Cap. 5 - Il gatto nero

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"I gatti neri portano fortuna. Il mondo va male perché li evitiamo."

P. Caruso

L'aria aveva l'odore della pioggia.

La terra sotto ai miei piedi nudi era soffice e fredda.

Dov'ero?

Mi guardai attorno. La brughiera sembrava non avere fine.

Non la conoscevo.

Respirai a fondo. Mi sentivo affannata, accaldata.

Ma non era caldo affatto. La mia pelle era fredda, e avevo i brividi.

Ero anche bagnata fradicia.

Avevo corso.

Ma perché?

Delle voci in lontananza. Concitate. Rabbiose.

Non correvo... fuggivo?

Ma da chi? E perché?

Perché...Perché...perché?

"Perché?"

Mi tirai così bruscamente a sedere, da provocarmi un capogiro. Ero nella mia stanza, nel mio letto, tra lei mie lenzuola.

Avevo sognato. Era stato un sogno. Talmente reale da poterlo toccare, ma solo un sogno.

Il mio respiro era ancora affannoso, e avvertivo sulla pelle ancora quella sensazione di umido e freddo, anche se ero perfettamente asciutta e calda.

Scendendo dal letto, per un istante temetti di affondare di nuovo i piedi in quella terra bagnata, invece di farlo nel mio soffice tappeto rosa a forma di nuvola.

Che razza di incubo orribile, pensai infilandomi la vestaglia per poter scendere a fare colazione. Bel modo di iniziare una mattinata già brutta di suo.

Di li a poche ore, infatti... ci sarebbe stato il funerale.

Pensando intensamente ad altro per evitare di innervosirmi già di prima mattina, usci dalla mia stanza, e mi diressi verso le scale dal corrimano di legno lucidato a specchio che portavano al piano di sotto. Passando per il corridoio notai con la coda dell'occhio che l'ultima stanza in fondo ad esso, quella di Dick, aveva la porta socchiusa. E lui pareva non esserci.

Dick non lasciava mai la porta della sua stanza incustodita e dal libero accesso agli estranei, per cui la cosa non poté non preoccuparmi un po'.

E poi, Dick fuori dalla bat-caverna in pieno giorno? Era giunta l'apocalisse!

Mi affrettai a scendere, decisa a capire cosa diavolo stava succedendo in casa.

Entrai in sala da pranzo, aspettandomi di trovare mia zia e Gilbert. Ma non c'era nessuno.

Le infisse erano tutte semi-chiuse, e le tende oscuranti tirate. Filtrava da fuori quel tanto di luce da impedirti di inciampare nei mobili o nel tappeto sotto il tavolo.

Confusa, cercai l'interruttore sul muro, ma qualcuno prese il mio polso, frenando la mia ricerca.

"No, ferma, farai venire un attacco a bisteccone, se accendi la luce."

Era Jeanette, i bigodini da onde large ancora appuntati in testa, la vestaglia e gli occhi castani, i suoi occhi originali. Teneva in mano un vassoio con delle tazze di caffè molto forte.

"Ma che sta succedendo, si può sapere?" chiesi

Jeanette mi guardò stupita.

"Certo che hai il sonno bello pesante, tesoro. Cazzo, con quell'urlaccio che ha cacciato tua zia, si devono essere svegliati anche i tuoi antenati."

Il dono del destinoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora