14.

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Sono passati cinque giorni, da quella sera a Galleria Borghese.
Quella stessa sera, dopo il kebab mangiato per strada su una panchina, Simone aveva accompagnato Manuel a casa e quest’ultimo gli aveva proposto di salire.

Gli aveva così mostrato il suo disegno, gliel’aveva perfino regalato perché una reazione così emozionata da parte di Simone non se l’aspettava e gli era sembrato giusto potesse averlo lui.

Avevano fatto sesso con più lentezza rispetto a quello fatto in quel bagno poco prima; avevano parlato, si erano guardati e Manuel aveva iniziato a sentire un senso di inadeguatezza troppo grande nella sua stessa casa.

Avrebbe voluto riavvolgere il nastro, poter tornare indietro e non chiedergli mai se volesse salire.

Poi si era calmato perché Simone l’aveva capito e si era premurato di dirgli, spontaneamente, quanto quella serata fosse stata bella.
E lì Manuel aveva ceduto di nuovo a un sorriso, a una tranquillità forse illusoria.

Aveva perfino deciso di raccontargli la storia del tuffo in piscina. Gli aveva detto: “Senza pietismi, lo sai perché c’avevo quel sogno della piscina?”.

E Simone aveva chiaramente scosso la testa, restando in silenzio per ascoltarlo.

“Quand’ero piccolo mia madre faceva le pulizie per un paio di famiglie. La mattina da una e il pomeriggio da un’altra. Non sapeva dove lasciarmi, soprattutto d’estate, e una baby sitter non se la poteva permettere, allora mi portava con lei. Solo che c’aveva da fa, allora me diceva de sta zitto e buono, così poi m’avrebbe comprato le caramelle al baretto vicino casa, al ritorno. Una de ste due famiglie, però, oltre a na villa con la piscina aveva un figlio della mia età… forse un anno in più. Me diceva che c’avevo sempre le stesse scarpe mentre lui le cambiava ogni giorno, e poi che su padre era un avvocato e che poteva fare quel bagno in piscina ogni volta che voleva”. Aveva sorriso, ormai con quei ricordi immagazzinati e superati dentro di sè.  “L’ho invidiato e odiato, e me chiedevo perché fossi nato nella famiglia sbagliata.”

Anche Simone gli aveva sorriso, comprensivo. “Credo fosse nato nella famiglia sbagliata lui, se gli avevano insegnato certe cose”

“Sì, ma l’ho capito dopo. Comunque poi a’ rivincita del tuffo in piscina ce l’ho avuta, pure se a trent’anni!”

Il suo sorriso non realmente felice aveva intenerito Simone. Tanto. Troppo. Perché gli era sembrato sincero, ma malinconico; aveva capito che Manuel fosse un maestro nel raccontare tutto con il sorriso, tutto come se non gli importasse davvero, tutto come se la sua vita non avesse condizionato la persona che è ora, perché i problemi della vita sono altri e avrebbe dovuto ringraziare il solo fatto di avercela fatta.

“Sei arrabbiato?”

“In che senso?”

“In generale, nella vita…”

“No, non più.”

Allora Simone l’aveva guardato dritto negli occhi, con la sua capacità di leggere dentro, e Manuel aveva distolto lo sguardo per un attimo prima dell’ammissione.

“Un po’. Io lo so che m’è andata fin troppo de culo, però me poteva andà pure meglio. No?”

“Credo di sì… non conosco la tua vita nel dettaglio”

“Io amo mia madre, le voglio un bene che non ho mai provato per nessuno e farei qualsiasi cosa per lei, perché so che lei ha fatto qualsiasi cosa per me. Però è evidente che qualcosa sia andato storto, perché ho rinunciato a tante cose e io sento che un po’ di rancore l’ho accumulato. E nun me piace, sta sensazione, perché lo so che non è stata colpa sua. Adesso ho trent’anni, ho un lavoro, me posso permette una casa…”

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