Capitolo ventitré - Bene vixit qui bene latuit

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"If you must leave
Leave as though fire burns under your feet
If you must speak
Speak every word as though it were unique
If you must die, sweetheart
Die knowing your life was my life's best part
If you must die
Remember your life"

You - Keaton Henson
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"Signorina, l'orario delle visite è finito da venti minuti. Può tornare domani."

È dalla prima volta che ho visto questo infermiere, giorni fa, che non riesco a fare a meno di associare la sua voce al rumore stridulo che fanno le ruote sull'asfalto bagnato dalla pioggia; è un qualcosa di fastidioso e ansiogeno, come la voce dell'avvertimento che ti sussurra nell'orecchio con la sua lingua biforcuta. Come i passi scricchiolanti e lenti del preludio del disastro. Credo che le ore di sonno arretrato stiano iniziando a grattare la porta.

Afferro il mio cappotto con gesti controllati, cercando di prendere tempo solo per continuare a guardare il viso inespressivo di mio padre, il corpo ricoperto da tubi e fili. Vederlo immobile è strano. Vedere la tua macchinina telecomandata che, all'improvviso, ferma la sua corsa a metà della pista è strano, surreale, soprattutto quando sai che non sono le batterie ad essersi scaricate. A quel punto diventa soltanto un inutile soprammobile, che si muove quando lo spingi, ma che dopo meno di un metro torna a sbatterti in faccia la realtà, cioè che tu non puoi fare nulla per farla ripartire. E non lo fa facendo rumore, sussurrandoti il rimuginare dei suoi ingranaggi malfunzionanti, ma con il silenzio. Il silenzio del nulla.

Non mi è mai piaciuto il silenzio. Per molti la totale assenza di rumori, l'immobilità, è vuoto, assenza, ma per me non è affatto così. Per me il silenzio non sta zitto, al contrario, mormora le cose che non vorrei sentire, rievoca i ricordi che non vorrei richiamare, suggerisce i pensieri che non vorrei mi appartenessero, ma che poi finiscono per farlo. Forse anche per mio padre era... è così. Per questo tiene sempre la televisione accesa su quei programmi spazzatura e quelle televendite che nemmeno guarda, per questo ha sempre avuto bisogno di spostarsi, di fuggire da tutte quelle trame che il silenzio tesse senza neanche toccarne i fili.

Papà... Se me l'avessi detto avrei capito. E, se non fossi riuscita a capire, giuro che ci avrei provato. Se mi avessi fatto vedere le foto di mamma, se mi avessi raccontato tutto, ora forse non avrei sprecato metà della mia vita a covare astio e rancore per la persona sbagliata, l'unica che, anche se a modo suo, alla fine è rimasta. Eppure, nonostante tutto, tu sei sempre rimasto in silenzio. Mi hai costretta a temere lo stesso boia che bramava solo il tuo collo. Mi hai condannata. Non puoi lasciare che ora la mia testa rotoli via da sola, non puoi abbandonare adesso questo palco di marionettr tormentate, tagliare i fili e lasciarmi appesa alle dita della paura, non ora. Non dopo tutto questo. Non da sola.

"Signorina..."

"Ho capito, sto uscendo."

Finalmente mi volto, abbandonando la vista di quel paesaggio desolato che è ora mio padre per fissare lo sguardo sugli occhi stanchi ma vitali dell'infermiere. Un'antitesi un po' crudele.

"Quando si sveglierà?" mi ritrovo a chiedergli, la stessa domanda che ogni giorno ripeto e che ogni giorno si fa più pesante.

Lo vedo tentennare, l'espressione impaziente improvvisamente farsi compassionevole, intenerita, una cascata di miele indesiderato. "Non possiamo saperlo. Però è stabile, e questo è rassicurante."

Annuisco, troppo stanca per contestare il suo sottile ed evanescente ottimismo, ma nemmeno rassicurata dalle sue parole. Tutto ciò che voglio al momento è aprire uno di quei vasetti di yogurt di Will e mettere a tacere i crampi della fame che mi stanno tormentando da tutto il giorno, l'unica cosa, credo, che posso davvero riuscire a sopprimere.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Jul 12, 2018 ⏰

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