
Mamma era uno spirito libero, una cittadina del mondo, una figlia della natura. L'opposto esatto di mio padre, in poche parole.
Mio nonno disapprovò a scatola chiusa la loro relazione, proibendola categoricamente.
Mio padre, con sgomento generale, per tutta risposta prese baracca e burattini e parti insieme a mia madre per un viaggio zaino in spalla in giro per il mondo.
I due sparirono per un anno, senza alcuna notizia se non per qualche sporadica cartolina. A un certo punto, cessarono anche quelle, e ci fu silenzio per mesi.
Poi, una calda sera di luglio, nel bel mezzo di un temporale estivo, qualcuno bussò alla porta di casa di mio nonno.
Era mia madre; era fradicia di pioggia... e sola.
Comunicò a mio nonno in poche e sofferenti parole che mio padre, pochi giorni addietro, aveva contratto una strana febbre in india, e non era sopravvissuto.
Quella notte, la consapevolezza della morte di suo figlio, uccide anche mio nonno. O perlomeno la parte umana che era in lui.
Mia madre, in seguito, scopri di aspettare me, ma la cosa non cambiò nulla. Nemmeno quando mia madre mori dandomi alla luce, e lui rimase il mio unico parente in vita.
Nonno Irah mi spedì in collegio non appena raggiunsi l'età scolastica, in modo tale che la mia permanenza in casa sua si limitasse al periodo natalizio ed estivo.
Ciò che in me fu dolore nell'infanzia, nell'età adulta divenne rabbia, e alla fine della fiera fui io stessa a non voler più stare a casa del nonno, e non volli più averci a che fare.
Non tornai a casa nemmeno quando mi era concesso, e terminati i maledetti studi da lui impostomi, chiusi ogni rapporto esistente.
Lui non oppose obiezione alcuna, e tra noi calò il silenzio per quindici anni.
Per davvero, io credevo fosse già morto. Perlomeno, lo era per me.
Mona non aveva alcun diritto, dunque, di biasimarmi, ero a posto con la coscienza, non mi rimproveravo di niente.
Dopo qualche istante di muta riflessione, la mia segretaria parve riaversi dallo shock subito dai miei urlacci. Mentre vagavo su internet alla ricerca di qualche informazione su come si organizza un funerale, la vidi avvicinarsi guardinga alla mia scrivania torcendosi le dita in grembo, apparentemente indecisa sul da farsi. Sospirai.
"Non fare l'animaletto indifeso davanti al puma, Mona, non ho intenzione di sbranarti. Non più, almeno..."
Mona parve farsi coraggio, e mi venne vicina.
"Perdoni lei, miss. Non potevo sapere, ma al contempo, avrei dovuto stare al mio posto."
"Abbiamo sbagliato entrambe, direi. Tu avresti dovuto limitare la tua curiosità, io il mio temperamento irruento. Ma vedi, quello e davvero il padre di tutti gli argomenti tabu, per me. Irah raincourt era un vero mostro, e non sarò mai capace di perdonarlo, per il modo in cui mi ha trattata quando ero solo una bambina. Credimi, nessuno che conosca la mia storia oserà biasimarmi, se non verso lacrime per lui."
Mona annui, comprensiva.
"Io non oso immaginare cosa può aver passato, miss, né ora che sono cosciente che non desidera parlarne indagherò oltre..."
Posò una mano dalle unghie laccate sulla mia spalla. I suoi braccialetti tintinnarono nel mio orecchio.
"... Tuttavia, mi sento di poter dire almeno questo, miss: Nella vita, a tutto può essere porto rimedio. Tranne che alla morte."
Prese fiato. Lo sapevo bene, odiava trattare argomenti tanto seriosi.
"Una lite, uno screzio, un dissapore o che dir si voglia possono far allontanare le persone per un tempo indefinito, che può essere un giorno come un secolo. La morte, invece, allontana per sempre, irrimediabilmente."
"Mona, te l'ho già detto poco fa, mi pare: Lui era già morto, per me. Il fatto che la cosa si sia resa ufficiale, non cambia nulla." Replicai.
Mona annuì.
"Si, certo, ma... non può non persuadermi l'idea che, in fondo al suo cuore, lei sapesse che era ancora vivo. Ora invece la situazione e cambiata. La morte di suo nonno e una realtà incontrovertibile, per tutti. Non ci saranno seconde occasioni. E lei miss, non avrà volente o nolente più la possibilità di riconciliarsi con lui."
