Capitolo 13

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Mi chiedo seriamente se, mia madre, mi abbia dato il dono dell’intelligenza. Si erano fatti questa domanda già parecchie persone verso la seconda o terza media, quando entrai nella mensa scolastica e rovesciai un intero pranzo per almeno centoquaranta alunni. Inutile dire che la vergogna che provavo era indescrivibile a parole, e che passai il resto dell’anno a nascondermi dalle bidelle e dalle cuoche per paura che scoprissero il mio indirizzo di casa e che venissero a farmi una sorpresina.

Ma ora, ora che mi trovo nell’ufficio del capo di Starbucks dopo aver quasi rischiato di mandare a fuoco l’intero bar, mi rifaccio la stessa domanda. Mia madre mi ha dato il dono dell’intelligenza? Insomma, ho sempre preso bei voti, quelle poche volte che sono andata in discoteca ho rifiutato gli alcolici, sono sempre stata una ragazza sveglia e indipendente. Venti minuti fa, invece, ho lasciato acceso il forno con trenta muffin, e proprio adesso il direttor Cooper entra dalla porta con la faccia corrucciata.

Mi faccio piccola piccola nella mia seggiolina di metallo. “Salve..” sussurro.

Il signor Cooper si siede, lo sguardo sempre puntato su di me, uno sguardo indagatore. “Salve signorina Rossi”

L’accento americano con cui dice il mio cognome mi fa venir voglia di sorridere, ma mi trattengo appena ricordo il motivo della mia convocazione. “Voglio prima di tutto scusarmi per quello che è successo poco fa, non avevo idea di quello che potesse succedere e le assicuro che non era mia intenzione rischiare di…” comincio a parlare come una logorroica, balbettando quando il suo viso mi scruta ancora più a fondo, ma poi improvvisamente mi blocca.

“Ma certo, signorina” dice sorridente “Può capitare a tutti di incendiare l’intero bar con il forno più sicuro al mondo, è normale”

Ho la netta sensazione che mi stia prendendo in giro, ma decido di tenere il gioco. “Non so davvero come farmi perdonare..”

“Un modo ci sarebbe, a dire il vero” aggrotta la fronte bruscamente.

“Sarebbe?”

“Se ne vada immediatamente dal mio ufficio e tolga il disturbo. Non voglio vederla più lavorare qui”

Rimango allibita per qualche minuto, poi ritrovo la voce. “Ma signore, le ho assicurato che non era mia…”

“Se ne vada, mi faccia il favore” dice alzandosi e indicandomi con il braccio la porta. Vorrei dirgli Sai, so dove si trova la porta ma mi trattengo, di nuovo.

Mi alzo incazzata nera e, senza dare un saluto, mi precipito fuori dall’ufficio. Recupero la borsa dall’armadietto e mi imbatto nel sole caldo di Miami. Guardo il cellulare che segna le cinque e sedici minuti, poi punto lo sguardo altrove, sulla strada, decidendo di tornare a casa.

Ma vi sembra giusto essere stata licenziata dopo nemmeno un mese di servizio? Assurdo, nemmeno a mia zia che ne ha fatte di tutti i colori era mai successo. Di colpo sento due mani enormi mi bendano gli occhi e un profumo buonissimo entrarmi dalle narici.

“Mmm, vediamo… devo indovinare? Sei Harry?”

La sua risata arriva subito e io mi riapproprio del senso della vista, mi giro verso di lui e lo trovo sorridente, bello come non mai. Ha una maglietta rossa, i jeans scuri e le converse. Come si fa a non rimanerne affascinati?

“Così non c’è gusto” si lamenta abbracciandomi, e io mi beo del suo profumo ancora una volta.

“Sei l’unico con un odore così buono” gli sussurro nell’orecchio “Come hai fatto a sapere dov’ero?”

“Martina” risponde semplicemente.

Roteo gli occhi e lo prendo per mano, poi ci avviamo verso l’hotel, guardando il sole che tramonta tra i grattacieli.

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