Capitolo decimo.

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Sono appena le quattro del pomeriggio quando passo davanti ad un conbini. Lo supero senza prestagli la minima attenzione ma mi fermo all'istante quando un pensiero, il più malsano che io abbia mai avuto nei miei diciotto anni di vita, comincia ad impossessarsi della mia mente.
Non ho più niente da perdere dopotutto... penso. Cosa ci faccio ancora qui?
Così mi tiro su il cappuccio della felpa scura e ritorno indietro entrando nel conbini. La donna alla cassa non mi guarda nemmeno e io mi avvio verso la scaffalatura degli alcolici. Rimango accucciato per qualche secondo prima di afferrare le prime due bottiglie che m'ispirano di più. Ritorno in piedi e osservo attentamente, da sopra gli scaffali, quella che quasi sicuramente è la proprietaria del negozio. La donna è troppo presa dalla chiacchierata piuttosto animata che sta tenendo al cellulare per rendersi conto che un adolescente, proprio sotto il suo naso, sta rubando nel suo negozio e sì, quell'adolescente sono proprio io.
Di certo non è colpa mia se qui, in Corea del Sud, si devono avere almeno diciannove anni per acquistare alcolici legalmente e, beh, io diciannove anni ancora non li ho compiuti.
Sto per svignarmela, quando mi rendo conto che un ragazzo, ad appena un paio di metri da me, mi osserva già da un po'. Ha dei capelli esageratamente biondi e la pelle ambrata crea un'armonia strana che però funziona su di lui. E' immobile, proprio come me. Paralizzato sul suo posto. Lo sguardo guizza sulla proprietaria e ci rimane per qualche istante prima di ritornare su di me. Serra le labbra rivelando una fossetta sulla guancia e annuisce, come a volermi dare il via libera, prima di indicarmi l'ingresso del negozio con un gesto del capo.
Ringrazio mentalmente quel ragazzo, nascondo le due bottiglie sotto la felpa larga e, senza comprare niente, esco come se nulla fosse. Nessuno mi richiama, nessuno esce urlando dal conbini inseguendomi e lì capisco che anche Dio, o chiunque ci sia lassù a farsi i fatti di tutta l'umanità, non vede l'ora di togliersi dai piedi un individuo come me.

