Capitolo 5 - Lost in the Echo (Camilla's Pov)

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Non avrei mai pensato che la solitudine potesse essere così rumorosa.

Le lenzuola erano aggrovigliate attorno alle mie gambe mentre fissavo il soffitto. Il dormitorio era incredibilmente silenzioso per quell'ora del mattino, ma dentro di me c'era una tempesta. Sono lontana da casa da appena tre mesi, eppure mi sembra che siano passati anni. Ogni giorno qui dovrebbe essere una nuova opportunità per scoprire chi sono, per costruire la mia vita. Ma invece... mi sento ancora legata a tutto ciò che ho lasciato.

O meglio, a tutti.

Casa. Famiglia.

I miei genitori.

Mamma è sempre stata l'incarnazione della perfezione. Non nel senso che fosse perfetta, ma perché si aspettava la perfezione da me. E da chiunque altro. Era come se ogni cosa, ogni singolo dettaglio della sua vita dovesse essere sotto controllo. Ogni volta che entravo nella sua stanza e la vedevo china sul computer, la sua espressione mi diceva già tutto: "Devi fare di più, Camilla. Devi essere di più". Non lo diceva mai ad alta voce, ma lo percepivo in ogni suo sguardo, in ogni gesto. E io, ovviamente, facevo del mio meglio. Sempre.

Ma papà? Papà era diverso. O almeno, lo era una volta. Ricordo che da bambina, lui era il mio eroe. Mi prendeva in braccio e mi faceva volare in alto, così in alto che credevo davvero di poter toccare il cielo. E ridevamo insieme, ridevamo così tanto che ci faceva male la pancia. Ma poi... non so cosa sia successo. Forse la vita. Forse mia madre. O forse qualcos'altro che non ho mai saputo. Piano piano, papà ha smesso di ridere. Ha smesso di cercarmi. E io? Io ho smesso di provarci con lui.

A casa nostra si parlava poco, ma si diceva tanto. Il silenzio era carico di significati, e io ero sempre lì, a cercare di decifrarli. Ma cosa avrei potuto capire, davvero? Ero solo una ragazzina. Ero troppo impegnata a cercare di non deludere nessuno.

Ora sono qui. Lontana. Al college, dove tutto doveva essere diverso. Dove avrei dovuto iniziare da zero. Ma la verità? La verità è che non riesco a liberarmi del peso della mia famiglia, neanche qui. È come una coperta pesante che mi avvolge, mi soffoca, ma non posso toglierla. E in fondo, forse non voglio davvero.

È tutto ciò che conosco.

Sospiro profondamente, cercando di scacciare via quei pensieri mentre mi siedo sul letto, i piedi nudi che toccano il pavimento freddo. Oggi Alice è già uscita. È la mia compagna di stanza, e l'unica persona qui che sembri davvero a suo agio. Lei è il tipo di ragazza che attira gli altri come una calamita. Tutti la adorano. Ed è impossibile non farlo, con quel suo modo di essere sempre così spensierata e sicura di sé. La invidio, in un certo senso. Vorrei essere come lei, vorrei non avere tutti questi pensieri che mi trascinano giù ogni singolo giorno.

Mi vesto in fretta, tirando su i jeans e infilandomi una felpa troppo grande che mi copre fino a metà coscia. È comoda. Mi fa sentire nascosta, protetta. Ed è esattamente di questo che ho bisogno oggi.

Mentre esco dalla stanza, il pensiero di casa ritorna. Non posso evitarlo, non importa quanto ci provi. Perché, alla fine, tutto ciò che faccio è ancora legato a loro. A quello che vogliono da me. E io sono stanca. Stanca di dover sempre essere all'altezza di qualcosa che non ho mai chiesto.

Ricordo la prima volta in cui mi resi conto che la mia famiglia non era come le altre. Avevo dodici anni e fui invitata a casa di una mia compagna di scuola, Chiara. Suo padre ci accolse con una battuta, e sua madre ci preparò cioccolata calda con la panna. Li guardavo ridere, parlare, prendersi in giro. Sembravano così... felici. In modo semplice, naturale. Non c'era tensione. Non c'era quel peso che sentivo costantemente a casa mia. Rimasi seduta lì, in silenzio, sorseggiando la cioccolata e chiedendomi perché la mia famiglia non fosse così.

Quella notte tornai a casa e trovai mia madre ancora sveglia, seduta al tavolo della cucina con il suo laptop. Non mi chiese com'era andata. Non mi guardò nemmeno. Io salutai sottovoce e me ne andai dritta a letto, con quella sensazione di vuoto che mi seguiva come un'ombra.

Quel vuoto è ancora con me, anche ora, mentre cammino tra i corridoi del college. Perché, anche se ho lasciato casa, non ho lasciato davvero i miei genitori. Continuano a vivere nei miei pensieri, in tutto ciò che faccio. Continuano a giudicarmi, a farmi sentire inadeguata, anche da lontano.

Mi fermo davanti a una finestra e guardo fuori. Gli alberi del campus ondeggiano sotto la brezza leggera, e il sole brilla alto nel cielo. È una giornata perfetta, davvero. Ma dentro di me è tutto grigio. Chiudo gli occhi, cercando di respirare profondamente. Voglio solo trovare pace. Voglio solo sentirmi...

libera.

Ma come posso farlo quando sento che non c'è nulla di mio? Non c'è nulla in questa vita che ho costruito che non sia influenzato da loro. Da mia madre, con le sue aspettative altissime. Da mio padre, con il suo silenzio opprimente. È come se fossi intrappolata in una vita che non ho scelto.

Mi chiedo se riuscirò mai a liberarmi. Se riuscirò mai a trovare un posto dove posso essere solo *me*. Non la figlia di, non la ragazza perfetta. Solo Camilla. Ma forse, prima, devo capire chi è davvero Camilla. E onestamente? Non ne ho idea.

Il telefono vibra nella tasca dei jeans. Un messaggio da Alice. 

"Ti aspetto in mensa. Dai, vieni!" 

Sorrido leggermente. Lei è sempre così insistente, ma nel modo migliore. Mi fa sentire voluta, anche quando non me lo merito.

Forse... forse posso fare un piccolo passo oggi. Non so ancora chi sono, non so ancora cosa voglio. Ma per ora, posso provare a vivere. Posso provare a essere presente, anche se non so dove sto andando.

Faccio un respiro profondo, e mi avvio verso la mensa.



Mi siedo al tavolo della mensa, lontana dal caos e dalle risate che riempiono la sala. Mi sento un po' distante, come se la mia presenza fosse solo un'ombra in mezzo ai colori vivaci degli altri studenti. Mentre assaggio l'insalata, il mio telefono vibra, interrompendo i miei pensieri.

Alice

«Hey Cami, senti scusa per averti fatto andare in mensa ma... ecco, insomma...»

«Alice sta tranquilla se si tratta di Marcus va bene, vai pure, io mi faccio un giro qui intorno»

«TI STRA ADORO CAMI, TI DEVO UN FAVORE GRANDISSIMO»

Mi faccio uscire una piccola risatina, proprio quello che mi ci voleva oggi

«fammi sapere. A dopo!»

Eccolo.

Il solo e unico Aiden.

Il fratello più rompiscatole della storia dell'umanità ha appena fatto la sua "entrata ad effetto" a scuola e ora si sta dirigendo verso me.

«Hey sorellina! Che fai di bello?»

«Tieni, sono gli ultimi 5€ che mi rimangono, fatteli bastare» dico mentre estraggo la banconota dal taschino della camicia

«Se mamma lo scopre mi ammazza, quindi vedi di non fare cavolate con quei soldi»

Sapeva benissimo di cosa parlassi.

«Ma no, non mi servono» «Senti, volevo chiederti se ti andrebbe di partecipare alla festa di fine partita di giovedì»

Oh, ma certo, la "grande partita a cui non si poteva rinunciare"

«Va bene, accetto, ma solo se può venire anche Didi»

«Si, va bene, quella rompiscatole di Sirenetta può venire. Ma dille di non vestirsi troppo scollata. Non si sa mai»

Non avrebbe mai accettato.

Soprattutto se gliel'ha chiesto Aiden.

Ma tanto vale rischiare no?

No.
Mi ammazzerà, ne sono certa!

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