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La mia è una storia come tutte le altre. Simile, se non uguale, a qualunque altra di questo genere perché no, non siamo unici. Non lo saremo mai perché  questo tipo di storia si differisce per pochi dettagli. Può cominciare diversamente, finire diversamente ma tutto ciò che c'è infilato nel mezzo è simile, parole quasi rubate a tutti gli altri. Vissuti così simili da far venire i brividi a chi ascolta, a chi legge, a chi ci sta passando, a chi lo ha vissuto. Questo perché siamo uguali. Noi malati di DCA siamo uguali. Tutti, a prescindere dal nome specifico con il quale hanno etichettato il nostro personale inferno. 

D-C-A.
DCA.
Cosa significa?
Letteralmente significa Disturbo del Comportamento Alimentare.
Fa talmente paura eppure è considerato ancora così futile come importanza da sapere in pochi cosa si cela dietro questo acronimo.
Mia madre mi ha insegnato ad averne paura. Mi ha dato da leggere tanti articoli, abbiamo visto mille documentari, mi ha sempre spiegato e detto che di queste malattie si muore ed io, dall'alto dei miei 10 anni ero convinta che mai ci sarei cascata, che mai mi sarei immischiata in questo incubo che altro non era, ai miei tempi, che un trastullo della società,  una sciocchezza, una leggerezza fatta da ragazze poco intelligenti ed intuitive mentre io lo ero troppo! In fondo facevo già discorsi da adulta, in fondo leggevo libri su libri, in fondo mia madre mi aveva sempre messo in guardia.

Mi ammalai di anoressia nonostante tutti quegli articoli e quei documentari, quelle interviste shock, nonostante tutti i discorsi di mia madre e il mio sentirmi intelligente, troppo per cadere anche io. Mi ci inmischiai in una maniera così rapida e prematura da non saper ripercorrere ogni passo fino al precipizio. Caddi. Questo lo so benissimo e so che avrò paura per tutta la durata della mia esistenza di cadervi ancora.

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Avevo 12 anni, avevo finito la prima media in maniera deprimente ma non per la pagella quanto perché in un anno non ero riuscita a stringere nessun rapporto duraturo. Le mie uniche amiche erano due ma tutto il resto dei compagni, quella classe, quella scuola erano l'incubo. Erano i brutti sogni che iniziavano quando aprivo gli occhi non quando li chiudevo. Ogni qual volta c'era un ponte, una vacanza, un'influenza, un qualsiasi motivo per il quale restavo lontana da quella classe, quelle persone e quella scuola, io rinascevo. La colite nervosa mi passava, l'ansia anche, i mal di testa. Mi ritornava la voglia di essere allegra, di essere una ragazzina di 11 anni. L'apice della felicità la raggiunsi quando, per una lesione al menisco sinistro, dovetti allontanarmi per mesi. Quei mesi furono la rinascita. Come può,  una qualunque persona, specie se un'adolescente, essere felice di essersi infortunata pur di non entrare nella sua classe? Ma vedete, non sarei stata più chiamata culona, cicciona, pesantona, basettona, puzzona, denti gialli, gengivona.
Non sarei stata presa in giro ad educazione fisica, neanche dal professore che, tra uno sghignazzo e l'altro mi suggeriva di non saltare troppo durante il riscaldamento perché avrei potuto aprire un buco nel pavimento. Com'è possibile che oggi, a tanti anni di distanza ,  uno dei miei esercizi cardio preferiti - i Jumping Jacks- allora fosse il mio incubo? Quante volte ho pensato che forse,  se fossi stata magra come tutte le altre, niente sarebbe accaduto. Ma ero la più cicciottella anche tra le mie cugine quindi a casa o a scuola avrei dovuto abituarmi a queste angherie. A quello che si chiama BULLISMO. Invece no. Non mi ci abituai mai.
Fu quindi il periodo più felice di quegli anni, pur fasciata, ingessata e con le stampelle ero felice di non andare a scuola, subire tutte quelle angherie. In quasi sei mesi solo le due mie amiche mi vennero a trovare anche se una sola volta. Nessun gesso pieno di firme e frasi di pronta guarigione. Nessuna telefonata, nessuna visita da parte di una classe affezionata eppure abitavo a due isolati della scuola! Ne ero contenta ma oggi penso con rammarico che non avrebbe dovuto essere così. Che, se mio figlio si facesse male e dovesse restare immobile per un po', vorrei che le persone con le quali passa 6 ore al giorno per 6 giorni per quasi nove mesi, gli fossero vicini. Comunque non andò così per me.
Dicevo, avevo una libertà pazzesca. La mia mente era un fringuello in primavera e questo mi portò a godere del cibo come non riuscivo più a fare. Mangiavo senza pensieri, tanto chi mi avrebbe visto? I succulenti pranzetti di mia madre, le colazioni abbondanti consistenti in crostatine, briochine, wafërs e tutti quei prodotti industriali che non mangio più se non rarissimamente. Bevevo grandi tazze di latte con caffè zuccheratissimo e restavo a tavola molto, ingurgitando tutto ciò che mi capitasse a tiro mentre mamma accompagnava mio fratello a scuola, poi tornava in cucina ed io fingevo di averla aspettata per fare colazione insieme. La fortuna consisteva nel fatto che mia mamma, proprio per la mia obbligata immobilità, non mi permetteva di mangiare dolci e dolcetti, i piatti li faceva lei e non ha mai avuto l'uso dell'eccesso ma delle mie incursioni, poverina, cosa ne sapeva? Per lei, la bella cosa che ci  concedevamo ogni sera dopo cena, la quale  poteva anche consistere in un Lindor , era il tutto. Forse la mia Anoressia è cominciata con una lieve Bulimia. Ma io cosa ne sapevo?  Per me era felicità. Ero serena. Non mangiavo per sfogarmi o per riempire vuoti,  mangiavo perché nessuno mi avrebbe detto nulla.
Nulla poi...
Forse i compagni di classe non mi avrebbero detto niente ma i parenti? Le zie? 
Non facevano altro che ripetermi quanto fossi ingrassata,  quanto fossi grossa e allora le mie guance porpora tornavano, il mio disagio e la mia vergogna anche. Durante i pranzi in famiglia o le cene non toccavo nulla, tornando nella mia bolla serena una volta andati tutti via. Non mi vedevo grossa, nelle mie immaginazioni serali ero bellissima, magrissima, con un fisico portentoso.
La fantasia, l'immaginazione, era il mio posto nel mondo. Da anni, ogni sera, nella mia mente si sviluppavano belle storie. Una vita e una Ilary nuova. Bella,  realizzata, adulta,  che faceva impazzire un uomo dai capelli nerissimi e gli occhi verdissimi, così chiari da potersi specchiare che faceva di mestiere il meccanico. Non sono mai andata lontano, ho sempre voluto l'amore non il mestiere di una persona ed anche nelle mie fantasie questo faceva capolino. Quest'uomo mi amava da impazzire, mi venerava e venerava il mio corpo perfetto e slanciato. Lo accarezzava come fosse un cristallo ed io lasciavo scivolare le dita, soffici come piume, dal mento al collo alle costole, dove mi piace realmente essere accarezzata.  Sono stata amata per anni, in ogni modo possibile, ogni sera, nelle mie fantasie con tutta la potenza di questo mondo.

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Poi il menisco guarì ed io dovetti tornare a scuola.
Sarei tornata con tantissimi kg in più, una paura allucinante e neanche un jeans che mi entrasse.
La domenica precedente al mio lunedì di rientro, quindi l'ultima settimana a casa, mi accorsi del danno perché tutte le paure ritornarono. Immaginai ogni parola, ogni offesa. Comprai nuovi vestiti, larghissimi e nerissimi e ridussi il cibo.
Per la mia famiglia quei tanti kg in più erano dovuti a tutti i mesi di immobilità ma io sapevo che oltre a quello, il motivo erano anche le mie incursioni nei mobili. Mamma di buon grado mi diede aiuto con la dieta. Cibi genuini, legumi, un mestolo di pasta, due di riso, secondi con verdura, frutta e verdura, tanta acqua. Ed io in quella settimana mi impegnai moltissimo. Fiduciosa e terrorizzata ma mi fidavo di mamma. Tornai a scuola con un'ansia così forte che alle dieci soltanto del primo giorno culminò con un attacco di diarrea. Di me non si notò il fatto che un po' ancora zoppicassi, che mi fossi mantenuta in linea con lo studio, che il primo giorno mi feci interrogare in storia ed ebbi anche la sufficienza ma che fossi ingrassata. Tanto. TANTO. TANTO.
Anche il prof di educazione fisica lo notò e non disdegnò mica di dirlo ad alta voce o di non ridermi in faccia? Quante risate, prof!

Ricominciò tutto e peggio di prima. La mia psiche cadeva pezzo per pezzo e nel frattempo il mio piatto si svuotava ed anche i pantaloni. Divenni ossessiva nei confronti del cibo.
Divenni ossessiva nel chiedere alla mia compagna di banco cosa avesse mangiato il giorno prima a partire della colazione e mi inorgoglivo pensando che io avevo mangiato una zucchina bollita senza olio: "però ho assaggiato la pasta, ho preso la forchetta e preso due fili di spaghetti della pentola prima che mamma versasse il sugo che fa ingrassare. Non mi è piaciuta, non la mangerò più."
Ero così fiera di riuscire a non mangiare, di riuscire ad ignorare tutti perché finalmente stavo dimagrendo e sarei stata bellissima.
La prima carezza che mi diede la Signora in nero, scheletrica e alta, appartiene ad una notte quando, alzandomi dal letto, per andare al bagno caddi a terra per un giramento di testa. Palpitazioni, freddo e sudore. Mi sollevai fino al letto a fatica e mi immobilizzai.  Ricordo che stare a letto significava pesare duecento kg, come se diventassi sempre più un peso morto.
Nel giro di qualche mese persi così tanti kg da dover comprare nuovi vestiti e da sentirmi dire anche dal prof di educazione fisica quanto fossi dimagrita e un "brava, brava" che mi inorgoglii.
D'un tratto per i miei compagni non esistevo più, ero qualcosa di strano. Una tizia vestita sempre di nero, con le guance non più rosse ma grigie, con i capelli neri e lunghi lungo le guance. Solitaria, apatica. Senza opinioni. Se pure dicevano qualcosa non saprei dirlo. Quando cadi in questo tunnel non senti, non vedi, non parli. Continui ad esistere ma in  una vita sempre più parallela. Ti trasferisci pian piano in quel limbo ed io ero così felice di seguire la Signora in nero. Ero così felice che m'aiutasse nel mio desiderio più grande. Anche nelle mie fantasie serali le persone mi dicevano quanto fossi magra e bella.
Non facevano altro che ripetere quanto lo fossi. Quanto fossi magra. Magra.
MAGRA.
MAGRA.
In un anno non c'era più Ilary ma un fantasma vestito di nero che la stessa madre incontrandola per strada non riconosceva.

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