It's Over.

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3 luglio 2006.

Non avevo mai chiesto granché a Dio. Forse perché non ero mai stata credente, forse perché certe cose capitano e basta e vi assicuro che non c'è nessun Santo che regga.

Nei libri specifici a quello che mi attendeva, descrivevano il tutto come una bellissima situazione. Io di bellissimo non ci trovavo niente. Cosa potevi trovarci di bello nelle nausee e nei giramenti di palle? Sì perché avevi anche quelli, come avevi le crisi di pianto improvvise per una qualsiasi stronzata.

Eppure non ero infelice di come si era conclusa la mia vita. Sì perché si era conclusa, almeno quando avrei dato l'ultima spinta e sarebbe uscito quell'essere infernale che mi torturava.

Mi sarei aspettata una crisi isterica da parte di Simone e Gordon, ma valli a capire quelli.
Non avevano fatto altro che piangere felici del fatto di diventare nonni. A chi cazzo poteva fregare che fosse la sottoscritta a rimettere l'anima ogni mattina nel water? Certo, loro erano solo impazienti di vederlo uscire da me e coccolarselo. Come Tom. Come Bill.

Il moro sembrava quello più eccitato all'idea di diventare zio, tanto che mi aveva obbligata a mettergli il suo nome se fosse stato maschio.

Pregai fosse femmina.

Avrebbe rischiato di non poter vedere la luce del giorno fino alla loro morte, ma alle manie possessive dei maschi di casa verso un'ipotetica femmina ci avrei pensato se fosse stata realmente tale.

Tom aveva addirittura conservato il test. Diceva che se lo sarebbe tenuto finché non sarebbe esploso. Ogni sera prima di mettersi a dormire se lo guardava con una faccia da schiaffi, glieli avrei dati volentieri ma sarei passata solo per la solita stronza insensibile.

Il giorno che feci quel test, in realtà, la risposta già la sapevo. Certe cose una donna se le sente.

Io non avevo il coraggio di vedere la risposta, avevo lasciato tutto in mano al futuro padre. Mi era bastato vedere gli occhi di chi ha la consapevolezza che da quel momento in poi tutto sarebbe cambiato, a farmi scattare in piedi come una molla e correre via da quella casa.

Non avevo nemmeno una meta, avevo voglia di correre e pensare. Nelle mie condizioni correre, era sbagliato. Me lo aveva fatto presente ripetutamente poi il rasta, quella sera, una volta rientrata.

Insomma fottuta per la seconda volta, a sedici anni. Con la differenza che quella volta sarebbe arrivata al termine prestabilito.

Le attenzioni e le preoccupazioni del rasta ovviamente erano aumentate, quindi potete immaginare in che condizioni vivevo. Rinchiusa in casa manco avessi la lebbra. 

Ma i guai non arrivano mai da soli si sa, i Tokio Hotel avevano un manager molto carino che aveva programmato il loro tour. Questo stava a significare essere abbandonata a me stessa e alle mie nausee del cazzo.

Il tour sarebbe durato un mese, tra concerti, interviste, foto alla band e cazzate varie.
Ero felice per loro, ma ero comunque in ansia di lasciar andare il rasta.

Avevano già le loro fan, soprattutto quelle che volevano tanto fare un giro sul bastone da discoteca del mio ragazzo. Avvertimenti e raccomandazioni a parte, lo aiutai a preparare la valigia la sera prima della sua partenza.

Sembrava come se dovesse partire per la guerra, teneva il muso e sbuffava ogni due secondi.

-Andrà tutto bene- lo ripresi dall'ennesimo sbuffo.

Mi fissò prima come un ladro colto con le mani nel sacco, poi abbassò di nuovo lo sguardo affranto e giurai di vedere una lacrima rigargli la guancia.

Sognarti non mi basta -Tom Kaulitz-Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora