XVII - Tuffo nel passato, prima parte.

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Ci sono avvenimenti che ti rimangono impressi fino alla fine dei tuoi giorni. Si attaccano al tuo cervello e alla tua memoria come sanguisughe e nemmeno il passare degli anni riesce a staccarle. Ti prosciugano ogni notte e quando sei sola. Non hai via d'uscita.
Era esattamente ciò che succedeva ad Ibrahim dalla tenera età di sei anni. I ricordi, i brutti ricordi, lo perseguitavano. I fantasmi lo tormentavano, addossandogli colpe che effettivamente non aveva, ma che credeva di avere.
Era così piccolo a quei tempi; un bimbo innocente che non aveva visto e vissuto abbastanza per comprendere la cattiveria dell'uomo.
Come si può dimenticare il giorno in cui vieni strappato dalle tue origini? Come si può ignorare la vista della tua terra che viene inghiottita dalla lontananza, mentre tu sei legato ed impaurito su una nave a scappare per sempre? Come si può dimenticare il giorno nel quale è cominciata la tua prigionia?
Non si può. Ibrahim ricordava perfettamente ogni minimo particolare, ogni dettaglio, ogni lacrima che aveva versato...

Viveva in una piccola città portuale nel sud della Grecia che non aveva più di ottomila abitanti. La sua famiglia, composta per lo più da pescatori, non se la cavava bene; erano molto poveri, ma nella loro povertà e nelle loro umili origini erano felici.
Erano in cinque: i suoi genitori, Elena la sorella maggiore, Costa e Alexadros; questi ultimi sarebbero diventati Drake il pirata ed Ibrahim Pascià in un futuro molto lontao.
Quella mattina era il primo giorno di primavera; il cielo era privo di nuvole ed un leggero venticello scorrazzava fra le chiome verdi degli alberi. I bambini correvano allegri per i prati, giocando e ridacchiando, mentre gli adulti si intrattenevano al mercato.
Suo padre e sua madre erano tornati presto dalla normale giornata di lavoro e come premio avevano portato loro un fumante pezzo di pane e del formaggio di pecora. Era il suo compleanno e il suo regalo consisteva proprio in quelle prelibatezze.
-Madre! Padre! - Avevano urlato i bambini quando i genitori, stremati, malnutriti, ma sempre sorridenti, entrarono nella piccola baracca di legno. Il piccolo Alexandros, un bambino dalle guance paffute, dai grandi occhi verde-castano con lunghe ciglia scure e i capelli nerissimi e riccissimi, corse incontro ai genitori, abbracciandoli. - Finalmente siete tornati! -
-Calmati, Alexandros. - Sua madre rise, scompigliandoli i capelli e chinandosi per baciarlo delicatamente sulle guance rosa. Era una donna giovane, aveva circa trent'anni all'epoca. Nonostante le condizioni in cui viveva era bellissima. Capelli ricci e color d'ebano, occhi di un particolare verde-castano e labbra grandi e piene. I suoi tre figli avevano preso da lei, poiché suo marito non era esattamente un uomo di bell'aspetto. Non aveva più capelli in testa, era troppo magro, il naso era troppo grande e sapeva costantemente di pesce. Ma in compenso aveva due occhi blu come l'oceano e un cuore grande e gentile. - Buon compleanno, amore mio.-
-Grazie! Adesso mangiamo! - Urlò, saltellando per casa, mentre suo fratello Costa lo imitava e sua sorella Elena ridacchiava. La sua allegria infantile era l'unica cosa che li faceva andare avanti.
Pensandoci, era ironico il modo in cui la gente era costretta a cambiare così all'improvviso...
La piccola famigliola si riunì intorno ad un piccolo e malandato tavolo di legno scadente e bucato, dividendosi il misero pezzo di pane fumante e quel poco formaggio di capra.
Alexandros afferrò la sua parte portandosela vicino al viso e annusando il buon aroma che emanava.
-Alexandros, vuoi ringraziare il Signore per ciò che ci offre tanto gentilmente? - Domandò Elena, guardandolo con i suoi grandi occhi blu. Una ciocca di capelli scuri e ricci le era caduta sul naso e si affrettò a spostarla. Sua sorella lo guardò con amore, accarezzandogli una guancia dolcemente.
Oh, quanto le voleva bene! Quanto voleva bene ad ognuno di loro! Sarebbe morto innumerevoli volte per salvargli la vita, avrebbe fatto qualunque cosa per Elena, per Costa e per sua madre e suo padre.
-Ti ringraziamo, mio caro Signore, per tutto ciò che ogni giorno ci offri. Per questo pane che mamma e papà mi hanno portato oggi e per tutto il pesce che c'è nel tuo mare. Ti ringraziamo per la nostra salute e per l'amore che ogni giorno ci unisce e ci unirà per sempre. Amen. - Concluse, aprendo gli occhi e guardando i presenti prima di divorare, tutti con un boccone, il loro unico pasto della giornata. Erano rare le volte in cui si permettevano il lusso di mangiare due volte al giorno. - Grazie, vi voglio tanto bene! -
Tutti risero e Costa si avvicinò ad Alexandros, bisbigliandogli qualcosa: - Andiamo a giocare con Fiammetta adesso? Gliel'ho promesso, se non mantengo la promessa, mi picchia! Ieri mi ha fatto un livido solo perché non volevo giocare con le sue bambole di pezza, ma le ho detto che quelli sono giochi da femmine! -
-Che schifo le bambole. - Alexandros fece un verso di disgusto, rabbrividendo solo all'idea. - Ma va bene, vengo con te. Sei mio fratello, ti devo aiutare nel momento del bisogno. -
Tuttavia, prima che Costa potesse controbattere, la porta della loro piccola casetta venne scardinata e cadde al suolo sollevando un gran quantitativo di polvere. Era appena scoppiato l'inferno. Al villaggio erano giunti i turchi in cerca di schiavi da poter portare a Costantinopoli e di cui potersi approfittare.
Elena, suo padre e sua madre balzarono in piedi facendo da scudo a lui e suo fratello , che si erano stretti la mano, impauriti da quei brutti individui armati con cicatrici e provenienti da altri mondi, che parlavano un'altra lingua. I primi a venire uccisi furono i suoi genitori; venne tagliata loro la testa con un colpo veloce e deciso. Elena urlò, maledicendoli in greco, mentre le teste di sua madre e suo padre rotolavano per terra, seguita dai loro corpi. Il sangue schizzava ovunque, sporcando i due turchi e i tre fratelli ormai orfani.
-State lontani, vi prego, non fate del male ai miei fratelli. Prendete me! - Elena, tenendosi davanti ai due piccoli, indietreggiava. Il suo viso era sporco di sangue e di lacrime salate. Costa piangeva silenziosamente stringendogli la mano, mentre lui guardava la scena davanti a sé, completamente sotto shock. Si guardava le mani completamente zuppe di sangue, i corpi dei suoi genitori senza vita e le loro teste con gli occhi vitrei e i due uomini che ridevano mentre afferravano sua sorella per le spalle, staccandola da loro. Elena che veniva spinta per terra e colpita ripetutamente con schiaffi potenti dai due, la sua veste che veniva sollevata e le mani che la toccavano lì dove non dovevano. Le urla di Elena, le urla di Costa e finalmente le sue lacrime.
-Elena! Lasciatela stare, brutti uomini cattivi! - Urlò Costa, correndo verso uno dei turchi e mordendogli forte la mano. Suo fratello fu spinto violentemente di lato e sbatté la testa per terra, rimanendo stordito per qualche minuto.
-Aleksandros, porta via tuo fratello, vattene da qui! - Urlò sua sorella fra le lacrime, mentre i due uomini alzavano le sciabole e le tagliavano la testa in un colpo secco. I fratelli chiusero gli occhi, afferrandosi per mano e cominciando a correre, ma non proseguirono più di un metro che i turchi li presero, sollevandoli da terra.
Quando uscirono da casa, i due bambini cercarono di non guardare i tre corpi senza testa e senza vita per terra. Troppo doloroso realizzare che coloro che erano lì con due secondi prima, adesso non c'erano più. Erano stati spazzati via con due semplici colpi di sciabola.
Il villaggio era stato completamente incendiato e le gabbie umane pullulavano di uomini, donne e bambini. Facce che conoscevano da quando erano nati, ora erano pieni di sangue e incatenati, altri erano semplicemente morti.
Del loro piccolo e felice villaggio di pescatori non era rimasto più niente. Non c'erano più gli alberi di melo poco più lontani da casa sua, sotto al quale lui, Costa e Fiammetta giocavano a nascondino. Non c'erano più quelle anziane signore che spesso gli regalavano due chicchi d'uva, che lui prontamente donava a suo padre. Non c'era più quel ragazzo dai capelli biondi che si incontrava spesso di nascosto con Elena e la guardava, quando tutti erano distratti. Non c'era più Elena, la sua dolce sorella, quella che non poteva piangere perché in quel momento lo stavano trascinando su una gabbia diretta chissà dove. Non c'era più sua madre che ad ogni compleanno avrebbe comprato del buon formaggio di pecora e del fumante e caldo pane bianco. Non c'era più quella particolare aria di mare, così fresca e delicata. Non c'era più suo padre e le sue mani rozze, piene di calli per colpa delle reti, ma che sapevano trasmettere amore. Non c'erano più gabbiani che si aggiravano sul pesce al mercato.
Non c'era più niente e nessuno che ricordasse cos'era stato quel posto e da chi era stato abitato.
Gli alberi di melo bruciavano, scoppiettavano e si appassivano sul prato vicino alle case; Fiammetta era stata risparmiata, ma era stata comunque issata su una delle gabbie e lui e Costa avrebbero avuto lo stesso destino. Non avevano più voglia di giocare, non l'avrebbero mai più avuta. Il tempo delle bambinate era terminato, era ora di diventare adulti.
Le anziane signore, così come quel ragazzo e sua sorella, sua madre e suo padre giacevano morti e insanguinati per terra. Erano senza vita, solamente un guscio di ciò che erano stati e i loro occhi vitrei, senz'anima, ne erano la dimostrazione. La cattiveria dell'uomo, il potere che acceca le menti.
I gabbiani erano scomparsi dal cielo, che non aveva avuto la dignità di piangere in un giorno talmente orribile. E quella meravigliosa aria di mare, si era trasformata in puzzo di morte e fumo.
Tutto ciò che era stato, si stava dissolvendo nel nulla e nessuno lo avrebbe mai ricordato. Il suo passato, le sue origini, ciò che era... Cosa sarebbe stato lui? Chi sarebbe stato? Il nulla più assoluto.
Le lacrime avevano smesso di scorrere sui loro volti, adesso erano cresciuti e nel villaggio vegliava un silenzio tombale. Nessuno piangeva, nessuno proferiva parola, solo silenzio.
E persino quando lui e suo fratello Costa furono separati, non ci fu un solo lamento. Venne buttato vicino ad uno dei bambini e guardò suo fratello attraverso le sbarre. I suoi occhi blu, il viso insanguinato e la mano stretta in quella di Fiammetta fu l'ultima cosa che vide di lui per molti anni a venire.
Aveva perso anche l'ultimo membro della sua famiglia. Adesso era solo, solo contro la cattiveria del mondo e senza la sua allegria.
Era solo e pronto a vendicarsi.
Quando, qualche settimana dopo, mise piede in Turchia il nome Aleksandros non faceva più parte di lui. I turchi lo avevano soprannominato Ibrahim, il convertito. Un'altra parte del suo passato e della sua vita precedente veniva completamente cancellata, dissolta nel dimenticatoio.
Era un orfano, uno schiavo al servizio del sultano e avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di compiacerlo.
Quando mise piede a Palazzo Topkapi, gli sembrò di essere in Paradiso. Non aveva mai visto tutto quel lusso, quel cibo e tutta quella bella gente, vestita con tanti colori diversi e così a modo. Nonostante odiasse ogni singola persona che vi abitasse, il piccolo Ibrahim ne ere rimasto affascinato, soprattutto quando era capitato per sbaglio nella biblioteca. Tutti quei libri, libri veri... Chissà come sarebbe stato toccarne uno ed esserne addirittura in grado di leggerlo.
Al suo villaggio solamente il vescovo era in grado di leggere e scrivere, tutti gli altri erano analfabeti.
Fu abbandonato in quel luogo che non gli apparteneva, costretto ad imparare una nuova lingua, una nuova cultura e credere in un nuovo dio. O almeno fingere di credervi... Aveva perso la sua fede nel momento in cui la prima sciabola aveva versato il sangue di sua madre. Un buon dio non permetteva atrocità del genere.
Aiutava come poteva; era troppo giovane per occuparsi di qualcosa in particolare, ma nessuno aveva voluto adottarlo tra i signori. Nessuno voleva un cristiano convertito nelle proprie case. Quindi, era costretto a pelare patate, ravvivare il fuoco nelle cucine, dava da mangiare ai cavalli, ai cani e versava i vasi da notte dei nobili. Mangiava ciò che la cuoca gli regalava per compassione, comunque più di quello che si meritava, e dormiva nelle stalle con i cani. Ogni singola notte guardava il cielo stellato e chiudendo gli occhi, cercava di versava qualche lacrima per i suoi parenti, ma non ci riusciva. Le lacrime sembravano essersi esaurite. Cercava di sentire le carezze dei suoi genitori sulla pelle e la dolce risata di Elena, voleva vedere come se la passassero Costa e Fiammetta, ma ciò che gli veniva restituito era solamente il silenzio.
Passarono i giorni, le settimane e i mesi ed era come essere un fantasma. Nessuno lo vedeva, tutti lo evitavano. Aveva imparato a parlare correttamente e le loro tradizioni, i loro cibi e il loro modo di pregare non gli sembravano più così strani; si stava adattando.
Era il giorno del suo settimo compleanno quando li incontrò. Selim e Hatice. Ibrahim era tutto brutto e sporco, coperto di fango e fuliggine e puzzava di sterco di cavallo, mentre i principini erano stupendi, vestiti bene e profumati. Si era nascosto in un angolo in giardino, dietro un albero e stava strappando i petali ad una rosa bianca; ad ogni petalo che cadeva, Ibrahim pronunciava il nome dei suoi famigliari.
Hatice fu la prima a notarlo. Ricordava che quando la vide per la prima volta, con i capelli intrecciati in due trecce ai lati della testa e gli occhi nerissimi, aveva arrossito per l'imbarazzo. Era la bambina più bella che avesse mai visto.
La principessa gli aveva sorriso, correndogli incontro e dicendogli con la sua voce stridula: - Perché fai del male a quella povera rosa, non lo sai che anche loro hanno dei sentimenti? -
-Scusatemi, principessa, non volevo mancarvi di rispetto. - Ibrahim serrò gli occhi, pronto a ricevere uno schiaffo per il suo gesto, ma niente di tutto ciò successe. Hatice gli si sedette accanto, tirando fuori dalla tasca un piccolo fazzoletto con le sue iniziali e porgendoglielo.
-Sei tutto sporco e puzzi di cacca, perché non ti pulisci? -
-Perché io vivo nella stalla, principessa, non c'è acqua lì. - Ibrahim scrollò le piccole e ossute spalle, pulendosi il viso. Nonostante i vari tentativi, lo sporco era diventato una sola cosa con lui. Hatice lo guardò profondamente, alzandosi in piedi e offrendogli la mano, per poi dirgli: - Vieni con me, adesso sei il mio nuovo amico. Sarai anche il nuovo amico di mio fratello Selim. -
-Non possiamo essere amici, principessa, io sono povero e voi siete ricca. E' così che va la vita. - Ibrahim, comunque, afferrò la mano della bambina, facendosi trascinare da lei in giardino, lì dove il sultano in persona, Selim e la sultana stavano pranzando. La sultana emise un urlo di spavento, notando la sua bambina mano nella mano con un individuo del genere. Il sultano aggrottò le sopracciglia, mentre Selim rise.
-Hatice, cosa ci fai con quel servo sporco e lurido?! Lascialo andare immediatamente! Tu sei una principessa e non puoi tenere la mano a questi cosi! - Urlò la sultana, correndo loro incontro e staccandoli uno dall'altro.
-Mamma! Come osi parlare così al mio nuovo amico? Solo perché è povero, questo non vuol dire che lui non può essere mio amico. - Hatice guardò la madre, aggrottando le sopracciglia. - Se gli facessi usare la mia vasca da bagno, lui sarebbe proprio come me e mio fratello, vero Selim? -
-Sì, è vero. - Assentì suo fratello a bocca piena. Guardava incuriosito quel bambino dall'aspetto buffo. La sultana sembrava sul punto di scoppiare in una crisi di nervi, mentre il sultano sorrideva.
-Sai, moglie, penso che la nostra piccola Hatice abbia ragione. - Disse il sultano, bevendo un sorso di vino. - Hatice, puoi essergli amico se proprio ci tieni, a patto che lui diventi il servo personale di Selim. Potrete giocare insieme quando lui non avrà mansioni di cui occuparsi. -
-Sì! Che bello!! Hai sentito... Come ti chiami, scusa? - Mormorò imbarazzata la principessa. Il sultano scoppiò a ridere, mentre la sultana sembrò voler uccidere il consorte con lo sguardo. Selim si limitava a mangiare. Era molto in carne.
-Ibrahim, mia principessina, mi chiamo Ibrahim. Sarà un piacere servirvi. - Ibrahim sorrise, facendo luccicare i suoi begli occhi.
La sua vendetta poteva finalmente realizzarsi. 

Roxelana: L' Imperatrice Dell'EstDove le storie prendono vita. Scoprilo ora