"Non abbiamo litigato, Mona..." puntualizzai.
"Beh, allora non avrà mai la possibilità di chiedere per quale motivo suo nonno è stato tanto crudele con lei. È finita, miss. Irah raincourt e tutte le domande che avrebbe potuto porgli... sono morte con lui."
Mi voltai a guardare Mona, una ragazza dai capelli celesti e l'aria più solenne mai vista. Mi scappò una risata.
"Senti un po', tu... lavando e sciacquando il mio cervello come fosse una delle tue psichedeliche gonne a ruota, dove vuoi andare a parare? Sono cosciente di quale sia il concetto di morte, come qualsiasi altro adulto sano di mente al mondo. Ma per motivi di cui or ora ti ho messo al corrente, mi riesce impossibile dispiacermi per la morte di quel vecchio corvo ispido. Insomma..."
Tirai indietro la sedia della scrivania per girarmi, ed avere Mona proprio davanti.
"Non riesci proprio a venirmi incontro? Andiamo, per quanto possa essere sproporzionata la tua anima caritatevole, nemmeno tu andresti al funerale di uno sconosciuto!"
Mona emise un verso di angoscia.
"Per l'amor di dio! fatico ad andare a quello delle persone che conosco, si figuri se... No, aspetti, freni il cavallo!"
Mi si parò davanti, nuovamente bellicosa.
"Sta forse dicendo che non intende neanche andare al funerale?!"
La guardai.
"Beh, mi pare una cosa abbastanza scontata, direi. Ti sto dicendo da tre quarti d'ora che non me ne frega niente della morte di mio nonno, ti pare che poi vado al suo funerale? Sii seria, Mona, che senso avrebbe?"
Mona mi guardò con tanto d'occhi, profondamente turbata. Sbuffai, sfregandomi gli occhi.
"Dai, Mona, non è il caso di gridare allo scandalo, adesso. Lo sa benissimo che se al mondo esiste una cosa che proprio non tollero sono i falsi e gli ipocriti. E a quel funerale, credimi sulla parola, ci sarà una ricca macedonia di certi elementi. E io piuttosto che unirmi al club, preferirei rasarmi a zero..."
"Una nipote che partecipa al funerale di suo nonno, non può essere mischiata alla folla degli ipocriti e dei falsi!" sentenzio Mona, indignata.
"Ma mi ci sentirei io, Mona! Santo dio, non gli parlo da quindici anni, e lo stesso tempo è trascorso senza che lo cercassi neanche una volta! Non ritorno sui miei passi solo perché ora e morto, per me Irah raincourt e un capitolo chiuso già da tempo."
Presi fiato, mentre Mona scuoteva la testa senza idee sul come replicare.
"Mi spiace che per te sia impossibile comprendermi, ma resterò fedele a me stessa e ai miei principi. Non andrò a quel funerale, fine della questione. Esaudirò ogni sua volontà testamentaria, anche se si trattasse di farlo cremare e di mettere le sue ceneri in un barattolo da un chilo di gelato al cioccolato bianco, non importa, lo farò se e quello che desidera. Ma cascasse il mondo, dio mi e testimone, io non andrò a quello stramaledetto funerale!"
Mona respirò a fondo, guardandomi come una maestra severa davanti ad un alunno particolarmente indisciplinato.
"Sia come vuole, miss!" disse, infine. "Faccia come meglio crede. E 'adulta e vaccinata, nessuno può obbligarla a fare alcunché, se lei non vuole."
Detto questo, girò sulle sue zeppe vertiginose, e con la gonna svolazzante nel vento uscì impettita dal mio ufficio.
Io mi azzardai, un po' stremata, a finire le mie ricerche sui funerali, sperando di aver finalmente concluso quella fastidiosa conversazione.
"Certo che..."
Alzai nuovamente lo sguardo dal pc, stavolta decisamente seccata.
"Che c'è ancora?" Sbottai.
"No, niente di che, si figuri..." rispose Mona in tono falsamente vago, tormentando il grosso diamante di plastica rosa che teneva appeso al collo. "Mi chiedevo solo... cosa potrebbe pensare la gente del fatto che lei, unica nipote ed erede universale di suo nonno, non si farà vedere al suo funerale... "
Le risi in faccia.
"Guarda, l'ultima cosa al mondo capace di privarmi del sonno è il pensiero altrui, Mona. Dovresti averlo notato, in cinque anni qua dentro..."
"Eh, come no..." rispose Mona, mal celando una punta di risentimento nella voce. "Non me lo chiedevo certo perché mi preoccupo per lei..."
"E per chi, di grazia?" chiesi, quasi distrattamente, segnando il numero di un fioraio.
"Per sua zia..." mi rispose Mona, con nonchalance.
Mi cadde la penna dalle mani, e i miei occhi sfrecciarono sul viso gaudente di Mona, desiderando di vederla prendere fuoco insieme ai suoi limoni.
"Mia zia sa chi era mio nonno, non avrà niente da ridire se non mi presenterò al funerale.
Mona annuì, arricciando le labbra luccicanti di gloss fruttato.
"Certo, non lo metto in dubbio, ma... mi sembra di ricordare che lei, tempo addietro, mi abbia raccontato che sua zia è una donna molto perbenista e che tiene in modo particolare alle convenzioni sociali. Mi chiedo, dunque, se madame Juniper non rischia di trovarsi in mezzo a un vespaio di pettegolezzi, una volta che la gente si sarà resa conto che miss raincourt non ha partecipato al funerale di suo nonno, cosa che verrà vista come una grave mancanza di rispetto..."
Ridussi i miei occhi a due fessure. Mona era trionfante.
Rabbiosa, chiusi di scatto il pc. Mona era eccezionale sotto molti punti di vista, ma odiavo da morire il suo innato talento nel manipolare le persone a suo piacimento. Sapeva sempre quale tasto toccare per far fare alla gente quello che voleva. Me compresa.
Mia zia June era come diceva lei, perbenista ed esteta. Era molto probabile che sarebbe morta, sotto i colpi delle frecciatine delle malelingue.
In passato era già capitato che soffrisse per colpa dei malpensanti delle lingue lunghe, non potevo permettere che ricapitasse.
"Io vengo e dico, Mona..." ringhiai. "Che glie li hai fatti spendere a fare i soldi, ai tuoi, per farti studiare da segretaria di ufficio legale, quando è assolutamente ovvio che il tuo posto è nei servizi segreti britannici a torturare le spie nemiche affinché confessino i loro segreti e giurino fedeltà alla regina!?"
Mona fece spallucce.
"Non so da dove le vengono certe idee, miss, io non ho fatto niente." Cinguettò.
Spalancai ogni chakra presente nel mio corpo per soffocare in me l'istinto di strangolarla con la sua coda di cavallo da my little pony.
"Dio me ne scampi e liberi... ok, abnorme rompimento di palle, hai vinto...vado!"
Mona applaudi giubilante.
"Oh, sapevo che alla fine avrebbe capito cosa era giusto fare, miss, sono orgogliosa di lei!"
"E tu sei peggio della tosse di notte: assillante e sfiancante. Muovi il culo, ora, e vai a prepararmi un bel te nero forte. E mettici dentro un paio di dita di quel rum che Lady Felicia ci regalò a natale l'anno scorso..."
"Miss, non dovrebbe bere già a quest'ora!" mi apostrofò Mona.
"O bevo o ti ammazzo, scegli..." fu la mia risposta. Mona sorrise a trentadue denti, e andò a prepararmi il tè.
"Dato che ci sono, mi metto all'opera e le prenoto il volo, eh? O preferisce il treno?"
"Non ho bisogno di quella roba, anche perché non passano treni per di là, e l'aeroporto e da tutt'altra parte. Mi basta la mia macchina. Gesù, non le avessi fatto fare la revisione, avrei avuto una scusa per restarmene a casa. Dannato sia il mio zelo..."
Mona fece capolino sull'uscio della porta del mio ufficio, preoccupata.
"Come, la macchina? Vuole farsi un viaggio lungo chissà quanto in solitario in macchina? Non credo sia prudente, miss..."
"Non fare la mammina isterica. Stautonville e a tre ore da qui..."
Mona inarcò le sopracciglia.
"Miss... lei ha passato la mattinata a fare i capricci per non andare in un posto a tre misere ore da qui?"
Le sorrisi.
"Esatto, denunciami." Le risposi.
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Il dono del destino
ParanormalTabitha Raincourt, giovane avvocatessa disillusa e amareggiata, torna a casa dopo anni di lontananza per partecipare al funerale di suo nonno. Ritrova Juniper, migliore amica della sua defunta madre e attuale governante di casa Raincourt, e i suoi d...