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L'inferno non è un luogo ma uno stato d'animo

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L'inferno non è un luogo ma uno stato d'animo

1. Quattro anni


Le orecchie fischiavano, la musica rimbombava nella sua testa come un martello pneumatico mentre veniva spinta da una parte all'altra, tra i corpi sudati di ragazzi troppo agitati e schiamazzanti.
Barbara prese un respiro profondo e strinse i pugni.
Sarebbe voluta fuggire via, scappare dalla sensazione di claustrofobia che le spezzava il fiato, dal  cuore che le batteva incessante nel petto, tanto forte che sembrava stesse per uscire, andarsene chissà dove, anche se poi era così tanto ammaccato che non sarebbe arrivato neppure lontano. Voleva scappare dal mondo che le vorticava attorno, come fosse su una giostra che non si sarebbe fermata, ma non poteva muoversi di lì, era la sua unica speranza e valeva la pena provare.
Infondo non aveva molto da perdere. Non aveva nulla, a dire il vero.

S'era lasciata tutto alla spalle qualche anno prima: gli studi che avrebbe potuto portare avanti brillantemente, la carriera che avrebbe potuto intraprendere, gli obbiettivi che avrebbe potuto raggiungere se solo non avesse deciso di abbracciare una vita che non sentiva poi così sua, a cui s'era abituata perché ormai era lì e basta ed era forse l'unico modo per scappare dai suoi dolori, che sembravano così grandi.

Una vita sbagliata, una vita fatta di guai.
Era piccola, forse troppo stupida ed ingenua. Cercava una via di fuga e aveva trovato una gabbia d'oro, una condanna all'ergastolo.
Sua madre aveva provato ad aiutarla fin troppe volte, le aveva teso la mano per tirarla fuori dalla merda in cui s'era cacciata, quello stesso schifo da cui suo padre l'aveva protetta per anni, spaccandosi la schiena per farla crescere in un ambiente sano, perché non tutti quelli che crescono in un quartiere popolare devono essere gentaccia. La sua famiglia ne era l'esempio concreto. Si facevano gli affari loro, non s'immischiavano in cose che non li riguardavano ma erano gente di lì, li rispettavano, li proteggevano, nessuno dava loro fastidio.
Almeno finché Barbara non aveva iniziato a vivere davvero il suo quartiere, finché non s'è innamorata di quei palazzoni grigi dall'intonaco scrostato, di quelle strade, degli angoli sconosciuti, dei posti segreti.

S'era innamorata di casa sua, del posto da cui avrebbe dovuto desiderare scappare, un posto sbagliato.
Un posto come lei.

"'Sto posto ce rende cattivi. Siamo marci dentro noi, siamo irrecuperabili. Ma tu sei diversa Ba. Tu puoi andartene, diventare qualcuno. Devi farlo per noi, per quelli che in mezzo a 'sti palazzi ce rimarranno incastrati"

Glielo aveva detto Lauro un giorno d'Inverno, che lei aveva lo zaino nero sulle spalle ed il naso rosso per il freddo e si stringeva nel suo giaccone di seconda mano, sperando che lui decidesse di allungare un braccio, stringerla un po' a se, scaldarla con il suo corpo. Non lo fece quel giorno, non lo fece mai.

Doveva andare così, forse.

Lei, che sarebbe dovuta diventare qualcuno, ora aveva speso i suoi ultimi risparmi per andare al concerto di quello che sarebbe dovuto rimanere tra il cemento del loro quartiere ed invece ne era uscito brillantemente, anche se nessuno l'avrebbe detto mai. Nessuno tranne lei.
Ma questo aveva smesso di contare molto tempo prima, nello stesso momento in cui lui aveva smesso di guardarla in faccia e aveva deciso di voltarsi dall'altra parte, lasciarla annegare, perché fare la parte dello stronzo era più facile che rimanere.
Eppure eccola lì, al verde, in mezzo a sconosciuti saltellanti e agitati.
Eccola lì, lei ed il suo ultimo disperato tentativo di salvare quel che rimaneva della sua vita.

Un boato scoppiò tra la folla, accogliendolo.
Era cambiato, era cresciuto, era un uomo ora. Si chiese per un secondo se avrebbe pensato lo stesso di lei rivedendola, se l'avrebbe guardata e vista donna, grande, matura.
Quattro anni erano tanti, dopotutto.

"A te ti ho sempre difesa 
da questa gente di merda
da questo posto in discesa, la parte di te che mi difendeva da questa apatia fredda, da questa vita in discesa"

Barbara sorrise mentre lui cantava e faceva scorrere gli occhi sul suo pubblico. Non l'avrebbe notata mai là in mezzo, con il rammarico dipinto in faccia, l'amarezza, il disgusto, il bisogno.
Non l'avrebbe notata mai, mentre lasciava che le sue emozioni venissero fuori, mentre lasciava cadere la maschera e due lacrime solitarie, mentre il senso di colpa le opprimeva il petto, perché credeva di aver imparato ad essere forte.
Ed era tutto troppo.

Lui sarebbe stato solo un problema da sommare agli altri, eppure l'unica salvezza.
E' che passano gli anni, passa la vita, le esperienze, passano le ansie ed i bei momenti, passano le risate, i pomeriggi di primavera, le nottate estive svegli in spiaggia a fare tutto e niente, ma i sentimenti poi sono sempre lì, che aspettano solo di emergere quando meno te lo aspetti.

A farti male.

Strinse i denti e si sforzò di rimanere dov'era, ferma, lo sguardo puntato sulla sua figura così lontana ed irraggiungibile che non pareva vera. Non era qualcosa che le faceva particolarmente piacere, ma lui era l'unico che potesse aiutarla, l'unico di cui si fidasse, l'unico a cui avrebbe affidato la sua vita, nonostante tutto. Sapeva che questa volta non le avrebbe voltato le spalle, non c'era in più in ballo una cottarella, una scopata, i sentimenti di una ragazzina. C'era in gioco tutto quello che poteva giocarsi.

Lei era in gioco, era il palio, era la vincita, era la perdita.
Lo osservò e pregò tutto quello finisse presto, eppure la luce sembrava così lontana. Quanto quel palco, quel microfono.
Quanto Lauro. 

«Sotto lune pallide» Achille Lauro #Wattys2018Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora