1. Il senso di solitudine.

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Elias

 Era addestrato fin dall'infanzia a individuare le regole nel caos. Ma di fronte all'abbandono siamo tutti uguali: nemmeno una testa molto ordinata può reggere alla scoperta di non essere amata.

Elena Ferrante

7 ottobre 2002

«Mamma? Papà?» Chiamai i loro nomi spaventato mentre udivo delle grida provenire dal salotto.

Casa nostra non era grande, non avevo la possibilità di cambiare stanza per non ascoltarli, e ogni volta era un trauma.

Le loro grida sempre più forti, i loro litigi, i suoni del vetro che si schiantava al suolo e i pianti di mia madre.

Li odiavo entrambi, o meglio, ne ero convinto. Perché in realtà io amavo loro e odiavo come mi facevano sentire.

Odiavo come mi facessero sentire sbagliato, non amato, non voluto, e credevo sarebbe passato.

Invece no.

Oggi è il mio decimo compleanno e come sempre nessuno mi ha fatto gli auguri, a parte il mio migliore amico -di cinque anni più piccolo- che abita qui accanto.

Lo conobbi al parco giochi e da lì ho passato ogni giorno a giocare con lui. Mi faceva dimenticare tutto il male.

Era un po' triste da dire, ho solo dieci anni, ma era così.

Entrando in cucina, trovai mamma che ingurgitava delle pillole e mio padre attaccato alla bottiglia.

Nonostante non fosse la prima volta che li vedessi, mi vennero i brividi e una nausea prepotente mi attanagliò lo stomaco, facendomi venire i conati.

Come si può far così schifo? Non si vergognavano?

Avvicinandomi a mia madre, provai a parlarle.

«Mamma... Cosa succede? Perché state facendo questo?» Chiesi, la mia voce era flebile e rotta da un pianto trattenuto a stento. Volevo scappare ma non volevo lasciarli soli.

«Chiudi la bocca! E non chiamarmi così!» Mi rispose lei, facendomi indietreggiare di qualche passo, spaventato da una reazione del genere.

Per sbaglio, però, andai a sbattere contro qualcosa. O qualcuno. 

Mio padre torreggiò su di me, ma prima che osassi solamente proferire parola, mi prese dal colletto della maglietta striminzita e mi spinse contro il muro, togliendomi di poco l'aria.

«Non provare a frignare, non provare a far volare neanche una mosca, o giuro che sei morto, Elias. Sei morto.»

Quelle parole mi fecero gelare il sangue.

Lasciò la presa su di me e ripresi fiato, piegandomi in due con l'addome che bruciava per l'ossigeno respirato all'improvviso.

Alzando lo sguardo, vidi mia madre per terra e mio padre su di lei, a violentarla.

Quando è successo tutto questo? Non lo sapevo neanche io.

Lei piangeva e si dimenava, ma fu fortunata, perché papà, preso dallo sbandamento dell'alcol che aveva in corpo, batté la testa contro lo pigolo del tavolo e svenne.

Fu stato abbastanza veloce, potrei dire.

Correndo via, mi rintanai nello sgabuzzino che da dieci anni era la mia camera, sedendomi sul materasso sporgo e ossuto, facendo del mio meglio per non piangere.

Pensai a tutto. Quello che volevo essere, quello che non volevo essere, quello che avrei evitato di diventare, e lì capii.

Avrei fatto di tutto per non finire come i due individui che ero costretto a chiamare genitori.

Different Worlds, Same Love - Contro ogni limiteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora