Capitolo quattordici - Alter ego

100 11 0
                                    

"Hands getting cold
Losing feeling's getting old
Was I made from a broken mold
Hurt, I can't shake
We've made every mistake
Only you know the way that I break"

idontwannabeyouanymore - Billie Eilish

Play

Sono sempre stata un po' in carne. Beh, non proprio in carne. In realtà, è difficile definire bene il mio corpo, per quanto ci abbia provato per tutta la vita. Ho un sacco di fianchi, ad esempio. È un fatto di costituzione, qualcosa di cui difficilmente riuscirei a liberarmi, quindi ho imparato a conviverci e, se devo proprio essere sincera, ho iniziato anche ad apprezzarli.

Le gambe, però, non sono proprio il massimo: sono grosse. E non grosse perché sono io che le vedo così, ma perché, oggettivamente, lo sono sempre state, a partire dalle caviglie, che hanno il diametro di un pianeta nano, fino ai polpacci da calciatore, alle ginocchia a cocomero e alle cosce, troppo tornite per i miei gusti. E sicuramente la mia altezza (o forse è meglio dire bassezza) non aiuta a renderle più slanciate, sempre che sia possibile.

In compenso, posso dire che dalla vita in su, invece, sembro una bambina di dieci anni: vita stretta, spalle piccole e seno quasi totalmente inesistente. Purtroppo, per quanto io mangi, neanche un decimo di tutti i chili che metto sul culo arriva mai a riempirmi, anche solo di poco, il reggiseno. In generale, quindi, posso dire che la carriera da modella non è fra le mie possibilità.

I punti che perdo con il fisico, però, riesco sicuramente a riacquistarli con il viso. Ho dei bei lineamenti, e lo dico senza alcuna modestia: viso ovale, labbra a cuore, occhi verdi e leggermente allungati, marchio di fabbrica della famiglia di mio padre. Dopo tre anni di apparecchio, inoltre, i miei denti sono diventati drittissimi, donandomi, secondo il parere degli altri, un bellissimo sorriso, di cui mi prendo cura in modo quasi ossessivo.

I capelli... beh, una volta erano davvero belli: lunghi fino alle fossette di Venere, leggermente ondulati sulle punte, di un castano ramato che provvedevo periodicamente a ravvivare con l'henné. Peccato solo che io abbia la brutta abitudine di intestardirmi su idee di merda. Nel complesso, non posso lamentarmi più di tanto; certo, non ho neanche intenzione di alzare le braccia al cielo e, con un grido di gioia, ringraziare Dio, Allah, Madre Natura o chiunque altro ci sia lassù per il mio petto virile ed un paio di gambe che neanche con anni di diete riusciranno mai a discostarsi troppo da quelle di un bufalo. Diciamo che vivo bene nel mio corpo, ma che non lo guardo mai per più di un paio di minuti al giorno. Questione di priorità.

Oggi, però, è diverso. Sono diversa, mi dico, mentre continuo a far scorrere lo sguardo lungo il mio corpo nudo e smagrito. Le costole sembrano ancora più evidenti di quanto non lo fossero prima, con la pelle giallastra a causa dei lividi quasi totalmente guariti, e le braccia sono sottili, in violento contrasto con le gambe, che risaltano anche più del solito.

Non sono mai stata così magra. Mai. Neanche dopo la morte di Haley. Mi sembra quasi di stare osservando un'altra persona, una sconosciuta che si è introdotta in casa mia solo per torturarmi psicologicamente con il suo aspetto malconcio. E mai avrei pensato che, dopo Cole, sarei diventata proprio io l'intrusa. A questo punto, sono arrivata addirittura a pensare che forse è proprio questo il suo piano: farmi sentire sbagliata, colpevole, un'estranea nel mio stesso corpo. E, se è davvero così, allora la situazione è anche peggiore di quanto pensassi. Perché ora non si tratta più di avere a che fare con un pazzo, uno squilibrato che ha trasformato la sua mania suicida in ossessioni omicide nei miei confronti, ma con una persona con la giusta freddezza e razionalità da riuscire a torturarmi lentamente senza neanche sfiorarmi. E questo sì che fa davvero paura. Cazzo se fa paura.

Mi giro, decidendomi finalmente, dopo almeno una decina di minuti, ad infilarmi i vestiti che mio padre mi ha tirato fuori dall'armadio poco fa. È da quattro giorni che non entro più in camera mia, se non contiamo quei tre tentativi durati poco più di un minuto e mezzo, nonostante sia stata messa a posto e i muri siano stati ridipinti. Adesso sono di nuovo tutti bianchi, proprio come quando ci eravamo appena trasferiti; non c'è più nessuna parete lilla, nessuna scritta sui muri, i poster sono stati staccati, arrotolati e riposti nell'armadio per poter imbiancare, ma non sono più stati riattaccati. D'altronde che senso avrebbe farlo? Quella non è più camera mia. Lo è quanto potrebbe esserlo una scena del crimine; ora che ci penso, c'è qualcosa di tristemente ironico in questo paragone.

Mi infilo la maglietta a maniche corte, facendoci passare sopra le mani un paio di volte nel tentativo di farla sembrare un po' meno sgualcita. È nera. Solo nera. Sopra non c'è nessun ricamo, nessuna scritta, nessun disegno. Mi si addice, perché anche il mio umore non ha disegni, oggi. Anzi, più che oggi, direi in questo periodo. Un lunghissimo e sfiancante periodo senza fine di cui dubito di poter raggiungere la fine: ho il fiatone già ora e, con Cole che si avvicina sempre di più, pronto ad atterrarmi, non riesco più a tenere il passo.

"Cara? Hai finito?"

"Sì. Sì, ho finito" rispondo a mio padre, appostato oltre la porta del bagno probabilmente da quando ci sono entrata per farmi una doccia e cambiarmi i vestiti.

Riesco a sentire i suoi passi inquieti, e anche i suoi respiri, quasi. Nella mia testa c'è così tanto silenzio che riesco a percepire anche il più piccolo rumore, dalle gocce d'acqua che cadono ritmicamente dal rubinetto fino all'aria che si oppone al cadere di una foglia in giardino, ma che non riesce a fermarla. Nel frattempo, però, è come se non riuscissi più ad ascoltare nulla.

Ho passato interi giorni, seduta sullo stesso divano su cui dormivo (sempre che di dormire si possa parlare), a guardare la televisione senza capire una sola parola di ciò che dicevano i protagonisti dei film o i giornalisti durante il telegiornale. Li guardavo muovere le labbra, mentre la loro voce giungeva alle mie orecchie amplificata di almeno dieci volte, ma non capivo nulla. Quando mio padre ha ritirato fuori il discorso sul dottor Schmidt, ha dovuto ripetere il suo nome quattro volte prima che io riuscissi a collegarlo al suo proprietario e a ciò che significava rivederlo. È stato proprio questo a farmi arrendere all'evidenza di quanto mi servisse realmente.

Apro la porta, con i capelli leggermente umidi attaccati al collo, e trovo mio padre appoggiato al muro di fianco. Mi guarda con uno sguardo ansioso, preoccupato, sollevato, dispiaciuto; i suoi occhi pesano di così tante emozioni che sono costretta ad abbassare il viso, incapace di ricambiare i sentimenti che sta provando. Perché, sì, in questa situazione ci siamo dentro in due, ma non posso fare a meno di continuare a sentirmi incredibilmente sola, abbandonata a me stessa e ad un destino a cui non ho mai voluto credere.

"Andiamo?" mi chiede, sorridendomi incoraggiante.

Annuisco.

So che è corto, non mi picchiate!
Ehiiiiilà! Okay, lo so, è cortissimo e non succede un bel niente, chiedo venia. Il fatto è che originariamente avrebbe dovuto contenere due parti, solo che la prima (ovvero questa) l'avevo già finita da un po', mentre la seconda la sto scrivendo molto più lentamente, sia per colpa della scuola che per mancanza di ispirazione. Quindi il mio cervello ha partorito questa MERAVIGLIOSA idea di pubblicare prima questa parte e prendermi più tempo per l'altra, anche per non lasciarvi totalmente a bocca asciutta. Quindi, se volete uccidermi, vi prego di farlo ora, perchè ho una verifica e due interrogazioni programmate per i prossimi due giorni che mi perderei volentieri.
Detto questo, spero che il capitolo non vi abbia fatto così schifo. Fatemi sapere cosa ne pensate e... beh, ci rivediamo al quindicesimo capitolo!
yeahbut

Haley - In Morte Ultima VeritasDove le storie prendono vita. Scoprilo ora