Dopo una quiete assoluta che era durata un'ora come mille anni, i sensi di Mia si risvegliarono. Alle sue orecchie, adesso, arrivava un rumore via via più distinto, un suono acuto che, regolare, andava ad intervalli di pochi secondi. Cercò di aprire gli occhi, senza successo; era come se qualcuno tenesse la mano premuta sulle sue palpebre.
Non ebbe il tempo di fare un altro tentativo perché venne assalita da un improvviso senso di soffocamento e cominciò a tossire. Aveva qualcosa in gola che cercò di raggiungere con le mani, ma così come era accaduto per gli occhi, realizzò che muoversi non era affatto scontato.
Mani esperte le vennero in soccorso e, adesso, qualcuno le teneva ferma la testa.
«Tranquilla, non ti agitare, va tutto bene, adesso ti stubiamo così potrai respirare da sola. Ecco, così, brava.»
A parlare era stata una donna, forse la stessa che l'aveva tenuta ferma e che, adesso, le aveva messo la mano sulla spala per tranquillizzarla.
L'oggetto che aveva ficcato giù per la gola, finalmente, fu tirato via e Mia fu libera di respirare.
Una mano le accarezzò il viso e finalmente aprì gli occhi. Faticava a tenerli aperti per molto, anche a causa dell'enorme luce al neon che era appesa al soffitto, ma fu comunque in grado di vedere che accanto a lei c'era una donna con dei magnifici occhi verdi, l'unico dettaglio che aveva potuto notare in un viso altrimenti coperto da una mascherina.
La donna continuava a incoraggiarla con tono amorevole, mentre un' altra persona, un uomo alto e dalle spalle larghe, e che indossava anche lui una mascherina, si era chinato su di lei e le stava puntando una luce negli occhi.
«Le pupille sono reattive.» gli sentì dire e Mia, finalmente, realizzò che si trovava in ospedale.
Il dottore le prese le mani.
«Riesci a stringere?»
Mia ubbidì.
«Perfetto.» commentò il dottore, poi spostò l'attenzione sui suoi arti inferiori.
La stava punzecchiando e non ne capiva il motivo, ma il dottore ancora una volta sembrava soddisfatto.
«Benissimo, Mia!»
La donna, un'infermiera forse, era, ora, alle prese con una flebo, ma non mancava di rivolgere lo sguardo verso Mia e forse sorridere. O almeno così credeva la ragazza, che vedeva i suoi occhi farsi più piccoli.
Il dottore attirò l'attenzione di Mia e scandendo le parole disse:
«Hai avuto un incidente d'auto. Ti abbiamo operata ed andata bene. Riposa, ora, sei in buone mani.»
Riposare? Ma non avevano detto che si era appena svegliata? Mia non voleva chiudere di nuovo gli occhi, le informazioni che aveva ricevuto non erano per niente esaurienti; quando era stata operata? Perché non riusciva a muoversi? Ma soprattutto, dov'era Jenny? Era stata avvertita che si trovava in ospedale?
«Jjjjee...» provò a dire.
«Piano, Mia, non ti sforzare.» disse il dottore.
Mia riprovò di nuovo.
«Jen...»
«Credo stia facendo il nome di qualcuno.» intervenne l'infermiera.
Mia strizzò le palpebre in segno di assenso.
«Stai tranquilla tesoro, avvertiremo subito la tua famiglia che ti sei svegliata.»
Se avesse potuto articolare le parole come si deve, avrebbe detto che non le importava molto della sua famiglia. A lei importava solo di Jenny, ma non riuscì a completare lo sforzo di parlare e cadde di nuovo in un sonno profondo.
Quando Mia riaprì gli occhi la luce nella stanza era diversa, non proveniva più dal neon, ma arrivava dalle finestre. Qualcuno stava armeggiando con la flebo, e fu delusa di scoprire che non si trattava dell'infermiera gentile con gli occhi verdi. Al suo posto c'era un'altra dai modi sbrigativi. Il dottore, però, era lo stesso e stava ripetendo gli stessi gesti della sera prima.
«Ciao, Mia,» disse quando ebbe finito «fammi un cenno se mi senti.»
Mia mosse leggermente la testa.
«Adesso ti trovi in terapia intensiva,» continuò «ma ti spostiamo in neurochirurgia. Tranquilla è una buona cosa, il peggio è passato.»
Mia annuì di nuovo, o almeno così credeva, e come preannunciato fu portata via.
Ad accoglierla nel nuovo reparto fu una dottoressa stavolta, che, però, ripeté le stesse azioni del collega.
«Buongiorno, Mia.» disse quando finì di visitarla «Starai qui per un po', ci prenderemo cura di te. Ti stiamo dando diversi antidolorifici, ma piano piano diminuiremo le dosi e sarai più lucida.»
Adesso che era più presente a sé stessa, Mia provò ancora una volta a chiedere della sua compagna.
«Jenny.» sussurrò, sorpresa di essere riuscita a pronunciare il suo nome per intero.
«Caposala,» disse la dottoressa rivolta a qualcuno «sa niente della sua famiglia? La paziente ha fatto un nome.»
Una donna era, infatti, entrata nella stanza e adesso era vicino a Mia dalla parte opposta, però, rispetto alla dottoressa.
«No, dottoressa, ma mi posso informare con i colleghi della terapia intensiva.»
La caposala, un donnone dalla figura imponente, ma con un sorriso gentile, si rivolse a Mia.
«Sta tranquilla, cara, la tua famiglia verrà a trovarti presto. Tu tieni duro, nel frattempo.»
Nei giorni che seguirono, Mia scoprì che il tempo non è un concetto assoluto sei ti trovi in ospedale, specialmente se hai subito un trauma alla testa e nel sangue ti scorre roba pesante. Gli istanti in cui era sveglia, infatti, si mischiavano nella sua testa, come vecchie foto trovate in una scatola in soffitta, sul retro delle quali nessuno si è preoccupato si scrivere la data e, addirittura, se non fosse stato per i volti differenti dei medici e infermieri che si occupavano di lei e per i suoi e la sorella che gironzolavano per la stanza indossando vestiti ogni volta differenti, Mia avrebbe potuto pensare che si trovava bloccata in loop, nel quale era costretta a vivere lo stesso giorno.
Un loop però, che somigliava di gran lunga ad un incubo, perché di Jenny non c'era traccia. La compagna non era venuta in ospedale nemmeno una volta da quando aveva aperto gli occhi.
La dottoressa, però, non aveva mentito, anche se rimaneva sempre poco consapevole dello scorrere del tempo, Mia aveva cominciato a sentirsi meno stordita. Era riusciva a ricambiare i sorrisi della madre, ed era addirittura stata in grado di accarezzare la mano della sorella che un giorno era scoppiata in lacrime. Aveva persino cominciato a ricordare, più o meno, quello che era successo prima dell'incidente, anche se non sapeva dove stava andando prima di andare a sbattere.
Ricordava anche di essere incinta, che forse era il motivo per cui la compagna non era andata a trovarla, ma nessuno tra personale medico e infermieristico aveva fatto accenno alla gravidanza.
Mia, perciò, la mattina che finalmente si svegliò senza alcuna difficoltà e fu pienamente conscia dei propri pensieri, cominciò a sospettare che qualcosa era andato storto.
C'era trambusto in reparto e la dottoressa che l' aveva accolta il primo giorno era nella sua stanza. La donna la salutò con un sorriso, ma non disse nulla e continuò ad analizzare ora la cartella clinica che aveva tra le mani, ora la macchina che monitorava i suoi segni vitali.
Quando fu soddisfatta, la dottoressa, mise la mano sul braccio di Mia e finalmente disse:
«Come andiamo stamattina?»
Era giovane e, per la prima volta, Mia notava che era anche molto carina.
«Bene, credo. Da quanto tempo sono qui?»
«Hai passato una settimana in terapia intensiva e sei qui da altri dieci giorni. Abbiamo notevolmente abbassato la dose di antidolorifici ed è per questo che sei più sveglia stamattina. Continueremo a darti gli antibiotici ancora per qualche giorno, ma stai bene adesso; sei reattiva, non c'è nessun danno e la ferita alla testa sta guarendo bene. Vorrei, però, verificare lo stato dei tuoi ricordi. Va bene se ti faccio qualche domanda? Si tratta di cose semplici per assicurarci che la tua memoria storica non sia stata compromessa.»
Mia annuì.
«Sai dirmi il tuo nome e la tua età?»
«Mia, ventinove anni.»
«Nome dei genitori?»
«Daniela e Gregorio.»
«Perfetto. Tuo fratello, invece?»
«Bel tentativo, ma ho una sorella Angela, nome che non le si addice.»
La dottoressa rise.
«Il nome non lo sapevo, quindi uno a zero per te. Che mi dici del tuo lavoro invece?»
«Faccio, anzi facevo la maestra in una scuola materna. Ho perso il lavoro lo stesso giorno dell'incidente. Almeno credo.»
La dottoressa si mise sull'attenti.
«Credi?»
Mia si sforzò di ricordare meglio.
«Sì, anzi sono sicura perché c'era un forte temporale.»
«Che altro ricordi di quel giorno?»
«C'era brutto tempo, ma ero sconvolta per il licenziamento e nonostante la pioggia ho deciso di andare al locale della mia compagna. Avevo bisogno di vederla. Tempo fa abbiamo litigato, ho fatto una cosa stupida, e volevo provare ad aggiustare le cose. Da quel momento in poi è tutto sfuocato. Ricordo che correvo con l'auto, ma non so dove stessi andando né perché, e a un certo punto sono andata a sbattere contro qualcosa... Oddio, mi dica che non si è fatto male nessun altro nell'incidente!»
La dottoressa scosse la testa e sorrise.
«No, tranquilla. Hai perso il controllo dell'auto perché ricordi bene, pioveva, ma nessuno a parte te è rimasto coinvolto nell'impatto. Ad ogni modo, non c'è da preoccuparsi se non ricordi le ore precedenti all'incidente. Non ha niente a che fare con il trauma alla testa, è piuttosto un meccanismo di difesa. Il nostro cervello cancella le cose brutte per proteggerci, ma è probabile che ricorderai tutto tra qualche giorno. Dimmi piuttosto della tua compagna. Si chiama Jenny per caso?»
«Sì.» rispose Mia piena di speranze.
Forse era venuta a trovarla e lei era troppo intontita per ricordarlo.
«Perciò, era lei che provavi a chiamare quando sei arrivata in reparto.» disse la dottoressa, più a sé stessa che a Mia.
«È mai venuta?»
«Non che io sappia, mi dispiace.»
«È stata avvertita? Come ho detto abbiamo litigato e sono andata via di casa. Potrebbe non sapere niente.»
Secondo Mia, infatti, c'era la possibilità che la sua famiglia l'avesse tagliata fuori.
«L'ospedale ha avvertito i tuoi genitori, non so altro.»
La dottoressa appariva mortificata, forse un po' troppo rispetto all'argomento trattato.
«Mia,» aggiunse con un sospiro « c'è un altra cosa che devi sapere.»
«Ho perso il bambino, vero?»
La dottoressa annuì e Mia, stupendo prima di tutto sé stessa, iniziò a piangere.
«Mi dispiace, purtroppo lo stato iniziale della gravidanza è quello più delicato.»
«Non so neanche perché sto piangendo,» confessò tra i singhiozzi «l'avevo scoperto da poco e il bambino non era di Jenny!»
La donna, adesso, era confusa, ovviamente le parole di Mia per lei che non conosceva tutta la storia non avevano senso, e addirittura, la sua espressione sarebbe stata buffa se il momento non fosse stato drammatico. Era accaduto tutto troppo in fretta: la scoperta della gravidanza, Jenny che la mandava via, il licenziamento, e non aveva avuto il tempo di pensare a cosa sentiva realmente per quel bambino. Ora mentre piangeva le lacrime che non sapeva di avere, si rendeva conto che se non avesse avuto quell'incidente, avrebbe portato avanti la gravidanza e lo avrebbe amato.