◊ ◊ ◊

Scaglio la bottiglia ormai vuota contro la parete di fronte a me. Il vetro trasparente si frantuma finendo in centinaia di schegge sul pavimento e io mi sento esattamente come quella bottiglia: a pezzi. Dovrei sentirmi un po' meglio dopo aver fatto ciò. Mi piace spaccare gli oggetti e, solitamente, è una cosa che riesce a placarmi; eppure adesso non funziona. Tutto questo riesce solo a farmi sentire peggio.
Urlo senza motivo, arrabbiato con tutti e con nessuno, prima di andare ad alzare ancora di più la musica dello stereo. Smetto di girare la manopola del volume quando questa si blocca, facendomi capire di aver raggiunto il limite. Già, credo di averlo raggiunto anche io... penso sorridendo amaramente.
I vetri delle finestre cominciano a vibrare per colpa del volume eccessivamente alto, così come il mio cervello sembra star facendo nel cranio. Chiudo per un attimo gli occhi tentando di abituarmi a quei rumori così forti e assordanti e quando ci riesco, li riapro e mi dirigo verso il bagno della mia stanza. Spalanco la porta della camera da letto con un calcio, scardinandola, e per poco non mi ritorna in faccia dopo aver sbattuto contro la parete. Rimango fuori dalla stanza e da lì fisso il letto ancora sfatto. Sono tre settimane che non riesco più ad avvicinarmici. Non ce la faccio. Non dopo che... non dopo che Jimin... che Jimin ha fatto... beh, sì, insomma... quello. Ed è da esattamente tre settimane che dormo sul divano. Dormire per modo di dire dal momento che riesco a riposare di più a scuola, con la testa poggiata sul banco, piuttosto che a casa. Sul divano mi limito a starci sdraiato durante la notte ad osservare il soffitto.
Entro nel bagno e apro il cassetto sotto il lavandino facendolo scorrere verso di me. Recupero un barattolo di sonniferi e ritorno in soggiorno. Svito il tappo lanciandolo da qualche parte alle mie spalle e poi mi faccio scivolare sul palmo della mano qualche pillola, prima di posare il barattolo di plastica sul tavolo del soggiorno. Afferro la seconda bottiglia e, dopo aver svitato anche questa, lascio che il tappo cada sul pavimento ai miei piedi. Spingo in bocca la manciata di pastiglie e bevo direttamente dalla bottiglia, mandando giù quel liquido come se fosse acqua.
Non ho la più pallida idea di quello che sto facendo ma questo non mi ferma dal continuare. Sento gli occhi cominciare a pizzicare, così come la gola, per colpa dell'alcolico ad alta gradazione ma non mi arrendo, continuando comunque imperterrito a bere quello schifo.
"Io non farò proprio nulla, così come i miei amici o chiunque altro."
La frase di Kim Taehyung mi martella incessantemente nella testa, ripetendosi all'infinito. Mi pulsano le tempie e non so se sia colpa della musica o degli alcolici che mi sto costringendo a mandar giù. Poso la bottiglia poggiandola sul pavimento ai miei piedi e mi prendo la testa fra le mani. Aveva ragione Taehyung: non c'era voluto proprio nessuno per distruggermi... ero bastato io.
Cado in ginocchio e comincio a piangere disperatamente, urlando e singhiozzando. Ho perso tutto. Non che prima avessi chissà cosa -a parte un conto in banca dalla cifra esorbitante ma del quale non me ne facevo nulla- però avevo Jimin e lui era il mio tutto.
Faccio passare le dita tra i capelli e richiudo le mani in due pugni tirandoli, cercando in tutti i modi di non concentrare ogni mio singolo pensiero su Jimin.
Tento di far ritornare il respiro regolare, ma invano. Recupero il cellulare dalla tasca e in preda alle lacrime digito un numero sulla tastiera. Il suo numero. E per quanto io provi ad odiarlo con tutto me stesso per ogni cosa che mi ha fatto, scopro di sapere il suo numero ancora a memoria. Mi porto il cellulare all'orecchio e mentre aspetto che risponda dall'altra parte, inspiro forte. Poi cerco di calmarmi nella snervante attesa.
"Pronto?" Finalmente risponde dopo sette squilli e, sentendo la sua voce, ricomincio a piangere.
"P-papà..." Tiro di nuovo su col naso e riprendo a singhiozzare.
"Che succede?" domanda.
E per un attimo percepisco dell'interesse nel suo tono di voce, o almeno così mi sembra. Forse ha smesso di odiarmi, forse ha deciso che non vale più la pena avercela a morte con un ragazzino appena diciottenne per uno stupido malinteso di tanti anni fa. Forse non tutto è perduto e mi vuole ancora bene almeno un po'.
Magari, se chiederò scusa come si deve e ammetterò di aver sbagliato, potrò ritornare a casa. Perché è così, no? Sono solo io ad aver sbagliato. Potrò riavere la mia stanza -scommetto che l'hanno mantenuta esattamente come l'ho lasciata sei anni fa quando sono andato via- e la mia vecchia vita. E sarò totalmente ubbidiente, mi comporterò bene. Andrò in quella scuola maschile che ha frequentato mio fratello e mi diplomerò con il massimo dei voti. Mi laureerò con anni d'anticipo, entrerò nella società di famiglia e sposerò la donna che loro sceglieranno per me. Rivedrò finalmente mio padre, il mio fratellone e la mamma. E a quel punto Jimin sarà solo un ricordo distante, lontano. Ma a me non importerà più, perché sarò finalmente felice della mia nuova vita. E ogni sua traccia svanirà per sempre, come se non fosse mai esistito e io non l'avessi mai conosciuto.
"H-ho co-mbinato u-un casino" ammetto coprendomi gli occhi con la mano che non regge il cellulare. "S-sono successe de-delle cose e no-n so più c-che cosa fa-"
"Ora non ho tempo." M'interrompe bruscamente e termina la chiamata senza nemmeno lasciarmi finire.
Era Jimin che mi aveva detto di provare a riallacciare i rapporti con lui, almeno in parte... e io ci avevo provato in un ultimo, disperato tentativo. Ma adesso, proprio come tanti anni fa, quell'uomo che io mi ostino ancora a chiamare papà continua a non ascoltarmi. Quale razza di padre con un briciolo di senso genitoriale avrebbe il coraggio d'interrompere la chiamata con il proprio figlio, che non sente al cellulare da due anni e non vede in faccia da sei, quando dall'altra parte tutto ciò che sente è un ragazzino, il suo ragazzino, che piangendo disperatamente chiede il suo aiuto?
E' finita, Jungkook. E' realmente finita.
Rimango immobile a fissare il display del cellulare e le lacrime che abbandonano i miei occhi scivolano sul mio viso, per poi scagliarsi contro lo schermo. Si è quasi oscurato completamente quando ritorna ad illuminarsi. Una chiamata in arrivo: Jimin.
Serro i denti e furioso, costernato e arreso, scaglio il cellulare contro la parete di fronte a me. Lo schermo si spacca e cade tra i cocci della bottiglia lanciata appena qualche minuto prima. Nonostante la mia vista sia offuscata mi rialzo da terra barcollando, mi avvicino al cellulare calpestando i vetri rotti sotto le suole delle scarpe e noto che funziona ancora, così come la chiamata di Jimin è adesso in corso. Dovevo averla per sbaglio accettata quando avevo stretto il cellulare in mano prima di lanciarlo. Prendo l'apparecchio tra i pezzi di vetro per poi gettarlo nuovamente contro il pavimento. Lo calpesto plurime volte prima di calciarlo via. Ora sì che è completamente andato.
In un eccesso d'ira afferro uno sgabello dall'isola della cucina e, dopo averlo sollevato, lo riabbasso violentemente sul tavolino in vetro facendolo finire in frantumi. Mi sento un po' meglio dopo aver distrutto qualcosa ma ancora non basta, così stringo di più la presa sulla seduta prima di lanciarla con tutta la forza che mi rimane contro la tv, distruggendo anche quella. Dopo afferro ogni cosa che riesco a raggiungere e la lancio per terra, per aria e dove capita. Butto giù le lampade e tutti gli oggetti poggiati sui mobili del soggiorno, ribalto le poltrone e prendo a pugni lo specchio all'entrata riducendolo a un cumulo di schegge. E nonostante le mie mani ora siano tagliate e sanguinanti, non me ne curo minimamente.
Sto per allontanarmi dall'ingresso alla ricerca di qualcos'altro da distruggere, quando la mia attenzione viene attirata dal mazzo di chiavi poggiato sul tavolino vicino allo specchio ormai rotto. Lo riconosco all'istante: è di Jimin. L'aveva posato su quel ripiano quando se n'era andato, io ovviamente l'avevo lasciato lì. Non avevo nemmeno avuto il coraggio di far sparire ogni sua traccia.
Quanto sono patetico.
Lascio andare un sospiro lasciando perdere quelle stupide chiavi e raggiungo il pianoforte in fondo al soggiorno ma mi fermo quando realizzo di essere in procinto di dargli un calcio. Almeno questo devo risparmiarlo dalla mia furia distruttiva.

