Capitolo 19

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Margot's pov
Sono nella camera da letto dei miei genitori, ma non è quella attuale. È quella della nostra prima casa, la riconosco dal profumo di fiori che sento entrare dalla finestra. Prima abitavamo vicino a Regent's Park e ogni mattina ci svegliavamo con il cinguettio degli uccellini e con il profumo delle rose.
Oggi, la stanza è illuminata da una luce innaturale. Il sole è nascosto da un fitto strato di nuvole, ma alcuni dei suoi raggi attraversano le tende azzurre della stanza.
Al centro, c'è un letto matrimoniale sfatto. Le coperte ricadono disordinate sul pavimento di legno, sui cuscini sono ancora visibili le impronte lasciate da chi, fino a poco fa, stava dormendo. Riconosco immediatamente il disegno attaccato alla parete della camera: l'ho fatto io, quando avevo circa 3 anni. Ricordo perfettamente il momento in cui mamma lo appese alla parete, ricordo quanto andassi fiera del mio piccolo traguardo, del mio disegno esposto come i quadri di grandi pittori in un museo.
Riesco a sentire il freddo pavimento sotto i miei piccoli piedi nudi. Quando ero piccola camminavo spesso scalza in casa, mi piaceva sentire il contatto tra la pelle nuda e il pavimento.
La finestra, leggermente aperta, lascia entrare un'aria fresca, che fa oscillare le tende e le pagine di un calendario appeso al muro. Guardo distrattamente la data riportata: 2 gennaio 2010. In effetti, indosso quella che da piccola consideravo la mia camicia da notte preferita.
I capelli mi ricadono sciolti e lunghi sulle spalle. Sono sempre rossi, ma un po' più chiari.  
La mia mano destra stringe quella di un peluche: è un piccolo orso dal pelo marrone. Lo sollevo lentamente, in modo che i miei occhi possano guardare bene i suoi,  fissi e  immobili.
In lontananza, sento le voci di mamma e papà. Mamma sta piangendo. Di nuovo.
Torno a guardare il mio orso. Una lacrima mi riga la guancia.
"Che cosa hai fatto?"-gli domando, anche se so che non ci sarà risposta. Guardarlo adesso, dopo tutto quello che è successo, mi fa venire il voltastomaco. Vorrei cancellarlo dalla faccia della Terra.
Altre lacrime scappano al mio controllo. Ormai non riesco più a trattenerle.
I contorni della stanza diventano sempre più sfocati, tutto sembra essersi dissolto in una nube biancastra. Tutto tranne l'orso, i cui contorni sono ancora integri e ben visibili.
"Perché lo hai fatto?"-chiedo al mio orso alzando un po' la voce, rotta dal pianto.
Quegli occhi continuano a fissarmi, immobili e privi di vita. Loro non possono vedere quello che hanno fatto, la devastazione che hanno causato.
Non è giusto.
Scaravento con rabbia l'orso a terra, per poi inginocchiarmi vicino a lui. Nella mano sinistra
stringo le mie forbici, quelle con la punta arrotondata che mamma e papà mi hanno comprato per la scuola. Sulla mano destra è ancora visibile  il piccolo taglio che mi sono fatta la prima volta che le ho usate, qualche giorno fa.
Non sono qui per caso. Sono qui per un motivo molto preciso.
"Adesso avrai quello che meriti"-sentenzio, con le labbra che tremano e le guance bagnate.
Tiro su con il naso, faccio un respiro profondo e raccolgo tutta la forza che mi rimane per fare ciò che devo.
Afferro una zampa dell'orso e con decisione infliggo un primo taglio. Un po' di imbottitura fuoriesce dalla piccola incisione. La estraggo con rabbia e la spargo sul pavimento, per poi continuare a tagliare il peluche: i tagli si spostano dalle zampe alla pancia, fino ad arrivare al collo. Sono irregolari , frettolosi e poco precisi, ma efficaci.
I pezzi dell'orso ricadono inerti sul pavimento, mentre continuo a distruggere il resto.
Guardo l'imbottitura bianca spargersi intorno a me, mentre tra le mani mi rigiro la testa dell'orso, ormai staccata dal corpo.
Guardo un'ultima volta quegli occhi neri sempre uguali, prima di dividerli in due metà simmetriche con un taglio netto, esattamente al centro della testa. Continuo a tagliare i pezzi che rimangono sul pavimento, rendendoli via via più piccoli. La rabbia mi acceca. Vorrei incenerirli tutti. Vorrei guardarli bruciare, osservando il pelo marrone diventare prima nero e poi cenere.
Esausta, lascio ricadere le forbici sul pavimento. Pensavo che distruggere l'orso avrebbe attutito un po' il mio dolore, ma mi sbagliavo.
Il dolore rimane, continuo a sentirlo, proprio al centro del petto scosso dai singhiozzi.
È un dolore insidioso, perché c'è anche quando non mi accorgo di lui. Quel dolore è in ogni mia azione: è nelle lacrime che scorrono sulle mie guance, nelle mani indolenzite per i tagli inflitti, nella rabbia che provo guardando i pezzi sparsi di quello che era il mio peluche preferito.
Mi stendo per terra, tra i resti dell'orso, lasciandomi andare in un pianto disperato, fin quando non sento i passi di mamma e papà avvicinarsi.

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