La dottoressa si allontanò dal letto e tornò con dei fazzoletti. Non disse niente, ma, dopo essersi messa a sedere sul bordo del letto, poggiò una mano su quella di Mia e lasciò che la ragazza si sfogasse. Quando i singhiozzi di Mia si furono calmati, si alzò e disse:
«Adesso ti lascio, tra poco verrà uno degli operatori e ti porterà a fare una tac, si tratta di routine, non c'è motivo di temere nulla. Nel frattempo, non sforzarti di ricordare, non serve a nulla e ti farebbe sentire frustrata. I ricordi torneranno da soli, vedrai.»
La donna salutò Mia con un occhiolino e sparì nel corridoio del reparto.
Non molto tempo dopo, un operatore sanitario la portò a fare la tac, il cui risultato parve soddisfare molto la bella dottoressa. Successivamente, un giovane infermiere aiutò Mia a mettersi seduta per qualche minuto, come gli era stato ordinato, e, arrivata l'ora di pranzo, la ragazza fu in grado pensino a mangiare qualcosa.
Trascorsa la mattina, però, Mia cominciò a rimpiangere gli antidolorifici; oltre alla tristezza, causata dalla mancanza di Jenny e dalla perdita del bambino, ora che era lucida, provava dolore fisico; si trattava perlopiù di una sensazione sorda, ma costante e fastidiosa, e non avendo niente da fare, era difficile non pensarci.
«Ehi, come andiamo?»
Una voce squillante interruppe quello scomodo primo pomeriggio e Mia riconobbe la caposala, la donna che insieme alla dottoressa l'aveva accolta il primo giorno e che aveva rivisto, in quei giorni, qualche volta nella stanza.
«Perché non proviamo a muoverci un po'? Ti aiuto a metterti seduta, ma stavolta metti i piedi a terra, che ne dici?»
Mia guardò la donna, dubbiosa, e questa intuendo la sua reticenza disse:
«Tesoro, prima ti alzi da quel letto, prima esci da qui.»
Muoversi fu doloroso e faticoso insieme, e Mia cominciò a pensare che quella non fosse stata una buona idea.
«Mi fa male tutto.» si lamentò, mentre la caposala, che nel frattempo la ragazza aveva scoperto si chiamava Anna, la teneva per la schiena.
«Credici o no, è un buon segno, vuol dire che funziona tutto.»
«Sì, ma fa male.» ripeté, come una bambina.
Adesso Mia era seduta sul bordo del letto e aveva i piedi a terra, ma non era molto comoda.
«Stammi a sentire signorina, piangerti addosso non ti porterà da nessuna parte, perciò, stringi i denti e fa come ti dico.»
Mia restò stranita, non tanto per il rimprovero in sé quanto per il tono fermo e autoritario dell'infermiera. Improvvisamente, ebbe l'impressione di aver già sentito qualcosa del genere rivolta a sua madre, però, nei giorni precedenti.
«Ha per caso discusso con mia madre?» chiese.
Anna scoppiò a ridere.
«Oddio, hai sentito?»
«A quanto pare sì,» rispose Mia sorridendo di riflesso «l'ho appena avuto un flash. Eravate in corridoio, giusto?»
«Sì, è stato due giorni fa e tua madre non ha gradito.»
«Immagino. Perché l'ha ripresa?»
«Stava discutendo animatamente con una donna, una ragazza della tua età. Allora sono intervenuta, dicendole che non importava che fosse tua madre, ma quello non era il modo di comportarsi e che o faceva come le dicevo o poteva tornarsene a casa.»
«E l'altra ragazza?»
«Non so perché discutessero, non ho ascoltato molto. Ho sentito solo che la chiamava Jennifer.»
Mia cominciò a piangere. Jenny era andata in ospedale, non l'aveva abbandonata del tutto.
«Perché piangi, cara?» chiese Anna preoccupata «Dai, mettiamoci di nuovo giù.»
«È la mia compagna» spiegò Mia quando fu di nuovo in posizione supina «e qualche giorno prima dell'incidente avevamo avuto una brutta lite, perciò, non ero sicura che volesse avere ancora a che fare con me.»
«Sono certa che tiene ancora a te, solo che, scusa la domanda invadente, come sono i rapporti tra lei e la tua famiglia?»
«Ha sentito mia madre andarle contro no? Non vedono di buon occhio la mia relazione con lei.»
«Mia, purtroppo in casi come il tuo, l'ospedale chiama il parente più prossimo e in mancanza di un coniuge, sono i genitori e i fratelli ad essere interpellati. Ed essendo tu incapace di dare consenso, è toccato ai tuoi decidere chi rendere partecipe o no della tua situazione, visite incluse.»
«Che stronzi!»
«Adesso, però, sei cosciente, perciò non c'è niente che ti vieti di chiamare la tua compagna.»
Mia non era del tutto sicura della veridicità di quella affermazione.
Anna aveva confermato che Jenny un paio di giorni prima era andata in ospedale, ma se nel frattempo aveva deciso che non valeva la pena lottare e si fosse arresa? Del resto, l'incidente non cancellava quello che Mia aveva fatto.
«Tendiamo a mettere le cose in prospettiva quando accadono brutte cose, sono sicura che qualsiasi cosa vi abbia fatto allontanare, la tua compagna se ne sarà già dimenticata.»
Le parole di Anna sortirono l'effetto desiderato e Mia si prese di coraggio.
«Hanno trovato il mio cellulare?»
La caposala fece spallucce, ma si offrì di cercarlo tra le cose di Mia. L'oggetto, però, non c'era e la ragazza credette che la polizia avesse consegnato i suoi effetti alla sua famiglia.
«Possiamo rintracciarla noi.» propose Anna.
«Non ricordo il numero a memoria e a casa non abbiamo la linea fissa. Però, il pub dove lavora, sì.»
«Bene, cerca allora il numero su Google.»
La donna porse il proprio cellulare a Mia che digito il nome del pub e della compagna.
«A quest'ora non c'è nessuno al locale.» disse mentre restituiva il telefono all'infermiera.
«Non ti preoccupare, proverò finché non la becco. A costo di essere accusata di stalking.»
Mia fu intenerita dall'entusiasmo di Anna e si sentì coccolata.
Rimasta sola, cominciò a sentirsi insofferente, ma soprattutto a farsi sentire era la rabbia nei confronti dei suoi che aumentava man mano che l'orario di visita si avvicinava e quando mancavano appena cinque minuti, l'impazienza era diventata insostenibile. Addirittura, chiese aiuto per sollevare la schiena, in modo tale da essere in posizione, per quanto possibile, di attacco, quando la sua famiglia sarebbe arrivata.
La prima persona a fare il suo ingresso fu Angela e Mia non seppe se era delusa che la sorella fosse da sola o contenta perché così aveva tempo di attaccare la sua famiglia a più riprese.
«Oddio, Mia, sei sveglia!»
Angela si lanciò in un abbraccio a cui la sorella si sottrasse, brusca.
«Che vi è saltato in mente! Tagliare Jenny fuori e mandarla via.»
Angela si mise dritta e sospirò.
«Hai ragione, ma non è dipeso da me. Ho fatto il possibile e, giuro, l'ho tenuta informata, ma mamma e papà si sono intestarditi.»
Mia adesso era confusa. Da quando sua sorella si preoccupava di Jenny?
Di solito era lei quella più osteggiava la sua relazione e i genitori si limitavano ad avere un ruolo più passivo e seguire la figlia maggiore. La sorpresa per quella inaspettata empatia fu tale che si chiese se il trauma alla testa non le avesse provocato allucinazioni. Oppure i libri di fantascienza dicevano il vero e lei si era svegliata in un mondo parallelo dove tutto il contrario di tutto.
«Mi hanno detto che mamma l'ha mandata via due giorni fa.» disse Mia, abbandonando però il piede di guerra.
«Sì, ha esagerato, ma Jenny è testarda, le avevo detto di lasciare fare a me e a Gigi.»
«Non la voglio qui.» disse improvvisamente Mia, stizzita.
Angela dopo un attimo di confusione, capì quello che la sorella intendeva.
«Andiamo Mia, non puoi impedire a mamma di vederti.»
«Sì che posso.»
«Ragiona, siamo la tua famiglia.»
«Lo è anche Jenny! E non mi propinare la stronzata che siamo due donne e che non siamo sposate perché un pezzo di carta non cambia le cose e, poi, chissà, un giorno potremmo farlo anche noi se ci gira.»
Mia aveva detto quell'ultima frase con lo scopo di provocare la sorella, tuttavia, si sorprese a pensare che non era affatto una cattiva idea. Lei e Jenny non avevano mai preso in considerazione l'idea di sposarsi, avevano parlato di convivenza quasi subito e volevano dei figli, ma una cerimonia con tanto di contratto che legittimasse il loro impegno reciproco era, per entrambe le ragazze, superflua. Mia si chiedeva, adesso, se non fosse invece quello che voleva.
«Parlerò con mamma, tu però non ti agitare e, se vuoi, chiamo subito Jenny.»
Angela senza aspettare la risposta affermativa della sorella tirò fuori il cellulare dalla tasca dei jeans.
«A proposito, dov'è il mio?»
«È nella borsa che mi ha dato la polizia il giorno dell'incidente.» rispose la ragazza mentre si portava il cellulare all'orecchio «L'ho restituita a Jenny.»
Mentre la sorella attendeva risposta, Mia sentì un telefono squillare in corridoio e per una buffa coincidenza la suoneria era la stessa usata da Jenny. Lo stesso trillo assordante, che Mia trovava fastidioso, ma che per la sua compagna era necessario perché altrimenti, diceva, non lo sentiva.
Sorrise, ma subito dopo, notò, il suono farsi stranamente più vicino fino ad arrivare a pochi metri dalla sua stanza. Mia si voltò d'istinto verso la porta e per una volta le sue speranze non furono mal riposte.
Anna doveva aver mantenuto la promessa di rintracciare Jenny, che adesso era in piedi sulla soglia della camera.
«Sono qui.» disse con un filo di voce.
Le due ragazze si guardarono per degli interminabili secondi. Angela nel frattempo, aveva messo via il cellulare e, dopo aver strizzato affettuosamente la gamba della sorella, si fece da parte e uscì dalla stanza.
Jenny era immobile con una mano appoggiata al telaio della porta e gli occhi di chi voleva dire tante cose ma non riusciva a farlo.
«Amore mio,» la incoraggiò Mia con la voce rotta «sei stai aspettando che mi alzi io ad abbracciarti, ti avverto, potresti aspettare parecchio. A malapena ho messo i piedi a terra oggi.»
Jenny con uno scatto le corse incontro e senza grande delicatezza la strinse tra le braccia. A Mia, però, non importava se nel farlo aveva risvegliato dei dolori assopiti, si lasciò stritolare volentieri e strinse a sua volta la compagna a sé, con meno forza, forse, ma con lo stesso amore.
Nessuna delle due parlò per qualche minuto, i grandi discorsi erano inutili. Mia non sapeva se Jenny l'avesse perdonata del tutto, ma non era quello il momento per fare ammenda, avrebbe avuto tutta la vita per farlo, adesso l'importante era farle sapere come si sentiva.
«Ti amo.» sussurrò.
Jenny non rispose, ma strinse la morsa dell'abbraccio e affondò la faccia nell'incavo del collo di Mia, fino a quando quest'ultima non sentì la compagna sussultare.
«Jenny, amore mio,» disse costringendola ad alzare la testa per guardarla «non piangere. È tutto a posto.»
«Credevo di averti persa per sempre e non potevo sopportare che l'ultima che ci siamo viste ti ho mandato via da casa.»
Mia mise le mani sulle guance di Jenny e le asciugò le lacrime con i pollici.
«Eri arrabbiata e avevi tutti i motivi per esserlo.»
«Promettimi una cosa, bambola»
«Tutto quello che vuoi.»
«Quando esci da qui, torni a casa nostra.»
Mia a sentire quella richiesta fece quello che aveva detto alla compagna di non fare, cominciò a piangere per il sollievo di sentire che Jenny la voleva di nuovo nella sua vita, e trattenendo a stento un singhiozzo disse:
«Non vedo l'ora.»
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Nulla all'infuori di sé
Roman d'amourMia e Jenny stanno insieme ormai da tre anni. A minare la stabilità del loro rapporto, sarà un uomo entrato per caso nel pub di cui Jenny è la proprietaria. L'incontro con Max infatti, costringerà le donne a fare i conti con le dinamiche del loro...