"Suoni il pianoforte?" aveva domandato curioso Jimin quando, entrando in casa di Jungkook per la prima volta, aveva adocchiato lo strumento a coda in fondo al soggiorno.
Jungkook aveva scosso la testa in segno di negazione. "No, ma voglio imparare."
"Sono sicuro che ci riuscirai" gli aveva detto Jimin sorridendo sinceramente e Jungkook, per la prima volta dopo molto tempo, aveva sentito di poter credere di nuovo in se stesso.
Perché i suoi genitori e suo fratello maggiore, coloro che erano la sua famiglia, non l'avevano mai fatto mentre quello sconosciuto sembrava crederci così tanto? Jungkook non era proprio riuscito a darsi una spiegazione logica eppure si era sentito estremamente felice del fatto che ancora qualcuno riuscisse a credere in lui e nelle sue capacità.

Cado su un ginocchio non riuscendo nemmeno più a stare in piedi, mi costringo però ad alzarmi e con fatica alla fine ci riesco. Riprendo la bottiglia da terra e me la trascino appresso. Afferro il barattolo dei sonniferi e mi faccio finire qualche pillola in bocca direttamente dal contenitore, poi prendo un sorso di quel liquido disgustoso. Ripeto quell'azione finché del contenuto della bottiglia non rimane nulla e mi scivola dalle mani, finendo sul lastricato spaccandosi esattamente come la prima. Ne ho abbastanza di tutto questo così lancio il barattolo non ancora completamente vuoto verso la cucina. Mi asciugo le lacrime con le maniche della felpa e tiro su col naso.
Raccogliendo le ultime forze rimastemi, mi trascino verso il bagno della mia camera aggrappandomi a tutto ciò che trovo nel mio percorso. Faccio cadere un vaso nel corridoio e accidentalmente tiro giù un paio di quadri dalla parete.
Quando arrivo a destinazione, giro la chiave nella toppa chiudendomi dentro. Metto il tappo alla vasca da bagno e tiro su la leva rivolgendola verso destra per far arrivare l'acqua fredda. Ancora completamente vestito e con le scarpe allacciate, mi accomodo all'interno allungando le gambe e mettendomi il più comodo possibile. Appoggio il collo contro il marmo gelido della vasca e rabbrividisco.
Spero che il funerale verrà a costargli una fortuna... Formulo questo pensiero rivolgendolo a mio padre e togliendomi poi definitivamente dalla testa il suo ricordo e tutto ciò a lui legato. Adesso quell'uomo non esiste più, esattamente come qualsiasi altra cosa o persona. Mia madre, mio fratello, Taehyung, il quartetto che a scuola si diverte a pestarmi, Hoseok, il ragazzo che non ha fatto la spia al conbini, i signori Kim, Yoongi e anche Jimin. Non esistono più. Così come tra poco non esisterà più nemmeno Jeon Jeongguk. In realtà Jeongguk era morto molto tempo prima, adesso tocca al vero me, o quel che ne rimane.
Sento le palpebre pesanti come macigni e tutto ciò che vorrei fare adesso è chiudere gli occhi e dormire. Inizialmente cerco di resistere ma alla fine, quando capisco che non ho più nessun motivo per continuare a farlo, mi arrendo. Mi sento così inutile, solo e vuoto.
Jimin!
Sono così maledettamente stanco. Non ce la faccio più.
Jimin.
Non ho mai avuto così tanto sonno come in questo momento. Forse è colpa dei pianti o dell'alcol oppure di tutti i sonniferi ingeriti ma sinceramente non m'importa scoprirne l'origine. Ho così sonno. Spero solo che in qualunque luogo finirò, sarà migliore di questo.
Jimin...
Chiudo finalmente gli occhi e mi lascio andare definitivamente. In sottofondo sento la musica, inizialmente alta, che pian piano diventa una melodia lontana, surreale, fino a cessare completamente.

Save me {jikook}Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora