"Coglione!"
Mi urla contro il conducente dell'auto che, un attimo dopo essergli sbucato davanti e avergli tagliato la strada, mi aveva quasi investito. Aveva frenato appena in tempo, anche se avevo comunque sbattuto contro la carrozzeria ritrovandomi quasi sul suo cofano.
Se non fossi stato così di fretta da correre via senza nemmeno scusarmi, probabilmente gli avrei dato ragione, anzi, sicuramente gliel'avrei data. Ero un coglione, non c'era ombra di dubbio ormai. Lo sapevo io, lo sapeva quel tizio e lo sapeva pure Jungkook.
Ricordo ancora in modo nitido quando, due anni dopo il nostro primo incontro al parco, quando eravamo ormai diventati inseparabili, Jungkook mi aveva chiamato al cellulare nel cuore della notte svegliandomi. Quella volta avevo accettato la chiamata ancora mezzo addormentato, ma ero scattato in piedi appena l'avevo sentito piangere dall'altro capo della linea e pregarmi di raggiungerlo. Così, con ancora indosso il pigiama, avevo infilato una felpa e le scarpe da ginnastica e, inforcando la mia bicicletta, avevo pedalato fino a casa sua alle tre del mattino.
Una volta giunto a destinazione, avevo suonato il campanello almeno tre volte ma nessuno era arrivato ad aprirmi la porta. Perciò alla fine mi ero deciso a recuperare la chiave da sotto il tappeto -era stato lui a confidarmi di aver nascosto lì una copia delle chiavi di casa- ed entrare. L'avevo ritrovato rannicchiato sotto una coperta su uno dei divani in soggiorno a piangere in silenzio.
Dopo un po' di titubanza mi aveva raccontato dei suoi attacchi di panico e io gli avevo proposto di lasciarmi la sua copia delle chiavi di casa, di modo che se fosse successo di nuovo, io sarei potuto entrare ed essere subito accanto a lui. Quella volta ero rimasto con Jungkook fino al mattino e durante la notte eravamo stati svegli a parlare e tenerci compagnia a vicenda.
Quell'episodio si era ripetuto solo un paio di volte dopo quella prima. Adesso però, ripensandoci, credo che sia successo ancora, ma che lui non mi abbia più chiamato per non spaventarmi o farmi preoccupare ulteriormente.
Svolto a un incrocio procurandomi una storta -Te lo meriti!- ma continuo a correre ignorando la fitta alla caviglia e mentre avanzo non faccio che pensare e ripensare a quel maledetto giorno e a quelle mie stupide e vergognose azioni. Che cavolo mi aveva detto il cervello quel giorno? Perché l'avevo fatto? Pensavo che sarebbe stata una buona idea trascinarlo nella sua camera, inchiodarlo al letto e costringerlo a star fermo? Poi, come se non bastasse, me n'ero andato lasciandolo da solo e palesemente in stato di shock.
E per le tre settimane successive, fino ad oggi, avevo accampato solo una marea di scuse cercando inutilmente di giustificare il mio comportamento: quel giorno ero andato via, ma l'avevo fatto solo perché avevo capito di averla fatta grossa. Avevo visto Jungkook arrabbiato come poche volte durante tutti questi anni passati insieme, così avevo preferito andare via per lasciarlo sbollire. Non pensavo che non avrei più trovato il coraggio di ritornare da lui. Non pensavo che non avrei trovato il coraggio per fargli anche solo una misera telefonata o inviargli un sms. Ma soprattutto non pensavo che sarebbe stato lui stesso a non cercarmi.
Che stupido... Che stronzo... Che gran coglione che sono stato!
In quel momento non l'avevo ascoltato, avevo deliberatamente ignorato le sue suppliche. E per cosa alla fine? L'avevo solo spaventato, reso furioso e... l'avevo fatto piangere. Non come quando lo guardavo di nascosto e riscoprivo il suo sguardo spento, a fissare il vuoto, e gli occhi umidi. Occhi che, appena incontravano di nuovo i miei, ritornavano ad animarsi e risplendere di quello scintillio particolare e unico.
L'avevo fatto apparire debole, l'avevo reso debole. E lui non era così, non lo era mai stato in realtà. Non lo era stato nemmeno il giorno in cui ci eravamo conosciuti in quel parco, nonostante si fosse fatto trovare in lacrime, solo e spaventato.
Jeongguk piangeva silenziosamente mentre continuava ad arrancare per le strade di Seoul. Si era perso e adesso non sapeva più che cosa fare. Lo sapeva, sarebbe dovuto restarsene a casa a mangiare patatine e giocare ai videogiochi anziché mettersi in spalla il suo zaino, quasi più grande di lui, e andarsene a spasso per la capitale senza riconoscere nemmeno uno stralcio di via.
Ed ecco che, dopo almeno tre ore e mezzo di camminata, il piccolo Jeongguk si era ritrovato a vagare da solo e spaventato per quell'enorme parco che, se non fosse stato per quell'orrenda situazione, avrebbe sicuramente trovato un posto adatto per passare lì i pomeriggi a giocare con degli ipotetici amici. Fatto sta che però alla fine, stanco di procedere a caso, si era fermato ai piedi di una collina non sapendo più dove andare o cos'altro fare.
Il sole intanto stava tramontando tingendo tutto intorno a lui con sfumature rosse e arancio, facendo sembrare il paesaggio vittima di un incendio, ma al ragazzino non importava granché del panorama, voleva solo ritornarsene a casa e stare da solo.
Jeongguk aveva tentato in ogni modo di darsi un contegno e mantenere la calma, eppure alla fine aveva cominciato a singhiozzare forte, fregandosene delle persone che avevano preso a spiarlo di sottecchi, mentre le lacrime scendevano copiose sul suo viso e la manica lunga della felpa non faceva altro che asciugarle.
"Va tutto bene?" gli aveva chiesto poi improvvisamente qualcuno e per poco Jeongguk non era saltato in aria per lo spavento. Era troppo concentrato a disperarsi per accorgersi di tutto quel che c'era intorno a lui.
Il piccolo si era asciugato di nuovo le guance arrossate con quella manica ormai umida e, cercando di dare un freno a tutti quei singhiozzi, si era concentrato sul ragazzino di fronte a lui. L'aveva studiato attentamente: era un po' più alto di lui, sicuramente anche di qualche anno più grande, un casco di capelli nerissimi, un sorriso luminoso e un'espressione amichevole.
"Perché stai piangendo?"
"Mi sono perso" aveva confessato Jeongguk, aspettandosi di essere preso in giro da un momento all'altro e invece non era successo.
"Sei con qualcuno?" gli aveva semplicemente chiesto.
Jeongguk aveva scosso la testa e poi gli aveva porto il pezzo di carta che, per tutto quel tempo, aveva continuato imperterrito a stringersi nella mano sinistra.
"Abiti qui?" gli aveva domandato ancora l'altro indicando l'indirizzo scarabocchiato sul pezzo di carta. Jeongguk aveva annuito nuovamente e quello sconosciuto, in un gesto del tutto naturale, l'aveva acciuffato per un polso e gli aveva sorriso calorosamente. "So dov'è. Vieni, ti accompagno" gli aveva detto quel ragazzino poco più grande di lui e Jeongguk, vedendo il bel sorriso che quello sconosciuto gli aveva rivolto, si era sentito felice e grato di essere arrivato fino a quel parco.
"Come ti chiami?" gli aveva chiesto poi Jeongguk, prima di lasciarsi trascinare.
"Oh, scusa. Non mi sono nemmeno presentato, che maleducato che sono." Il maggiore si era dato un colpetto sulla fronte e, dandosi mentalmente dello stupido, aveva perso il suo sorriso per poi rimetterlo su un attimo dopo. "Mi chiamo Park Jimin" si era presentato a Jeongguk e nel farlo non aveva mai lasciato la presa sul suo polso.
"Io Jeon... Jungkook."
"Allora andiamo, Jungkookie."
E il piccolo alla fine si era fidato di quello hyung e l'aveva seguito, smettendo di diffidare di lui. Col senno di poi avrebbe ringraziato suo padre di averlo mandato via di casa anche se, in quel momento, ancora non sapeva che Park Jimin sarebbe presto diventato la sua ancora di salvezza.
Jeon Jungkook era indubbiamente la persona più forte che avessi mai conosciuto. Sembrava un po' come gli adolescenti nei film, come i protagonisti di quelle serie tv thriller, un po' macabre per certi versi. Era strano pensare qualcosa del genere ma Jungkook aveva il classico aspetto del ragazzo aspirante suicida. I capelli un po' spettinati, l'accenno di occhiaie, lo sguardo proiettato altrove per la maggior parte delle volte, il tutto accompagnato però da un meraviglioso sorriso. Quel sorriso luminoso e sincero che avrebbe fatto invidia all'universo. E io ero l'unica persona al quale lo riservava. Un privilegio, senza ombra di dubbio.
Avevo impiegato molto tempo per guadagnarmi la sua fiducia. C'erano voluti due anni per far sì che si fidasse completamente di me e mi desse accesso ai suoi pensieri, alle sue emozioni e al suo passato. Due anni durante i quali Jungkook aveva mantenuto il silenzio e fatto finta che tutta la sua vita fosse magnifica. Come quando, appena conosciuto, avevo notato il cerotto posato sulla sua guancia. Gli avevo chiesto cosa fosse successo, lui aveva accampato una scusa qualunque e io, nell'innocenza dei miei quattordici anni, c'avevo quasi creduto... Quasi, infatti.
In quello stesso giorno del loro primo incontro al parco, Jungkook e Jimin si erano scambiati i numeri di cellulare e così il pomeriggio successivo si erano incontrati per fare una passeggiata e conoscersi un po' meglio. Jimin voleva davvero conoscere quello che, sperava con tutto se stesso, sarebbe diventato suo amico e lo stesso valeva per Jungkook, anche se probabilmente non l'avrebbe mai ammesso.
"Come ti sei fatto male?" aveva chiesto improvvisamente il maggiore a Jungkook mentre camminavano fianco a fianco nel più completo silenzio, i rumori della capitale a fare da sottofondo. Era da un po' ormai che nessuno dei due parlava.
"Eh?" aveva esclamato Jungkook, colto di sorpresa, non capendo inizialmente a cosa fosse dovuta la domanda del maggiore, il quale aveva poi indicato il cerotto sulla sua guancia sinistra. "Ah, questo... " Il suo sguardo si era immediatamente abbassato in direzione delle sue scarpe da ginnastica. "Sono caduto" aveva infine mentito.
Jimin di certo non poteva conoscere la verità, ma aveva comunque avvertito qualcosa di strano nella voce dell'altro mentre questi gli aveva rivelato la causa della sua disattenzione. Jimin avrebbe voluto fare altre domande, avrebbe voluto chiedere la vera natura di quella ferita ma non l'aveva fatto, decidendo di rimanere in silenzio. Dopotutto non erano affari suoi. Jungkook però l'aveva incuriosito parecchio e forse, con un po' di fortuna e un pizzico di audacia, sarebbe riuscito ad avvicinarsi a lui, guadagnarsi la sua fiducia e diventare suo amico.
E Jungkook, dopo lunghissimi mesi passati nel più totale silenzio, la verità me l'aveva finalmente rivelata. Cruda, triste. Dolorosa per me, e ancor più per lui. Era stato spaventoso venire a conoscenza del suo passato. Jungkook aveva pianto e, con lui, anche il mio cuore l'aveva fatto.
Alla fine Jungkook gliel'aveva raccontata la verità riguardante quella ferita sulla sua guancia; ferita che, dopo due anni dalla sua comparsa, era diventata una piccola cicatrice. Quella notte, l'allora quattordicenne Jungkook, tra le urla e le lacrime, gli aveva urlato il suo passato. Gli aveva raccontato tutto: della sua famiglia, di Min Yoongi e del motivo per cui era stato allontanato da tutto e da tutti.
"E' stato quello stronzo!" aveva urlato all'improvviso Jungkook, dopo essersi trattenuto per tutta la serata, e aveva afferrato la tovaglia decorativa posata sul tavolo del soggiorno. L'aveva poi tirata via con violenza facendo finire in mille pezzi il centrotavola di cristallo. "Sai cos'ha fatto?! Mi ha colpito, ha inscatolato tutta la mia roba e mi ha spedito in questa città di merda!"
"Ju-" aveva provato a chiamarlo Jimin, ma Jungkook aveva continuato a inveire contro suo padre e ciò che gli aveva fatto.
"Hyung, oddio, quanto lo odio!" aveva detto il minore a denti stretti accovacciandosi su se stesso e coprendosi il volto con entrambe le mani. "Tutti quanti! Li odio tutti!"
"Kookie, ti prego, calmati-" Ma ancora una volta non l'aveva lasciato finire.
Jungkook si era velocemente rimesso in piedi e scoprendosi il viso aveva puntato i suoi occhi, ormai pieni di lacrime, in quelli di Jimin. "No! Non posso calmarmi!" gli aveva urlato in faccia, come se fosse Jimin la causa di tutti i suoi guai. "Mi hanno abbandonato, tutti loro, senza nemmeno chiedersi come io potessi sentirmi" aveva poi continuato Jungkook, non nascondendo più le sue lacrime e la sua sofferenza. "L'hanno fatto quando avevo più bisogno di loro... e tu farai la stessa cosa!"
Si era poi avvicinato a Jimin, arrabbiato più con se stesso che con qualcuno in particolare, e gli aveva urlato contro di nuovo quell'ultima frase da lui pronunciata prima di dargli uno spintone.
Quella notte Jungkook era stato sincero, aspettandosi di vedere Jimin scappare via spaventato da lui e dall'enorme casino che era la sua vita. L'aveva trattato male, aveva tentato di allontanare quell'unica persona che aveva cercato di sostenerlo in tutta quella situazione e non l'avrebbe di certo biasimato se anche lui avesse saggiamente scelto di andarsene. Eppure tutto quello che Jimin aveva fatto, dopo aver visto Jungkook sull'orlo di una crisi di nervi, era stato avvicinarsi a lui e abbracciarlo.
"Io non sono loro, Jungkook. Io non ti lascio" gli aveva semplicemente detto Jimin mentre aveva cominciato ad accarezzargli la schiena.
E Jungkook, che faticosamente era riuscito a ricacciare indietro le lacrime, era scoppiato nuovamente a piangere tra le braccia di Jimin. Aveva stretto la sua maglietta tra le mani, non riuscendo a fermare i singhiozzi, e Jimin era rimasto accanto a lui.
'Io non ti lascio' gli avevo detto quel giorno. Gli avevo promesso che mai l'avrei lasciato sprofondare e poi... alla fine ero stato proprio io a spingerlo sempre più giù. Ed era questo ciò che mi faceva incazzare: il fatto che lui, in qualche modo, me l'avesse lasciato fare. Come quel detto che dice 'gli dai un dito e si prende tutto il braccio'. Mai che Jungkook mi avesse negato qualcosa, mai che mi avesse detto 'no, hyung, adesso facciamo a modo mio'. Mai. Il suo era un continuo 'sì', 'va bene', 'facciamo quello che vuoi tu'. Lui era sempre stato accondiscendente e forse io, inconsciamente, ne avevo approfittato. Mi ero quasi sentito in diritto di adottare un certo atteggiamento.
Perché si comportava in quel modo con me? Semplice: perché era buono, altruista. Perché avrebbe dato la vita per le persone a lui care. Perché Jeon Jungkook aveva capito tutto della vita a soli dodici anni, mentre Park Jimin continuava imperterrito a sguazzare nell'immaturità nonostante i suoi vent'anni. Quel giorno, dopo aver fatto... ciò che avevo fatto... ero ritornato a casa mia e, solo dopo aver fatto la doccia e cenato, avevo realizzato di aver commesso il più grande errore della mia vita, di aver compiuto il gesto peggiore che potessi mai compiere. Ero stato un miserabile, un immaturo, mi ero comportato come uno sciocco e adesso ne stavo pagando le conseguenze.
Sento il cuore battere forte, in modo quasi innaturale. Le gambe mi bruciano da morire e sono convinto di poter avere un infarto da un momento all'altro quando finalmente, svoltando per l'ennesima volta, arrivo davanti casa sua.
Jungkook.
Annaspo cercando di riprendere fiato e far ritornare il mio respiro regolare. Sono piegato su me stesso con le mani appoggiate sulle ginocchia, i miei polmoni reclamano ossigeno, quando sento una voce attirare la mia attenzione.
"Il tuo nome è Jimin, giusto?" E' una voce femminile a pormi quella domanda. Mi volto nella direzione da cui l'ho sentita provenire e ritrovo una donna davanti la porta di casa di Jungkook. Mi osserva e io la riconosco: è la signora Kim, la donna che abita nella villetta qui di fianco. Mi avvicino a lei.
"Sì. Perché è qui? E' successo qualcosa?" chiedo allarmato accorgendomi solo ora della musica assordante che proviene dall'interno dell'abitazione.
"Speravo potessi dirmelo tu." Alza le spalle con aria mortificata. "E' da almeno mezz'ora che la musica è così alta. Ho sentito dei rumori strani per un po' ma sono almeno cinque o dieci minuti che non sento più nulla se non questa musica." Ascolto attentamente le sue parole e quando sto per risponderle, lei riprende a parlare. "Mi sono preoccupata, così sono venuta a suonare il campanello ma di Jungkook nessuna traccia. Mi chiedo se non sia il caso di chiamare la polizia."
"Sta solo passando un brutto periodo, è un adolescente dopotutto" spiego con calma apparente, un sentimento che in questo momento non mi appartiene proprio ma mi sforzo comunque di rimanere rilassato davanti a lei. "Può andare a casa, ci penso io."
Rimane ferma sul suo posto, probabilmente poco convinta, ma alla fine sospira arresa.
"D'accordo." Fa per andarsene ma ritorna a guardarmi. "Ehm... Jimin?"
Le faccio un cenno per invitarla a continuare.
"Jimin, Jungkook è un ragazzo... particolare, ma probabilmente tu lo sai meglio di me. L'ho visto arrivare qui sei anni fa e durante tutto questo tempo, anche se da lontano, l'ho visto crescere, così come ho visto crescere te insieme a lui. Non so bene cosa stia succedendo a Jungkook e tra voi ma..." fa una pausa e posa una mano sulla mia spalla, "non lasciare che questa cosa, qualunque essa sia, vi allontani."
Annuisco mentre cerco di tenere a bada il nodo formatosi in gola.
Solo quando vedo la signora Kim rientrare in casa sua, mi decido a fare qualcosa. Controllo sotto il tappeto e anche intorno ai vasi di fiori nei dintorni sperando di trovare la chiave dell'ingresso, ma ovviamente non trovo niente di niente. Mi ritrovo così a vagare intorno all'abitazione sperando di scorgere una finestra aperta e ancora una volta niente. E' tutto chiuso ma io devo trovare un modo per entrare.
L'idea che fa capolino nella mia testa poco dopo è quella che mi permette di entrare finalmente in casa. La metto immediatamente in atto rompendo il vetro della finestra, situata appena sopra il lavello, e scivolo all'interno procurandomi solo un taglietto sulla mano. Irrilevante.
La prima cosa che faccio una volta messo piede dentro casa è guardarmi attorno. Rimango sconcertato nel ritrovare il soggiorno, solo tre settimane prima lindo e ordinato, nel caos più totale. Il disastro che mi si presenta dinnanzi non sembra essere la causa della rabbia di una sola persona, più che altro pare essere il risultato di un party pieno di droga e fiumi di alcol finito irrimediabilmente in tragedia. Eppure conosco il proprietario di questa casa, per questo so per certo che a dar vita a questo caos è stato proprio lui. Migliaia di cocci di vetro e porcellana ad adornare il pavimento chiaro, mobili non più nella loro originale posizione, l'enorme schermo del televisore spaccato. E, Dio, che puzza di alcol. Sembra sul serio di stare ad una di quelle feste organizzate di nascosto nei college americani. E questo scenario potrebbe benissimo sembrare il luogo dove si è appena consumata la festa migliore e distruttiva di sempre, tutta Seoul in questo soggiorno. La musica poi, è così assordante e fastidiosa che quasi non riesco nemmeno a seguire la scia dei miei pensieri.
Avanzo verso lo stereo non vedendo l'ora di raggiungerlo per far cessare questa musica infernale, ma nel farlo calpesto qualcosa dalla consistenza gessosa. Sembra proprio del gesso, più che altro spero che lo sia perché so cos'altro potrebbe avere questa stessa consistenza e, no, non voglio nemmeno pensarci. Ma l'istante dopo la mia attenzione viene attira da un barattolo arancio vuoto e senza tappo poco lontano da me. Lo recupero dal pavimento e prima di concentrarmi su quell'oggetto, spengo finalmente lo stereo.
Rimango per un attimo immobile avvolto in quel silenzio surreale pensando addirittura di essere diventato improvvisamente sordo ma mi riprendo abbastanza in fretta scuotendo la testa e concentrandomi sul barattolo che tengo ancora in mano: sono sonniferi. Aspetta... Sonniferi? Perché Jungkook dovrebbe avere questa roba in casa e dove l'ha tenuta nascosta per tutto questo tempo? E soprattutto: perché io non ne ho mai saputo niente?
La realtà dei fatti si fa strada attraverso tutti quegli indizi, nello stesso momento in cui il mio sguardo si posa sui vetri di quella che doveva essere una bottiglia. Poco lontano anche un cellulare, che riconosco immediatamente come quello di Jungkook, è ridotto a un mucchietto informe di plastica e vetro.
La realizzazione mi riscuote dall'interno come non riuscirebbe a fare nemmeno una doccia gelata in pieno inverno. Mi viene da vomitare e sento quasi risalire ciò che ho mangiato e bevuto al bar. Il brutto presentimento avvertito venendo qui s'incrementa ancora di più, si attanaglia alla bocca dello stomaco e stringe. Le tempie pulsano e il cuore sembra volermi uscire dal petto.
Jungkook è qui, in questa casa, devo solo trovarlo.
Poi è un attimo e do il via ad una folle ricerca lasciando ricadere il barattolo sul pavimento.
Urlo il nome di Jungkook ma nessuno risponde ai miei richiami, l'unico rumore da me percepibile all'interno dell'abitazione sono i miei passi veloci e il respiro pesante e irregolare.
Mi muovo attraverso l'ambiente per inerzia, sembrando quasi un automa. Questa casa, che avevo da sempre trovato bellissima e accogliente, adesso mi sembra solo spaventosa e troppo grande. Troppe stanze da controllare, troppo spazio da percorrere in troppo poco tempo. Ho paura, una paura indescrivibile di quello che potrei scoprire eppure non riesco a fermarmi. Probabilmente, fosse stato per me, sarei rimasto calmo a pensare ma adesso l'unica cosa che non riesco a fare è proprio pensare, o meglio, pensare in modo lucido. In realtà una marea di pensieri mi stanno inondando la testa in questo momento, dai più ottimisti ai più orrendi e malsani.
Attraverso il corridoio correndo. Un vaso è il frantumi e un paio di quadri sembrano essere stati tirati giù dalle pareti. Apro tutte le porte cercando di fare il più velocemente possibile, continuando a chiamare il suo nome, urlandolo. Quasi non mi rendo nemmeno conto di starmi muovendo, sembra che il mio corpo sappia cosa fare ancor prima che il mio cervello glielo ordini. Qualcosa più forte di me mi spinge ad avanzare velocemente, qualcosa nella mia testa m'impone di sbrigarmi.
Dio, ti prego, fa' che stia bene. Non voglio nient'altro. Ora come ora nella precaria situazione in cui ci troviamo preferirei, che so, vederlo spassarsela a letto con qualcuno che non sono io, piuttosto che trovarlo... in qualche altro contesto. Perché è questo che mi spaventa di più: arrivare tardi.
Mi ritrovo a formulare una sorta di preghiera rivolta non so nemmeno io a chi, mentre raggiungo la sua camera da letto, l'ultima stanza rimasta, e quando mi ritrovo dinnanzi a quella porta, la riscopro scardinata. Entro posando i miei occhi ovunque ma Jungkook non c'è. Sto per infilarmi le mani tra i capelli, disperato e al limite della sopportazione, e accade in quell'esatto momento che improvvisamente sento uno scroscio d'acqua provenire dal bagno. Così non ci penso due volte a fiondarmi contro la porta, ma aprirla risulta impossibile dal momento che è bloccata dall'interno.
L'ho trovato.
"Jungkook!" urlo ancora colpendo la porta ma dall'altra parte solo il silenzio. La mia gola chiede pietà ma io continuo a gridare, mentre le suole delle mie scarpe affondano in quelli che sono almeno due centimetri d'acqua.
Con un ultimo calcio finalmente riesco ad aprire la maledetta porta. Il legno si spacca e il chiavistello vola da qualche parte ma non me ne preoccupo, perché la scena che appare ai miei occhi sembra quasi surreale e, per un attimo, spero e prego affinché sia davvero tutto uno scherzo e non l'orrenda realtà.
Jungkook. Non so se ho solo pensato di pronunciare il suo nome, se l'ho sussurrato o addirittura urlato.
E' quasi completamente immerso nella vasca, immobile, gli occhi chiusi, il pelo dell'acqua sfiora le sue labbra dischiuse. E' pallido come non lo è mai stato e il contrasto che la sua pelle chiarissima crea con il colore scuro dei suoi capelli mette quasi paura. Surreale ed etereo.
Kookie.
Io stesso gli avevo detto che ci sarei sempre stato per lui. Gli avevo assicurato che non mi sarei mai comportato come la sua famiglia, come quegli stronzi. Perché lo sono, non trovo altro modo per definirli. Li odio così tanto per ciò che hanno fatto a Jungkook, detesto profondamente ognuno di loro. Ma ora odio me stesso più di quanto riuscirò mai ad odiare quelle persone. Così la domanda di Taehyung ritorna a popolare i miei pensieri. "Ti piace Jeon Jungkook?" E adesso ne sono veramente certo. No, non mi piace. Perché dire che Jungkook è solo una cotta sarebbe troppo riduttivo. La verità è che io lo amo, l'ho solo capito troppo tardi.
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Save me {jikook}
ФанфикA Jeon Jungkook non piacevano i ragazzi. Il solo pensare di poter fare un certo tipo di cose con un uomo gli faceva salire la bile in gola. Allora perché con Jimin questo non succedeva? Perché si sentiva pericolosamente attratto dal suo hyung? ➢ Jun...