WAR

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Francesca

Guardavo la mia vecchia terra tra le fiamme, il fumo che si alzava al cielo in neri vortici. Non riuscivo a credere che lo avessero fatto. Avevano rovinato l'impero più bello del mondo, il più potente, e stavano rovinando anche la sua imperatrice. Sentii un nodo in gola e mi toccai la pancia, una promessa silenziosa al bambino che cresceva dentro di me. Volevo chiamarlo Tritone se fosse stata femmina Afrodite, come il figlio di Poseidone, un nome che avrebbe portato forza e coraggio.

Erano trascorsi due giorni da quando eravamo partiti dall'isola e io, Marcus e le donne eravamo pronti a combattere. Le guerriere che avevamo addestrato erano ora una forza formidabile, determinate a riprendere ciò che ci apparteneva. Non avevo raccontato ancora niente a Marcus della mia gravidanza e non gli avrei detto niente fino alla fine della guerra. Dovevo restare concentrata, dovevo essere forte.

Vedere Atlantide così distrutta mi spezzava il cuore. Ogni casa in fiamme, ogni strada ridotta in macerie, era un colpo al mio spirito. Questa era la mia casa, il luogo dove ero cresciuta, dove avevo amato e sofferto. Non potevo permettere che finisse così. Dovevo combattere per riprenderla, per ricostruirla. E dovevo farlo per il mio bambino.

Marcus mi osservava da lontano, preoccupato ma rispettoso del mio spazio. Sentivo il suo sguardo su di me, la sua preoccupazione evidente, anche se non ne parlava apertamente. Mi avvicinai a lui, cercando forza nel suo sguardo.

«Stellina, andrà tutto bene,» disse, prendendomi per mano. Il suo tocco era caldo e rassicurante, una fonte di conforto in mezzo al caos.

«Lo so, Marcus.» risposi, cercando di infondere la mia voce con la determinazione che sentivo.

Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, sentivo il peso della responsabilità sulle mie spalle. Non solo dovevo combattere per il mio trono, ma anche per il futuro di mio figlio. Ogni decisione, ogni mossa, doveva essere fatta pensando a lui. Mi rendeva ancora più determinata, più concentrata. Non potevo permettermi di fallire.

Le altre donne si radunarono intorno a noi, pronte per l'azione. Cleopatra, con il suo sguardo penetrante, mi fece un cenno di assenso. Sapevo che potevo contare su di lei e su tutte le altre guerriere. Eravamo una squadra, una famiglia.

Mentre mi avvicinavo al campo di battaglia, mi ritornarono in mente le parole che avevo detto a Marcus tempo fa. "Voi uomini volete solo la guerra," avevo detto con rabbia e delusione. Adesso ero io a prepararmi per la guerra, ma era stata necessaria. Gli uomini avevano iniziato tutto questo, e ora toccava a me finirlo.

Sospirai profondamente. Non volevo che il mio impero fosse devastato dalla guerra, ma non avrei mai ceduto il mio trono a nessuno. Socchiusi gli occhi, lasciando che i ricordi mi travolgessero: il profumo dei fiori freschi di Atlantide, il sole alto nel cielo d'estate. Ormai, erano solo ricordi lontani, frammenti di un passato che sembrava sempre più distante.

Cleopatra si avvicinò, interrompendo i miei pensieri. «Maestà, siamo arrivati. Dobbiamo andare,» disse, con la sua voce calma e decisa.

Mi girai verso di lei e le sorrisi piano. Stavo per avviarmi verso l'uscita quando sentii una mano che mi tratteneva. Era Livia. Mi guardò con preoccupazione e disse, «Cleopatra me l'ha detto. Sta' attenta, Cesca, per il bambino.»

Mi baciò la fronte e disse, «Adesso andiamo. Andiamo a riprenderci ciò che è tuo.»

Ogni passo che facevo mi avvicinava al destino che avevo scelto. Sentivo il peso della responsabilità, non solo per il mio popolo, ma anche per il bambino che portavo in grembo. Mi piaceva pensare che sarebbe stato forte e coraggioso, un simbolo di speranza e rinascita. Dovevo farlo per lui. Dovevo riprendere ciò che era nostro.

CESCA-La Maledizione Dell'imperatrice Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora