Cap. 2 - la città nascosta

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"Dalla conchiglia, si può capire il mollusco. Dalla casa, l'inquilino."

V. Hugo

Guidare era la cosa che più amavo fare al mondo.
Io, la strada, la velocità, quel senso di libertà che tutto ciò mi trasmetteva, erano ineguagliabili.
Al volante della mia carretta, sentivo ogni preoccupazione e ogni cruccio scivolare via, come il vento tra i miei capelli. Pensavo meglio, e di conseguenza prendevo le decisioni in maniera più accurata.
Tanta gente meditava, faceva yoga. Io guidavo.
Da Londra, occorrevano circa 4 ore per raggiungere la mia destinazione, e mi aspettava una tratta prevalentemente in aperta campagna. Grasso che cola, pensai.
Avevo per le mani tipo un milione di fastidiosi pensieri che andavano sbatacchiando nella mia testa come palline dentro un flipper; un bel viaggetto moderatamente lungo in solitaria a bordo del mio macinino era praticamente la cura prescritta dal dottore.
Quindi, la mattina seguente alla nefasta telefonata di zia June mi ero alzata di buon mattino, avevo fatto una bella colazione all'inglese nella caffetteria sotto casa, mi ero preparata un bel termos di tè al latte molto zuccherato, e mi ero messa in viaggio.
Appena messa in strada, la mia mente iniziò a sgomberarsi, perciò inizia subito a buttare giù una tabella di marcia delle cose che avevo da sbrigare.
Primo fra tutti... veniva il funerale.
Bene o male, con qualche telefonata avevo risolto il grosso del lavoro, non era stata l'impresa titanica che temevo di dover affrontare.
Probabilmente, l'unico problema sarebbero stati i giornalisti.
Mio nonno viveva da anni rintanato nella sua casa dispersa in mezzo al nulla, come un vecchio paguro nascosto dentro la sua conchiglia. Tuttavia, questa stravagante scelta di vita non aveva certo persuaso il mondo a scordarsi di lui. Infatti, avevo scoperto con non poco stupore che il nonno manteneva perpetuo il suo nome nella lista degli uomini più ricchi del regno unito
stilata dal Times.
Non c'era granché da meravigliarsi, a dire il vero. Il nonno poteva anche aver scelto lo stile di vita del granchio eremita, ma era comunque ancora vivo, e come lui lo era il suo impero: la prestigiosa casa editrice di famiglia, la Raincourt editor, fondata nei primi del novecento.
Era praticamente certo che uno o due articoli su qualche quotidiano non ce li avrebbe tolti nessuno, tanto valeva farsene una ragione. Speravo più che altro che i giornalisti avessero il buon gusto di evitare di presentarsi alla funzione. Zia June non avrebbe affatto gradito.
Già, la funzione. Il secondo punto della mia lista.
Il mio piano originale a riguardo, prevedeva solo una mia fugace apparizione, dedita a persuadere i maldicenti a spettegolare, e una mia ancor più rapida ritirata.
Ma ancora una volta, la mia cara e dolce fatina turchina Mona si era sentita in dovere di esprimere il suo non richiesto parere, facendomi notare che era a dir poco crudele da parte mia ritornare nel mio paese natale dopo quindici anni, e dedicare alla mia famiglia non più di una manciata di minuti, per di più in tali lugubri circostanze.
Morale della favola, Mona mi aveva dichiarata ufficialmente in vacanza a tempo
indeterminato con tutti i miei clienti, possibilità di contatto solo telefonicamente.
Evviva l'anarchia, pensai, avvertendo il miasma nero in me ingrassare a vista d'occhio.
Chi accidenti voleva stare un mese intero a Stautonville, il paese che nemmeno dio ricordava di aver creato. Nella casa di mio nonno, poi, immersa fino ai lobi dai deprimenti ricordi del mio passato.
Cercando di non pensare a quanto avrei voluto strozzare Mona con le mie stesse mani, ripensai a una strana domanda che quest'ultima mi aveva fatto prima che ci congedassimo.
Mi aveva chiesto, totalmente nel giusto, il motivo per cui, nonostante covassi tanto rancore per ciò che era stata la mia vita tra le muta della casa di mio nonno, in definitiva avevo messo così pochi chilometri tra tutto ciò e me.
La domanda del secolo.
Io stessa mi ero posta questa domanda innumerevoli volte.
Ma una risposta vera e propria, non ero mai stata capace di darmela.
In passato, erano state molte le occasioni che avevo avuto per poter piazzare addirittura un oceano tra me e il mio passato, ma non le avevo mai concretizzate.
Niente al mondo richiamava il mio odio come mio nonno e tutto ciò che lo riguardava, inclusa la sua casa. Nondimeno, avvertivo l'esistenza di un qualche tipo di legame tra me e quel luogo. Un legame molto profondo, radicato dentro di me.
Ero pienamente cosciente che tutto ciò risultava un enorme paradosso. Come può una persona sentirsi legata a ciò che odia?
Non sapevo cosa dire, era cosi e basta.
Riflettendo sui misteriosi meandri della mente umana, lasciai la strada principale, per immettermi in quella di campagna.
Era una giornata strepitosa, e il panorama campagnolo era bellissimo. Godersi lo sbocciare della primavera in una città caotica come Londra era pressoché un' utopia. Ma lì in mezzo alla brughiera, tra le colline verdeggianti spruzzate dal rosa delle eriche, dove madre natura dava libero sfogo al suo estro meraviglioso, sembrava di stare in una favola.
I fili d'erba dei prati sembravano fatti di sottili schegge di smeraldo, che il sole irradiava e faceva brillare rendendoli quasi abbaglianti.
L'assordante rumore del traffico e il pestilenziale odore di smog non esistevano in quell'idilliaco mondo.
L'aria profumava di terra, erba e fiori. E si, percepivo anche il caratteristico odore del bestiame al pascolo.
Mi piaceva, quel bouquet di fragranze. Mi riportava all'infanzia.
Sapendo di essere ospite sgradita da mio nonno, nelle rare occasioni in cui tornavo a casa cercavo in ogni modo di tenermi fuori casa il più possibile. Vagabondavo per la campagna, giocavo nel bosco e giù al fiume. Ero un vero e proprio animaletto selvatico in gonnella.
Zia June lo detestava.
A suo dire, una signorina a modo mai e poi mai avrebbe dovuto andare a zonzo per le campagne infangandosi scarpe e vestini come un maschiaccio.
Mi diedi una fugace occhiata nello specchietto retrovisore. Avevo raccolto i miei lunghi capelli fulvi con un grosso mollettone, ed ero come sempre completamente struccata.
Beh, cara zia June, non sempre le cose vanno come si vorrebbe...
Chissà, pensai facendo una smorfia al mio riflesso, che non fosse dovuto proprio allo scarso interesse che avevo per il mio aspetto fisico, il mio clamoroso fallimento in campo sentimentale. È vero che un libro non si può giudicare dalla copertina, ma è anche vero un fiore brutto non attrae un'ape, per quanto buono sia il suo profumo.
Magari era davvero per questo motivo che lui...
Presi una buca in pieno, facendo sussultare l'auto. Io pure ebbi un sussulto, ma non certo dovuto alla buca. Mi era appena venuta in mente una cosa adir poco sconcertante,
Organizzando il funerale, mi ero concentrata solo sul come tenere a bada gli ospito sgraditi. Non mi aveva sfiorata minimamente idea... che c'erano anche delle persone investite di tutti i diritti di essere presenti. Lui, per dirne uno!
Al pensiero, il mio stomaco si accartocciò come un foglio di carta.
Oddio, non era una certezza, la mia. Viveva ad Edimburgo da secoli, dove faceva un lavoro super impegnativo e su cui gravavano mille responsabilità.
Lui, poi, era uno stacanovista di prima categoria di suo, per cui se anche il lavoro gli avesse lasciato un attimo di respiro, sicuro come loro che non se lo saprebbe preso comunque, un attimo per sé.
LEppure... ci avrei scommesso una tetta, che ci sarebbe stato!
Se non per il profondo rispetto che nutriva per mio nonno, lo avrebbe fatto per zia June, che come minimo gli avrebbe staccato un testicolo, se si fosse azzardato a non venire. Oh, cristo...
Di colpo, tornai ad avere 15 anni, la mia età meravigliosa, in cui iniziai a patire le pene dell'inferno per amore, e in cui nacque il mio miasma nero.
Iniziai provare di nuovo quella sensazione di fastidiosa irrequietezza, quell'ansia che mi assaliva improvvisamente. Il terrore che i miei sentimenti venissero smascherati, e in contemporanea il cocente desiderio che ciò accadesse...
Mi guardai nuovamente nello specchietto. E mi sentii immensamente patetica.
Ma come diavolo ero ridotta, a trent'anni suonati? Ancora a farmi le seghe mentali come una ragazzina ormonalmente sconnessa? Ma non scherziamo!
No, ero fin troppo vecchia per le paturnie adolescenziali, avevo già ampiamente dato ai tempi. Ora ero un'adulta, una cazzutissima principessa del foro londinese con un pessimo carattere e un mare di pelo sullo stomaco, non mi spaventava niente!
Che lui ci fosse o meno, la cosa non mi avrebbe rubato certo il sonno. Ci stavamo tutti, al mondo, no?
No, non me lo volevo permettere, a costo di ammazzarmi. Avevo sofferto come una bestia in passato, e molto probabilmente i traumi subiti avevano lasciato diverse ripercussioni in me, visto considerato che uomini all'orizzonte non se ne vedevano da eoni. Ma era comunque, e decisamente, acqua passata.
Anzi, pensai in uno slancio di ottimismo buttato un po' lì, magari rivedendolo dopo tanti anni mi sarei resa conto che non era poi questo granché, e avrei finito per farmi quattro risate alla faccia della me stessa teenager!
Ringalluzzita da questo pensiero divertente e ignorando deliberatamente la vocina nella mia testa che mi borbottava cose tipo "Non ci credi neanche tu!" e imboccai una stradina laterale accanto a uno spettacolare meleto in fiore. E mi resi conto che iniziavo a orientarmi, il paesaggio era familiare. Ergo, ero praticamente arrivata, avrei avuto da fare ancora un paio di chilometri in campagna, e poi sarei giunta al fiume, su cui si ergeva il vecchio ponte di pietra. Varcato quello, sarei stata ufficialmente a casa, a Stautonville.
Respirai a fondo con il naso, ed espirai con la bocca. Ero decisamente combattuta. Non mi era molto chiaro cosa provassi, in quel momento.
Da una parte, mi sentivo euforica ed entusiasta di rivedere il mio bosco, il mio bel fiume e il mio ponte di pietra; i miei parchi gioco di bambina.
Dall'altra... avvertivo ridestarsi i fantasmi del mio passato, e tutta la rabbia e il dispiacere provati decidendo che non sarei mai più tornata con loro.
Ma indietro non si torna, mi dissi a moto di incoraggiamento, e un avversario prima o poi lo si doveva affrontare. Quindi, senza ulteriori indugi o ripensamenti, prosegui seguendo il fianco del fiume in direzione del ponte. Avrei dovuto lasciare la macchina in uno spiazzo lì vicino, visto che il vecchio ponte di pietra non si poteva attraversare se non a piedi o al massimo in bicicletta. Era talmente antico, che probabilmente non avrebbe retto il peso.
Va beh, niente di preoccupante. Nessuno sano di mente avrebbe mai pensato di rubare il mio macinino.
Stautonville era davvero l'ultimo paese al mondo, non lo trovavi neanche andando a cercarla con il lanternino. Nemmeno sulle cartine, risultava. Lo potevi raggiungere solo ed esclusivamente se conoscevi qualcuno che ci abitava e ti diceva come raggiungerlo, altrimenti era a dir poco impossibile trovarlo.
I residenti, come la famiglia Raincourt, erano gli stessi da intere generazioni.
Le storie che si tramandano riguardo alla nascita di Stautonville cambiano da bocca a bocca, ogni versione aggiunge dettagli o li toglie, come sempre. Ma un punto comune restava: Il suo fondatore, Jeremiah Stauton.
Stauton era un giovane inglese di benestanti origini, ed era un predicatore.
Giunse per caso da quelle parti in un giorno qualunque, verso la fine del 1600, durante un viaggio con la sua novella sposina, e lo splendore della campagna inglese rapì il suo cuore di ragazzo di città, e gli fece decidere di mettere radici.
A quei tempi, dove ora sorge la ridente città di Stautonville, c'era solo campagna a perdita d'occhio e un pugno di casette spartane da pecorai e contadini.
Stauton, da buon cristiano volenteroso, decise di prendere in mano la situazione.
Comprò l'intera valle, e si tirò su le maniche per renderla un posto più civilizzato e adatto a farci vivere la sua famiglia e le altre persone.
La rivoluzione adottata da Stauton, agli occhi di quei semplici contadini e pecorari non fu subito vista di buon occhio, ma ben presto tutti iniziarono a ricredersi. Stauton fece un vero e proprio miracolo, con quel pugno di terra in mezzo al niente.
Fece costruire una chiesa, case decenti, una scuola, persino una piccola clinica ospedaliera e una biblioteca.
Lui stesso, uomo colto e istruito, si premunì di insegnare ai bambini e agli analfabeti del villaggio a leggere a scrivere, diventando in breve tempo un vero e proprio idolo delle folle. La gente del villaggio lo amava a tal punto da volerlo, oltre che come pastore, anche sindaco. Lui accettò con gioia, e quel giorno stesso la città venne battezzata Stautonville, in suo onore.
Stauton era un angelo mandato dal signore per quella gente, e restò nella città che portava il suo nome fino al giorno della sua morte, che fu pianta e sofferta da molti.
La sua casa esisteva ancora, esattamente dove lui l'aveva fatta costruire più di trecento anni prima. Gli anni e l'avvento dei tempi moderni l'avevano cambiata un po', certo, ma le sue radici erano ancora dove Stauton le aveva volute, sulla collinetta che sorgeva proprio alle spalle del paese. Sembrava che Stauton l'avesse voluta lì per poter vedere la sua Stauton ville per intero in ogni momento.
Ed era proprio quella stessa casa, il luogo in cui nasce la storia della mia famiglia.
Quella casa, che un tempo si era chiamata Stauton house, e che ora era conosciuta come Raincourt manor.
Le radici della mia famiglia erano lì, ma nessuno sapeva di preciso come avevano fatto i miei avi ad arrivare a Stautonville. Si supponeva che i Raincourt avessero comprato la casa intorno alla metà del 1700, ma la cosa poteva essere avvenuta prima come dopo. Purtroppo, nel 1823, quando raincourt manor risultava di proprietà del mio trisavolo Sheldon Raincourt, un tremendo incendio scatenato da una lanterna ad olio mal riposta scoppiò nella notte nello studio privato del padrone di casa.
L'incendio fu fortunatamente domato prima che si propagasse in tutta la stanza e anche nel resto della casa, ma per i documenti privati e i gran parte dei libri del trisavolo non ci fu scampo. Sicché, ogni documentazione originale riguardante la casa fu perduto per sempre.
La casa, ovviamente, si sapeva che era stata costruita da Stauton alla fine del 1600. Ma come poi sia passata in mano ai raincourt, rimarrà un mistero divorato dal tempo e dal fuoco.
Finalmente, il mio amato ponte di pietra apparve davanti a me. Ancora un pochino tesa, parcheggiai la macchina sotto un bel noce, e presi i bagagli dal cofano, mi accinsi ad attraversarlo.
Arrivata al limitare del paese, mi parve di varcare un tunnel temporale, 15 anni indietro nel tempo. Non era cambiato niente, sembrava che fossi stata lontana non più di una mezzora.
Stautonville era uguale, come fosse immune al passaggio del tempo. Ogni strada, ogni casa, ogni giardino... erano come gli avevo lasciati.
Mi inoltrai nella via principale, in direzione della piccola piazza con la fontana dei putti, immersa fino al collo nei ricordi. Vidi il mini market della signora May, con tanto di sua figlia Rosaline alla cassa! Era invecchiata e si era fatta più grassoccia, ma era decisamente lei. La sua faccia, cosi come quando ero ragazza, ricordava quella di un carlino.
Istintivamente, dal punto preciso in cui mi trovavo, mi voltai di scatto verso sinistra. E il mio cuore saltò di gioia come una foca.
La biblioteca dei Prince, me l'ero totalmente dimenticata, come avevo potuto? Oh dio, quanto ricordi anche il quel posto...
Avevo imparato a leggere e a scrivere, tra quelle mura polverose, ed era il mio rifugio sicuro dove andare quando fiori pioveva e non si poteva giocare.
Mi sorpresi a sorridere. Mi chiedevo se lui era ancora lì, oppure come me se ne fosse andato...
Proprio accanto al mini market, ecco la merceria del signor Pendretti, il preferito di zia June.
E come si soul dire, a parlare del diavolo finisce che te lo ritrovi in casa.
In fatti, proprio mentre ricordavo la bella zia June uscire da quella bottega con suo cestino di vimini con il fiocco verde carico di stoffe nuove, eccola spuntarmi davanti.
E anche lei, come tutto il resto, era rimasta la stessa. Alta, longilinea, con i suoi inconfondibili capelli castano ramati fino alle spalle e le punte all'insù e il suo girocollo di perle ad illuminarle il bel viso sorridente e grazioso. Anche il fido cestino col fiocco verde era sempre lui. Quel coso doveva essere immotale.
Rimasi ferma in mezzo alla strada, ad aspettare che fosse lei ad accorgersi di me. Non dovetti attendere molto. Voltandosi per dirigersi verso il suo secondo negozio preferito, il negozio di fiori e sementi di mister O'kieef, mi vide.
Le vidi il cestino scivolare via dal braccio e rovinare a terra, mentre un'espressione di totale stupore le appariva in volto.
"Ciao, zia June." Le dissi, come a voler confermare che non ero un'allucinazione.
Al suono della mia voce, zia June spiccò una corsa verso di me, e mi getto le braccia al collo.
"Oh Tabitha... sei tornata, tesoro mio!"
E in un istante, tornai ad essere bambina. Una bambina, tra le braccia della sua mamma.
Perché questo era stata, lei, per me... una vice mamma.
Le mie mani affondate del suo morbido golfino color foglia la sentirono tremare in preda ai singhiozzi.
" Eh no!" la apostrofai, carezzandole la schiena. "Che cosa mi hai sempre detto riguardo al pianto?"
"Arrossa gli occhi, e stuzzica i pettegoli, mai in pubblico!" rispose pronta lei, scattando dritta in piedi e pescando dalla manica un candido fazzoletto ricamato con cui si tampono via svelta le lacrime dagli occhi. Per fortuna, zia June aborriva il trucco pesante. Se a piangere fosse stata Mona, quel fazzoletto bianco sarebbe diventato un quadro astratto.
Io annui, e lei mi sorrise amabile.
"Oh angeli del cielo, ancora non ci credo!" mi disse, concitata, mentre raccoglieva il cestino e i suoi acquisti. "Quando miss Sheridan mi ha mandato quella mail dicendo che saresti venuta, non mi sono permessa di crederci fino in fondo, per paura di una delusione. Dopo 15 interi anni ad aspettare, ero sul punto di perdere le speranze di rivederti."
"Beh, ad essere sinceri, ci ho ripensato almeno mille volte, prima di decidere. Ma poi..."
"Angeli del cielo!" esclamò tutta un tratto, guardandomi. "Ma... ma come ti sei vestita? Sembri... una senzatetto, tesoro!"
Già ... ma poi, non avrei fatto meglio a starmene a casa!?
"Davvero?" sospirai. "Non mi vedi da 15 anni, e la prima cosa che ti viene in mente di fare è criticarmi?"
Zia June si ricompose all'istante.
"Oh, tesoro, scusami, hai perfettamente ragione, non è affatto il caso!"
Le sorrisi.
"Siamo in mezzo alla strada, non sta bene! Oh angeli del cielo, spero che nessuno mi abbia sentito..."
Ah, era quello, il problema...
"Su, andiamo a casa! Abbiamo un'infinità di cose da raccontarci, e ben lontani da orecchie indiscrete!"
Mi prese sottobraccio, e insieme ci dirigemmo verso una stradina un po' lontana dal centro abitato che, in tutta franchezza, speravo di non ricordare bene come il resto del paese.
E invece, mentre la strada iniziava ad incurvarsi in una dolce salita, mi parve di riconoscere perfino i bianchi sassolini del selciato che portava in cima alla collinetta, dove mi si parò davanti l'enorme casa dei miei avi: Raincourt manor.
"Casa dolce casa, eh tesoro?" commentò giuliva zia June.
"Eh, come no..." risposi in tono lugubre.
Altra ondata di ricordi. Vedere la grande casa della mia fanciullezza, la casa di quell'orco di mio nonno, mi fece precipitare dritta tra le braccia del mio fedele miasma nero.
Cercai di indorarmi la pillola ignorando le grigie mura della casa, concentrandomi sul meraviglioso giardino tutt'attorno, il fiore all'occhiello di zia June, regina indiscussa dei pollici verdi.
Quella donna avrebbe fatto fiorire le sue giunchiglie anche nel deserto di sale in Bolivia.
I meli, i peri, i ciliegi e i melograni erano letteralmente in stato di grazia, stupendi, e come loro anche le piante di lavanda, il roseto di american beauty e i preziosi cespugli di ortensie blu e rosa, i prediletti di zia June.
L'Erba del giardino sembrava tagliata con goniometro usando una forbicina per le unghie, tanto era maniacalmente perfetta. Sfuggiva a quella perfezione millimetrale solo qualche ciuffetto di tarassaco, comunque potati regolarmente.
"Hai ancora la tua serra con le spezie e gli odori?" chiesi, respirando a fondo il profumo dell'aria mentre passavamo davanti al cespuglio di lavanda brulicante di api e bombi laboriosi.
"Angeli del cielo, come potrei vivere senza la mia serra, tesoro?" mi rispose zia June, la mano al petto." Sarei persa, senza le mie bambine!"
Raggiungemmo la porta d'ingresso costeggiata da due grandi vasi contenenti due bei cespugli di erica, con me che combattevo la tentazione di girare i tacchi e darmela a gambe.
Zia June infilò la grossa chiave nella serratura, che girando produsse un forte rumore. Dio, anche quel sinistro cigolio metallico mi era familiare...
"Ecco, proprio per restare in argomento!" esclamo zia June entrando in casa e andando ad aprire le tende per fare entrare la luce. "Mi è appena venuto in mente che proprio ieri ho terminato il mio mix per fare il mio leggendario te millefiori. Devo per forza andare nella serra a riempire il barattolo. Ti lascio sola un pugno di minuti, ti spiace?"
"No..." risposi distrattamente. La luce entrata dalle finestre aveva illuminato tutta l'atrio, e mi ero ritrovata paralizzata.
Non un vaso, un soprammobile, una cornice. Nulla, era in un posto diverso da come lo ricordavo.
Guardai gli alti soffitti bianchi dai bordi decorati, e il grande lampadario con i pendenti di cristallo, che illuminati dal sole proiettavano la luce dell'arcobaleno contro le pareti color panna.
Mi tolsi le scarpe, e camminai sull' antico tappeto persiano blu e bianco, in perfetto contrasto con il pavimento a piastrelle larghe sui toni chiari e scuri del marrone.
Sfiorai il mobile di quercia dove c'era il grazioso telefono anni '20 di zia June, e mi riflessi nel grosso specchio dalla cornice in legno tutta elaborata appeso sopra di esso, i preferiti di mia nonna.
Osserva il le due grandi porte ad arco in vetro ai lati della stanza, che portavano a destra in salotto e a sinistra nella sala da pranzo.
Alzai la testa verso la grande scala di legno dal lucido corrimano che portava al piano di sopra, nelle camere da letto. Lassù c'era anche la stanza della musica, la biblioteca e lo studio privato del nonno.
Proprio lì, accanto a me, c'era il tavolinetto da caffe con il grande vaso di rose bianche e spighe di lavanda, dietro il quale stava in linea d'aria la porta un po' nascosta che portava alla grande cucina, con annessa la dispensa.
Mi si irrigidirono le spalle per la tanta tensione, a quella vista.
Ogni cosa, chiamava alla mente un ricordo, più o meno doloroso.
"L'ho sporcato con la vernice delle tempere, questo qui..." dissi tra me e me, sfiorando con il piede in un movimento circolare il tappeto persiano. Piegai la testa di lato. "Mmh, la macchia si intravede ancora..."
Mi diressi al mobile del telefono. Ne sfiorai il quadrante con i numeri a rotazione.
"La zia saprà dell'esistenza degli smartphone?" mormorai, divertita.
"Sì, ma credo preferisca far finta che non esistano per non ammettere di non saperli usare..."
Feci un salto di un metro. Se avessi allungato le braccia avrei potuto aggrapparmi ai pendenti di cristallo del lampadario. Qualcuno aveva parlato... e lo aveva fatto proprio sopra la mia spalla.
Quel qualcuno, poi, mi aveva afferrata saldamente per evitarmi di cadere lunga distesa sul pavimento, facendomi finire con il naso premuto contro il suo petto.
Uno squisito profumo di sapone e dopobarba mi entrò nelle narici, inebriandomi.
Oh cristo, conoscevo quel profumo!
"Oh santo cielo, scusami! Non era mia intenzione spaventarti!"
Alzai la testa, e le mie ginocchia ringraziarono caldamente che l'uomo che avevo di fronte mi tenesse ancora tra le sue braccia.
"G... Gilbert!" mi uscì, con un tono stridulo mai sentito in vita mia. Lui mi sorrise a trentadue denti.
"Oh, Tabitha, sono così felice che tu sia tornata, non lo puoi neanche immaginare!"
Mi prese letteralmente di peso, e mi fece girare. Mi venne un capogiro. E non certo per il giretto in giostra.
Non vedevo Gilbert McNamara, il devoto figlio di zia June, dalla bellezza di 15 anni. E alla faccia di tutto il resto, era cambiata radicalmente... e in meglio!
Si vedeva che era lui, ovvio, ma in qualche modo era come se fosse tutto... amplificato!
Riconobbi del ragazzo con cui ero cresciuta in quella stessa casa i bei lineamenti armonici e la mascella marcata, gli stessi meravigliosi occhi grigi, i suoi bei capelli castani e le sue labbra sottili.
Anche il suo fisico era un po' cambiato, ma solo perché ora era un uomo, e non più un ragazzino. Era sempre tonico ma non eccessivamente muscoloso, come piaceva a sua madre. Notai anche che era... più alto.
Wow, pensai. Da ragazzo, Gilbert era davvero molto carino. Da adulto, era letteralmente da infarto!
"Mi guardi come se non mi riconoscessi, Tabitha."
Il suo commento mi riportò alla realtà. Oddio, mi ero imbambolata a guardarlo come un idiota!
"Ah... ma no! E che... non ti vedo da una vita, e..." biascicai, cercando di non andare a fuoco.
"Ah, non credere che per me non sia la stessa cosa! Ti ho lasciata che eri una ragazzina lentigginosa e magrolina..."
Ah, era questo che pensava di me, dunque...
"...E ti ritrovo una splendida donna. Se non fosse che i tuoi occhi sono rimasti gli stessi, non avrei certo scommesso che fossi davvero tu."
Prese il mio viso tra le sue mani grandi e calde, e le sue dita da pianista mi sfiorarono una guancia e uno zigomo.
"Già, io questo occhi non li potrei confondere nemmeno tra mille." Sussurrò, e prese a guardarmi intensamente, sorridendomi.
Fui pervasa da un tremito, a quel tocco. Tutto sommato, non ero poi così lontana dalla ragazzina che ero. Gilbert mi faceva tremare allora, e tremavo nello stresso modo ora.
"Angeli del cielo, Gilbert! Non mi dire che sapevi che sarebbe arrivata!"
Zia June ruppe quella meravigliosa bolla romantica sbucando da nulla, armata di un bel vassoio carico del suo servizio da te di porcellana cinese e di biscottini fatti in casa. Solo per il profumo paradisiaco di quelle delizie evitai di mangiarla viva per averci disturbato sul più bello.
"Beh, confesso di sì, madre." Rispose Gilbert lasciandomi andare, un po' in imbarazzo.
Madre... Oddio, la chiamava ancora così?
"E posso di grazia sapere come, caro?" chiese zia June, incamminandosi con il suo delizioso carico verso il salotto.
"Me l'ha detto lui..." rispose Gilbert, e indicò il soffitto con aria eloquente. Zia June scosse la testa.
"Scimmietta dispettosa, deve aver letto di nuovo le mie mail. E dire che lo sapeva di certo che avrei voluto farvi una sorpresa..."
"Probabilmente è esattamente per questo che lo ha detto a tutti..." ridacchiai, e alzai la testa verso le scale. "Ci dara udienza, o aspetta l'invito scritto da Buckingham Palace?"
Zia June fece uno dei suoi sorrisi enigmatici.
"Lo sai come funziona, tesoro."
Io annui.
"Eh sì... è quasi l'una del pomeriggio, sarà in piena fase rem!"
Scoppiammo tutti a ridere, e ci dirigemmo in salotto.
Il grande salotto di Raincourt manor era la stanza adibita agli ospiti (Non se ne era mai visto uno) ed era la preferita di zia June. I colori scelti dalla vice padrona di casa erano tutte tonalità riposanti e accoglienti. La soffice moquette che ricopriva per intero il pavimento della stanza era di un bel color panna, mentre la tappezzeria erano di un rinfrescante color menta pallido. Per le tende, zia June aveva optato per un punto di azzurro cielo, in perfetta sintonia con i cuscini ricamati del divano, candido come la neve.
La vetrina con le preziosissime porcellane cinesi era ancora al suo posto, accanto al camino.
Dio solo sapeva, quante erano state le volte in cui quei preziosi ninnoli asiatici avevano rischiato la vita, quando ero piccola.
Zia June posò il vassoio sula credenza dall'altro lato del camino, e prese a versare il tè dentro le nostre tazze.
"Ti rifiuti ancora di lasciar toccare la tua teiera da chicchessia, eh?"
Zia June inarcò impercettibilmente un sopracciglio.
"Il fatto che ora siate adulti, non significa che siate di conseguenza in grado di maneggiare cose delicate. Questa teiera è antica, tesoro, ed è un pezzo unico che ho faticosamente rintracciato ad un'asta a Belfast. Nemmeno alla regina in persona darei il permesso di avvicinarsi..."
Risi sotto i baffi, e notai che Gilbert girava discreto gli occhi al cielo. Zia June si spostava poco per non dire mai da Stautonville, e lo faceva solo per un motivo: le aste di antiquariato. Era una vera e propria appassionata di mobilio e suppellettili vintage. Ogni volta che andava fuori in missione, tornava con un bottino ben ricco di nuove cianfrusaglie dei secoli scorsi.
A volte recuperava cose senza valore, come l'orrendo telefono nell'atrio. Altre, tornava a casa con dei veri e propri tesori, come quella teiera e le porcellane giapponesi dentro la vetrina.
"Torno a ripetere che quel dannato vaso non l'ho rotto io, ma Gilbert..." dissi, mentre la zia mi porgeva una tazza di tè dall'intenso profumo floreale. Gilbert s'indignò.
"Ancora insisti? E assolutamente ovvio che l'hai rotto tu!"
"Ci sei caduto addosso, come avrei fatto a romperlo io?" chiesi, prendendo un biscottino dal cuore di marmellata alle fragole fatto in casa con totale indifferenza.
"Non ci sono caduto addosso, mi ci hai scaraventato contro! Per poco non rimanevo trafitto dalle schegge..." rimbeccò lui.
"Questo perché avevi preso l'ultimo cupcake alle noci sapendo perfettamente che sono i miei preferiti. Ergo, è inequivocabilmente stata colpa tua."
Gilbert arricciò le sue belle labbra sottili, irritato. Poi, entrambi scoppiammo a ridere.
"Ridono, loro..." sbottò zia June ponendo, un po' malamente, la tazza di tè a Gilbert. "E intanto, per colpa delle vostre vandale marachelle, il mio bellissimo vaso di vetro di Murano si è disintegrato sotto ai miei occhi! Cambiamo discorso, grazie, prima che mi prenda nuovamente di collera, al pensiero..."
Zia June prese un sorso di tè, e si servi una madeline. Io e Gilbert evitammo accuratamente di guardarci per non scoppiare a ridere.
"Miss Sheridan è davvero una ragazza deliziosa!" disse dopo un po' zia June, apparentemente rabbonita dal te e dai dolci. "angeli del cielo, è persino riuscita a convincerti a tornare a casa! Nemmeno io, che ti ho cresciuta fin da quando eri in fasce, sono mai riuscita a spuntarla, con te!"
"La spunta perché sono io ad arrendermi, zia June. Mona ti prende per sfinimento..." commentai io mordendo un wafer al cioccolato. "Tra me e te era diverso. Eri sempre tu la prima a gettare la spugna."
Mi godetti la sua espressione imbronciata dietro la tazza di tè.
"A mia discolpa, posso solo dire che la mia inclinazione alla cedevolezza nei tuoi confronti era dipesa dal fatto che il mio cuore di mamma mi spingeva sempre dartele tutte vinte. Eri la mia bambina, dopotutto, l'ultimo regalo della mia adorata Erykah."
Portò una mano al solito fazzoletto dentro la manica del suo golfino, e si tamponò gli occhi umidi. Gilbert andò a sedersi accanto a sua madre, e le posò una mano sulla spalla.
Erykah era il nome di mia madre, e zia June era stata la sua migliore amica per tutta la vita, fin da bambine. Era stata lei a presentare mia madre e mio padre. Era a lei che dovevo la mia esistenza. Non eravamo parenti, la chiamavo zia June a mo' di soprannome. Ma di sicuro l'amavo più di chi davvero portava il mio sangue.
Zia June parve accorgersi di aver attirato l'attenzione collettiva su di sé, e cercò di sdrammatizzare.
"Oh angeli del cielo, devo chiamare un idraulico perché mi aggiusti i rubinetti. Perdono troppo spesso ultimamente!"
Ridemmo insieme a lei, mentre faceva sparire le ultime lacrime.
"Su, Tesoro, dimmi di te! Tutti questi anni lontana, chissà che avrai da raccontare!"
"La solita vitaccia, a dire il vero, niente di che..." risposi, facendo spallucce.
Zia June corrucciò la fronte.
"Vitaccia? Non farai una vita sregolata, spero! Hai un'alimentazione corretta, vero? Dimmi che non mangi solo quelle schifezze da fast food! E dormi almeno otto ore per notte, vero? Non fai l'alba in qualche locale malfamato, spero..."
"Niente fast food, dormo tutta la notte e vado di corpo regolarmente!" ridacchiai. "Vitaccia è un modo di dire, zia June! Lavoro in proprio, non ho tempo per fare nottata nei locali. Se mangio nei fast food, è solo perché a volte non ho tempo per cucinare, visto che spesso lavoro anche fuori ufficio, a casa. Non ho sei anni, so prendermi cura di me stessa."
Zia June annui, compiaciuta.
"Molto bene. Sorvolando quindi sul tuo discutibile abbigliamento, e sulla tua trascurata cura di te stessa, mi rende molto fiera sapere che sei diventata un'adulta matura e responsabile."
"Io non mi trascuro, zia June! Semplicemente non mi piace..."
"Oh, angeli del cielo! quando miss Sheridan mi ha detto che avresti presenziato al funerale di Irah, non potevo credere a ciò che mi stava dicendo!"
Sospirai. Il solito orecchio da mercante, non ascoltava mai quello che dicevo sul mio stile.
"Ma ora che ti sento parlare con tanta responsabilità su come gestisci la tua vita, non mi sorprende più questa tua decisione. Da donna adulta quale sei, è assolutamente normale prendere la decisione, in circostanze simili, di seppellire l'ascia di guerra..."
"No, frena un secondo..." la bloccai. "Credo che tu abbia frainteso qualcosa, zia. Il fatto che io abbia deciso di partecipare al funerale, non significa affatto che io abbia deciso di seppellire alcunché. Io sarò presente al funerale del nonno... ma ci tengo a precisare che non lo farò perché l'ho perdonato. E 'solo proforma. Voglio evitare inutili pettegolezzi non richiesti, tutto qua."
Notai due cose, a reazione delle mie parole: Le narici di zia June dilatarsi mentre respirava a fondo, e la presa di Gilbert sulla sua spalla intensificarsi. Odiavano entrambi ogni forma di discussione, e solitamente reagivano sempre alla stessa maniera, quando avvertivano il preludio di una di esse.
"Tabitha..." mi disse zia June con tutta la diplomazia di cui era capace. "Comprendo perfettamente il tuo punto di vista, ma... spero tu non pretenda che io lo abbracci. Perché, in quel caso, mi vedrei costretta a deluderti, tesoro..."
Scossi la testa, tranquillamente.
"Non recluto soldati, è una guerra solo mia. Non ho mai preteso di obbligare nessuno a pensarla come me. Lui, tra l'altro, ha fatto il bastardo solo con me. Non avrebbe senso per te e la tua famiglia odiarlo come faccio io..."
Zia June annui, rassicurata. La mano di Gideon allentò la presa.
"Mi fa molto piacere che riusciamo a capirci, tesoro, sebbene non approvi l'uso di quel termine..." Commentò zia June.
Mi morsi un labbro. Cristo, m'ero scordata che zia June detestava le parolacce.
"Scusami." Mormorai. Lei annui solennemente.
"Io so che tra te e Irah non è mai corso buon sangue, credimi. Ma io, in tutta onestà, credo di non potere, nemmeno in altre due vite, provare alcuna forma di rancore nei confronti di quell'uomo. Tu sai meglio di chiunque altro, cosa ha fatto per me e la mia famiglia in passato, in un momento della mia vita in cui nessun altro c'era. Io avrò solo da essergli grata, persino ora che è passato a miglior vita."
"Beh, a dire il vero, zia, chi ti ha porto una mano in gesto di aiuto... è stata la mamma." Puntualizzai. "Probabilmente, se fosse stato per il nonno, un secco 'no' non te lo avrebbe tolto nessuno..."
"Sì, ma dopo che nostro signore ha richiamato tua madre al suo fianco, Irah mi ha comunque permesso di restare in casa sua. Nessuno lo obbligava a farlo, era sua la scelta.
"Già, mi sono sempre chiesta cosa glie l'abbia fatto fare..."
"Tabitha!" mi ammonì zia June. Io mi lasciai cadere lungo lo schienale del divano le braccia incrociate.
"Dai, sii onesta con te stessa, è un comportamento assurdo! Insomma, ha permesso a te, che non sei nemmeno una Raincourt, di restare vita natural durante in casa sua. E a me invece, che sono sangue del suo sangue, mi ha sempre trattata come un'appestata e mi ha sbattuta in collegio appena la legge glie lo ha permesso!"
Zia June sospirò.
"Possiamo non capire la natura delle sue decisioni, ma sono certa che Irah sapesse ciò che faceva. Non sempre siamo in gradi di comprenderlo, quando qualcuno ci fa del bene."
Aggrottai le sopracciglia.
"Stai dicendo che secondo te, tenermi a distanza e ignorandomi come se non esistessi, era il modo del nonno per dimostrarmi che mi voleva bene?"
Zia June fece spallucce. Ero senza parole. Che razza di pazzo malato può manifestare affetto in questa maniera bislacca?
Cosa diavolo era il nonno, un sociopatico?
"Ad ogni modo, tesoro..." incalzò zia June. "Reputo poco sensato continuare a rivangare questa benedetta zolla di terra, specie dopo quello che è successo recentemente..."
La guardai, sbattendo gli occhi interdetta.
"Stai dicendo che dovrei perdonare il nonno solo perché è morto? E a che pro?"
"Primo, perché continuare a covare rancore per un uomo che ormai è passato a miglior vita, ha senso come lavarsi senza usare il sapone..."
La guardai rabbrividire al solo pensiero di ciò che aveva appena detto, indecisa de restare arrabbiata o mettermi a ridere. Le analogie di zia June: uniche nel loro genere.
"...Secondo, perché, come ti ho sempre detto: la pianta dell'odio, da frutti senza sapore. Fa male solo a te mangiarli, tesoro."
Sbuffai.
"Già, ora che è morto, dubito fortemente che il nonno mi detesti ancora. E anche da vivo, dubito che gli importasse abbastanza di me per mettersi lì a odiarmi."
Fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Zia June si alzò in piedi, torreggiando con aria severa su di me. Gilbert la osservava, come un cervo che guarda un camion e non sa se scappare o che altro.
Io, come sempre in una discussione con la zia, la fissai con aria di sfida. Wow, tutto come ai vecchi tempi!
"Bene, è decisamente ora di pranzo!" annunciò zia June. "Visto che abbiamo preso or ora il te coi dolci, direi che un semplice pranzo freddo dovrebbe andare. Preparerò qualche sandwich e una bella insalata mista, così stiamo un po' leggeri!"
Senza guardarmi in faccia, uscendo dalla stanza mi disse: "Vai pure a disfare i bagagli, cara, mi ci vorrà un po' per preparare tutto!"
Così è deciso, l'udienza e tolta, mi dissi.
Istintivamente mi voltai verso il cerbiatto che stava fissando il camion.
"Proprio tutto come ai vecchi tempi, eh? Io e la zia che ci sbraniamo, e tu che te ne stai lì ad imitare la Svizzera..."
Gilbert distolse lo sguardo.
"Lo sai che odio le liti..." mormorò. "Specie tra te e mia madre. Non so mai con chi schierarmi..."
"Tranquillo, non sbagli ad astenerti. A dire il vero, vorrei poter evitare queste inutili discussioni. Ma tua madre davvero non può pretendere che io perdoni e dimentichi."
Gilbert venne verso di me.
"Ti va di fare due passi in giardino? Il tuo pesco è in fiore, credo che ti farà piacere vederlo."
Lo guardai, e soffocai a stento una risata. Altra piccola cosa che, a quanto pareva, non era cambiata.
"Certo, il mio pesco, non vedo proprio lora di rivederlo, dopo tanti anni..." gli risposi, e ci avviammo verso la porta finestra, da cui si accedeva tramite una bella scala di pietra bianca al giardino sul retro.
A differenza del giardino sul davanti della casa, moderato e di dimensioni un po' ridotte dal vialetto di selciato e dall'entrata, quello sul retro era pura natura incontrastata.
Non avevo idea di quanti metri quadri fosse, non avevo mai chiesto, ma io più che giardino lo avrei definito un piccolo parco.
Erano stai installati diversi oggetti di decorazione, come vaschette per gli uccelli, statue di granito e una bella fontana. C'era persino un gazebo ricoperto di glicine, con tavolino e sedie in ferro battuto bianco.
Alberi da fiore e da frutto erano piantati qui e là in ordine sparso, come pure altri cespugli di fiori vari dai colori sgargianti e piccole aiuole. E sul fianco sinistro della casa, costruita in un punto strategico in modo che godesse per metà del sole e per metà dell'ombra, c'era l'inestimabile serra di mia zia June, il suo cuore e il suo orgoglio.
Camminammo nel parco respirando a pieni polmoni la primavera, che andava stiracchiandosi ancora un po' assonnata tra i rami degli alberi. Mi veniva l'istinto di togliermi le scarpe e di camminare scalza in quell'erba soffice e smeraldina. Ma ero perfettamente consapevole che poi zia June non mi avrebbe permesso di rientrare in casa.
"Eccolo qui, il tuo adorato pesco!" Disse Gilbert, indicando un albero dal tronco abbastanza sottile e dai rami carichi di gemme di un bel rosa delicato. "Non ho mai capito perché proprio quest'albero tra tutti goda del primato di tuo favorito. Tu non le mangi le pesche..."
"Non mi hai portato qui fuori per discutere della mia alimentazione o dei criteri con cui scelgo le mie piante, Gilbert, o sbaglio?" ridacchiai, accarezzando amorevolmente il tronco del mio pesco. "Siamo qui per il solito motivo, giusto? Ovvero, parlare di qualcosa che non vuoi far sentire a tua madre."
Gilbert mi guardò per un istante, come se non capisse di cosa stessi parlando. Ma a una mia occhiata eloquente, sciolse la sua maschera.
"Speravo te ne fossi dimenticata, onestamente..." borbottò. Io risi.
"Come potrei mai dimenticare una tradizione tanto rispettata dalla famiglia McNamara!" Risposi fingendomi interdetta. Lui rise sarcasticamente.
"Tradizione... Si, ormai la si può pure chiamare così: la tradizione del vigliacco!"
"Non sei affatto un vigliacco, finiscila. Eviti solo di non andare contro a tua madre in sua presenza. Visto il suo bel caratterino, non è affatto una scelta stupida, onestamente. Specialmente per un pacifista accanito come te."
Gilbert si sedette sull'erba sotto il pesco, irritato. Io lo emulai. Vidi il suo bel viso arrossire di rabbia, verso sé stesso.
"Credevo che da adulto non avrei avuto problemi a dire a mia madre che non ero d'accordo con la sua linea di pensiero... e invece ho raggiunto i trent'anni senza riuscirci!"
"Non c'entra nulla età, con questa cosa. Tu eri e sei sempre stato un figlio rispettoso e devoto. È il tuo carattere, bambino o uomo che tu sia. E 'così che sei fatto..."
Gilbert fece un vago cenno alla casa, indicando i piani superiori.
"Lui ci riesce sempre. Sapessi quanto lo invidio..."
Feci un sorriso a mezza bocca.
"Lui è il padre di tutti i casi a parte, neanche non lo sapessi..."
Gilbert annuì.
"Ok, Usciamo dallo studio del piccolo psicanalista, per favore, eh? Su, vuota il sacco, cosa devi dirmi che le delicate e suscettibili orecchie di mammà non devono udire?"
Mi riuscì di farlo sorridere di nuovo. Il che non fu una mossa molto saggia, perché mi fece venire i brividi dappertutto e persi momentaneamente la concentrazione...
"Niente di che, ad essere onesto. Volevo solo dirti... cosa penso del discordo appena fatto da te e mia madre. La dentro si, mi sono astenuto, ma ciò non toglie che io non possa avere un mio parere a riguardo. E, ecco... volevo che tu lo conoscessi."
Prese la mia mano tra le sue.
Eh no, così mi rendi la vita difficile, però...
"Dimmi!" dissi, forse con troppa enfasi. Dovevo concentrarmi sul discorso, ad ogni costo!
Dio, che mani morbide...
A-ad ogni costo!
"Bene, non menerò il can per l'aia, Tabitha. Io... Penso che mia madre si sbagli."
"Davvero? Oh, Gilbert, non sai quanto questo significhi per me!"
Lo avrei abbracciato, tanto ero felice, ma rischiavo di distrarmi di nuovo... e di profanare il giardino di zia June.
"Aspetta..." mi ammonì lui con un dito. "Penso che mia madre sbagli... ma penso lo stesso anche di te."
Mi bloccai, confusa.
"Cioè?" chiesi.
Gilberto si posò con la schiena lungo il tronco del pesco.
"Vedi, Tabitha... Mia madre, dicendo che il nonno aveva un modo tutto suo di manifestare affetto, ha preso il granchio più grosso di tutti i tempi. Quell'uomo era emotivo come un fermacarte, fine della storia."
"Amen!" concordai io.
"Bene, questo era il punto di errore di mia madre. Il tuo, invece, sta nel fatto che provi ancora rancore nei suoi confronti, persino ora che è morto. Insomma, ammettilo... ha senso odiare un defunto? Cosa ci guadagni?"
"Ma cosa credete, che non lo sappia anche da sola, che è stupido?" sbottai, infervorata. "Credete che non mi piacerebbe darci un taglio, metterci una pietra sopra, andare avanti e dimenticare? Anche quando era vivo, avrei tanto voluto riuscirci, sai? Mi dava un fastidio immane stare sempre lì a sobbollire dentro litri e litri di rabbia come fosse una zuppa!
Lo vorrei tanto un bell'interruttore da far scattare per poter spegnere questo risentimento e andare avanti con la mia vita, ma sfortunatamente non c'è! E se proprio lo vuoi sapere, il fatto che abbia tirato le cuoia, magari in seguito a sa dio quale malanno, non mi aiuta affatto a dimenticarmi di odiare quel vecchio tricheco, anzi mi fa incazzare ancora di più!"
"Stai sbagliando..." mi disse Gilbert, serio, mentre mi osservava buttare ossigeno dal naso come un toro. "Il nonno non è affatto morto per colpa di una malattia."
"No?" dissi io, improvvisamente spiazzata. Mi ero appena resa conto di una cosa. C'era una domanda che non avevo ancora ricolto a nessuno. "E allora... di cosa è morto?"
Il mio stomaco ebbe una lievissima contrazione, che però non fui in grado di ignorare. Avevo... forse paura della risposta?"
Gilbert perse lo sguardo all'orizzonte.
"Un infarto. Così hanno detto i medici. Nessuno si aspettava niente, stava benissimo. La mamma, quella mattina era salita per portargli la colazione e il Times, come sempre. Ma non era in camera sua. Pensando che fosse già al lavoro nel suo studio, è andata a vedere. L'ha trovato lì, riverso sulla sua scrivania, gli occhiali ancora inforcati. È accaduto tutto molto velocemente, hanno detto i dottori. Non ha sofferto..."
Mi alzai in piedi, e tolsi i fili d'erba dai vestiti, lo stomaco annodato come una cravatta. Ma perché mi sentivo così male?
"Buon per lui..." commentai, cercando di ridestare il mio cinismo. "A tutti... piacerebbe andarsene in pace e senza soffrire, no?"
Gilbert annui.
"Immagino di sì..." rispose. "Ah, se miss Sheridan non te l'ha detto, sappi che esiste un testamento. Il nonno l'aveva stipulato tempo fa, nessuno ha mai capito il perché. Ma col senno di poi, visto come sono andate le cose, e 'stato un bene. Suppongo abbia lasciato ogni cosa a te, visto che sei la sua unica erede..."
"Se anche l'ha fatto, non potrebbe importarmene di meno..." fu la mia secca risposta.
Mi sentivo sempre peggio, e non mi piaceva. Era il caso di ritirarsi.
"Gestisci tu gli affari della casa editrice, giusto? È questo che fai, a Edimburgo, no?"
Gilbert annuì di nuovo.
"Sono il commercialista di molte aziende, compresa quella del nonno."
"Bene, continua ad occuparti di tutto tu, allora. Mi farai da amministratore delegato..."
"Lo facevo per il nonno, e continuerò a farò per te, nessun problema." Rispose Gilbert.
"Ottimo... Hai altro da dirmi in privata sede, o possiamo rientrare?" tagliai corto.
Avevo urgentemente bisogno di restare da sola, sentivo che stavo per esplodere. Gilbert si alzò da terra, e si diede una sistemata.
"Solo questo: Non esisterà un interruttore, ma volere e potere, Tabitha. Il nonno non c'è più. Fa in modo che il tuo risentimento prenda esempio..."
"Quando e se ci riuscirò, sarai il primo a saperlo, ok?" rimbeccai e, marciai verso casa. Dio, ero al limite, dovevo rientrare di corsa.
"Tabitha..." mi chiamò Gideon, e mi prese una mano. "Tabitha, è una reazione normale!"
"Io non ho alcuna reazione, chiaro?!" sbottai. "Mi sono solo rotta le scatole di parlare di quella vecchia cariatide, tutto qua..."
Mi divincolai dalla sua presa. Cristo, come mi odiavo, in quel momento! Non capivo assolutamente la natura di quel mio malessere, ma francamente mi davo fastidio da sola. Stavo male per qualcuno che non se lo meritava, e la cosa era inaccettabile. Non mi sarei permessa di versare lacrime, ma dovevo restare da sola il prima possibile, altrimenti non sarei riuscita a calmarmi.
Gilbert parve rassegnarsi alle mie volontà, e io mentalmente ringraziai il suo rifiuto verso ogni forma di conflitto. Io ero già mentalmente al mini bar. Un drink, mi serviva un drink!
Ma non riuscimmo a raggiungere le scale, che successe qualcosa di assolutamente straordinario.
Il meticolosamente accudito giardino di zia June fu spazzato da un'onda d'urto dirompente, come un tornado. Nell'aria si sparse un rumore sempre più forte e assordante. Io e Gilbert fummo in breve costretti a turarci le orecchie con le mani. Zia June sbuco sulla finestra, anche lei con le orecchie tappate, e l'aria allarmata.
"Angeli del cielo, ma che cosa sta capitando?" urlò cercando di sovrastare il rumore.
Poi, la verità apparve davanti ai nostri occhi.
E apparve sotto forma di un grosso, pacchiano, elicottero. Rosa.
"Ok." dissi, guardando quel tripudio di hot pink atterrare leggero sul prato sfiorando pericolosamente un'aiuola di tulipani. "Credo che il drink non mi servirà più. È appena arrivato qualcosa di decisamente più forte!"

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