Capitolo sesto. (a)

597 71 6
                                    

-prima parte-


Credevo che quell'abbraccio rinvigorente sarebbe durato giusto un paio di minuti, e in effetti era stato così. Più o meno. Alla fine però Jimin era ritornato a mettersi comodo sul divano e, stendendosi quasi completamente, mi aveva trascinato con lui.

Sono passati alcuni minuti da quella stretta e ora mi ritrovo con la testa poggiata sul suo torace mentre lui mi circonda il collo con un braccio. Io ricambio il gesto avvolgendogli i fianchi con entrambe le braccia.
Jimin acciuffa da sopra il tavolino una confezione di orsetti gommosi. Voglio quelli rossi! Si rimette comodo e, dopo aver aperto la busta di plastica, mi avvicina una caramella alle labbra. Non riesco a vederne il colore ma apro comunque la bocca per accoglierla. Mh buona, è alla fragola!
Mentre sono avvinghiato a Jimin e cerco di capire i passaggi di una delle ultime scene del film, mi ritrovo a fissare i contorni dell'enorme schermo al plasma di fronte a noi. Quel mostro di televisore è di ottanta pollici, cioè quasi un metro e ottanta di larghezza per più di un metro d'altezza. Se messa in diagonale è addirittura più alta di me e, giusto per fare un confronto, io rasento il metro e ottanta.
Penso a tutto quel che ho ma di cui, a volte, farei volentieri a meno. Perché alla fine cosa potrebbe mai farsene un ragazzo come me di un televisore del genere? Io che quella tv l'accendo solo una volta al mese, massimo due, per guardare qualcosa insieme a Jimin durante le nostre serate.
Mio padre crede che basti. E' fermamente convinto che tutto questo mi renda felice. Certo... come se questa grossa tivù -con decine e decine di pollici- la bellissima casa in cui vivo, il pianoforte a coda costato chissà quanto e tutti i soldi che lui mi accredita mensilmente sul mio conto bancario possano in qualche modo sostituire l'affetto che né lui o sua moglie mi hanno mai dato per diciotto anni.
Inizialmente era stato quasi bello vivere con quella famiglia. Papà che ritornava stanco dal lavoro ma che mi rivolgeva comunque un sorriso, prima di sparire nel suo studio; la mamma che cercava di farmi mangiare le verdure che puntualmente finivano per essere sparpagliate sul pavimento creando un disastro. Disastro che ripuliva lei stessa pazientemente e poi c'era mio fratello maggiore che mi trascinava in camera sua e mi faceva giocare con i suoi videogiochi.
Con il tempo però qualcosa era cambiato quando, prendendo io consapevolezza di quel che avrei voluto essere da grande –col senno di poi, di certo, come nessuno di loro- avevo cominciato a trasgredire qualche piccola regola. Poi un giorno avevo smesso di essere la loro bambolina e allora avevano cominciato a detestarmi, per poi ignorarmi e basta.
Non ero mai andato a genio ai miei genitori, o forse non mi avevano semplicemente mai voluto. In fin dei conti avevano già lui: mio fratello, il bambino prodigio. Il ragazzino che a soli sette anni sapeva già suonare il violino e il pianoforte. L'adolescente che al primo anno delle scuole medie, mentre i suoi coetanei si divertivano a combinare ragazzate e facevano fatica a star seduti durante le ore di lezione, aveva ricevuto la sua prima borsa di studio –la prima, sì, perché dopo di quella ne erano arrivate altre. Non che se ne facesse qualcosa dei soldi, visti tutti quelli che già possedeva la nostra famiglia. E infine l'uomo che, appena finita l'università con due anni d'anticipo, era entrato nella società di nostro padre guadagnandosi la nomina di figlio e uomo esemplare e oscurando completamente e definitivamente quel po' che rimaneva del suo fratellino Jeongguk.
La sua vita era stata perfetta, o almeno così lo era sembrata vista dagli occhi di un ragazzino che non aveva niente. Invece a me era stato imposto di andare a vivere da solo in un'altra città a soli dodici anni e mi era toccato frequentare la scuola statale –non che la cosa non mi andasse bene, anzi, non sarei mai e poi mai entrato in un qualche prestigioso istituto maschile per ritrovarmi tante copie del mio fratello perfetto. Il pianoforte poi avevo imparato a suonarlo da solo. Beh certo, non ero ovviamente 'la reincarnazione di Wolfgang Amadeus Mozart'–non lo era neanche mio fratello in realtà ma così era stato definito da nostra madre, donna piuttosto presuntuosa- ma almeno potevo dire di aver fatto tutto da solo.
Mio fratello ha sprecato la sua vita a cercare di compiacere i nostri genitori. Adesso però è felice di quel che si è costruito? La sera può andare a letto tranquillo con la convinzione di essere diventato l'uomo che voleva essere da bambino? Ama davvero la donna che i nostri genitori hanno scelto per lui? Io credo di no.
Dovrei chiamarlo hyung eppure non ci riesco, nella mia testa una persona del genere, un ragazzo che è felice di rubare l'affetto dei genitori al suo fratellino minore, non può essere considerata tale. Uno hyung si prende cura di te, ti difende, ti fa ridere e ti compra le tue caramelle preferite solo per farti felice.
Ci penso tanto e arrivo alla conclusione che solo Jimin riesce a fare queste cose tutti i giorni da quando ci conosciamo, non pretendendo mai nulla in cambio, pur non essendoci tra noi nessun legame di sangue; mentre mio fratello, pur essendo figli dello stesso uomo e della stessa donna, non è mai riuscito a fare solo una di queste cose.
Io ho fatto delle scelte diverse da quelle di mio fratello. Io, diversamente da lui, ho avuto il coraggio di ribellarmi e decidere con la mia testa. Decisioni giuste e sbagliate, non importa, dal momento che nessuno mi ha condizionato riempiendomi la testa con ideali non miei. E se queste scelte mi hanno portato ad essere sbattuto fuori di casa, fuori dalla città nella quale sono nato, e di conseguenza a incontrare Jimin qui a Seoul, allora ve bene così.
Probabilmente non lo ammetterò mai ad alta voce ma sono fiero di me. Sono fiero di aver retto a tutto l'enorme casino che è stata la mia vita fino ad ora, sebbene abbia avuto un piccolo aiuto e sostegno morale da parte di Jimin.
La mia lunghissima scia di pensieri riguardanti un disastroso passato viene interrotta dalla voce di Jimin che chiama il mio nome. Alzo piano gli occhi verso di lui e noto che è concentrato sul film. Sospira e successivamente porta tutta la sua attenzione su di me guardandomi dall'alto.
"Come va con tuo padre?" Pone quella domanda come se mi avesse letto nel pensiero e io riabbasso lo sguardo.
"Come al solito." Rimango sul vago cercando di far cadere la conversazione ma qui si parla di Jimin e quindi no, non lascerà perdere.
"Da quando non lo senti?"
E chi se lo ricorda... "Credo da un anno e mezzo- no, forse sono due."
"Non ti manca?"
Per un attimo penso di aver capito male, poi però realizzo. Scatto immediatamente mettendomi seduto e allontanandomi un po' da lui.
Starei per tutta la giornata su un cavalcavia, aspettando di veder passare un camion per poi buttarmi giù e farmi investire, piuttosto che sentire la mancanza di mio padre. E pensando questo non sto reprimendo i miei sentimenti, non sto cercando di nascondere il fatto che mi manchi lui, sua moglie e suo figlio. Semplicemente perché quel sentimento è totalmente assente. A quelle persone mi lega solamente lo stesso sangue e uno stupido documento che attesta che io, legalmente, faccio parte di quella famiglia. Loro sono biologicamente mio padre, mia madre e mio fratello ma no, non riesco a considerarli la mia famiglia.
"Che ho detto?!" esclama Jimin fingendo di non comprendere la mia reazione.
Sa bene cos'ha detto, proprio come sa che non mi piace parlare di queste cose. Sa e capisce meglio di chiunque altro quel che provo e ciò che ho dovuto affrontare. Ogni tanto però tira in ballo la conversazione cercando di convincermi a fare qualcosa, che sia fare una telefonata di quindici secondi o, nel periodo delle feste, spedire una stupida cartolina. Per Jimin i legami con la famiglia sono importanti, ma gli ideali inculcatigli dalla sua di famiglia non si avvicinano nemmeno lontanamente a quelli imposti dalla mia.
"Hyung" faccio per replicare ma tutto quel che faccio è passarmi le dita tra i capelli e spettinarli furiosamente, prima di puntare di nuovo il mio sguardo nel suo.
"Credo che dovreste fare una bella chiacchierata."
"Ti ho detto mille volte che non mi piace parlarne."
"Sul serio" mi dice inarcando le sopracciglia "dovresti farlo venire qui e fargli vedere come te la stai cavando" conclude e io quasi sento l'aria venire a mancarmi ricordando il motivo per cui sono stato spedito a Seoul sei anni fa.

Save me {jikook}Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora