-2-

212 33 55
                                    

"L'amore fa male, uccide. 
L'amore non riporta in vita." 

Sully Vega 

Ritrovarsi nella propria stanzetta, sommersa da libri su libri, con addosso una maglietta di una taglia più grande e l'odore di un profumo addosso che non ti garba più di tanto, ma ti ricorda tanto qualcuno che occupa un posto importante tra i tuoi pensieri e continui a spruzzarlo. Le lenzuola odorano di quel profumo, ma tra il dolce calore del sonno, quell'odore diventa quasi piacevole.
Quel profumo diventa un ricordo e quel ricordo si trasforma in profumo.
Perché anche i ricordi profumano.

Dalla finestra sentivo alcuni bambini giocare a pallone tra i giochi del parco di fianco casa. Non mi sarebbe dispiaciuto affatto chiudere i libri e giocare con i bambini. Poter inciampare ogni tanto, sentire le ginocchia sbucciarsi e le mani graffiarsi. Cadere era l'unico ricordo che non mi apparteneva. Un'infanzia privata dai graffi e dalle cadute è un'infanzia statica, vuota, incompleta.
Vuota.
Statica.
Incompleta.
Tre parole che descrivono me e il mio essere in maniera più che esemplare.
Suonavo il violino, smisi.
Cantavo, smisi.
Dipingevo, smisi.
Sognavo, smisi...

C'eravamo incontrati ad una mostra d'arte. E la prima volta che c'incontrammo, davanti a noi non avevamo i capolavori di Picasso o Van Gogh, oppure di Dalì e Caravaggio. Non erano pennellate violente quelle che si percepivano tra quelle tele immense e i colori non ricordavano pensieri tristi. A tratti avevo l'impressione di essere sola. Sentirsi da soli con qualcuno non penso sia qualcosa di male. Così simili, così uguali da sentire i nostri stessi pensieri prendere forme differenti affinché potessero incastrarsi per bene e diventare un'unica cosa sola.
Che pensieri fossero, non lo ricordo. Il perché di quei pensieri, non me ne importa. Però io ero lì e lui era lì, di fianco a me. Eravamo distanti, ma i nostri pensieri tentavano di attirarsi tra loro, proprio come due cariche completamente opposte. Nessun'altra forza sarebbe stata in grado di distruggere quel legame.
Il silenzio che la galleria d'arte pretendeva fu come avvolto da un suono sordo, come se un qualcosa di molto piccolo fosse caduto all'interno un posto tanto grande da far paura. Diciamo che il suono dei nostri pensieri, una volta uniti, avevano emesso lo stesso suono.

Davanti a quel dipinto c'era una panchina in legno, aveva uno strano odore. Mi sedetti e poco dopo fece lo stesso lui. In silenzio seguì appena i miei movimenti e poi, una voce calda come i colori che dominavano la tela di fronte a noi, mi avvolse dolcemente: "tu non stai pensando a quanto sia bello questo dipinto, vero?". Mi voltai appena e lo vidi immerso tra le più piccole e invisibili sfumature di quel dipinto nemmeno troppo bello agli occhi di altri. "Non puoi pensare alla bellezza e nemmeno crearla. La cosa bella della bellezza è che è soggettiva" e mi alzai da quella panchina, diedi un ultimo sguardo al dipinto e feci per andare via.
"Ma almeno sai il nome dell'artista?" e risentii quella voce raggiungermi. Senza voltarmi, dissi "no" sperando che non lo sentisse. Mi allontanai, ma prima che svanissi del tutto dalla sua vista, sentii un nome: "Frida Kahlo".
Quell'incontro fu il primo di tanti.

I ricordi non solo hanno un profumo proprio, ma anche dei suoni. Chi più profondi e intonati, altri più acuti e stonati.
Lui era un ricordo profondo, stonato, che profumava di colori ad olio e tele impolverate da tempo.
Era un ricordo splendido da poter ricordare.

Ritrovarti nel tuo nuovo ufficio, con una camicetta forse di una taglia più piccola. Una camicia bianca che lascia trasparire la qualsiasi cosa, dalla pelle d'oca alle vene più chiare. La mia pelle non profuma, non ha alcun odore addosso, se non quello dello spesso legno della mia scrivania color panna. Un betulla terribilmente chiaro. Troppo chiaro, il minimo segno sarà poi evidente, pensai sfiorando la base nuda di quella mia nuova scrivania. Il silenzio di quel mio ufficio era occupato dai respiri di vita che lo circondavano. Mi ero ritrovata tra i polmoni di quell'edificio. Ma io, io ero un organo importante?
Lessi un'ultima volta il nome scritto su quel foglio bianco. Era una grafia così disordinata da ricordare la scrittura di un bambino delle elementari. Sconnessa, spigolosa, sforzata. Su di un foglio bianco, quel nome scritto con quella grafia era un colpo all'occhio. Eppure sorrisi. Perché bisogna abituarsi all'ordine? Leggere un nome scritto dalla preside con una grafia che magari le ricordava il figlio piccolo. Sorrisi nuovamente e con il foglio tra le mani, cercai la quarta C.
Indossavo i tacchi, facevano male.
La camicetta andava a stringersi sempre di più.
La gonna si alzava ad ogni mio passo.
Stavo solo camminando, eppure sentivo qualcosa di pesante su di me, e ne ero certa, non era qualcosa di fisico.

飛び去る- Tobi SaruDove le storie prendono vita. Scoprilo ora