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Sully Vega


Stavo mangiando un panino con la marmellata di fagioli al suo interno alla fermata dell'autobus e sentivo il picchiettio della pioggia, chissà perché ero felice.
Seguii i miei stessi passi privi di impronte. L'autobus non era passato e le ciocche bagnate dei miei capelli solleticavano le mie guance. Ero ancora felice. Delle ragazze in divisa scolastica mi superarono e le pieghe delle loro gonne fradicie mi riportarono ai miei sedici anni. A quell'età ero innamorata dell'idea dell'amore, ma non avevo idea di che cosa fosse.

Più gli anni passavano più la mia quotidianità si assottigliava, diventando quasi invisibile.Ascoltavo la musica in camera da letto e ballavo con me stessa, sorridendo nel sentire il profumo delle lenzuola stropicciate sotto il peso del mio corpo. Il profumo della lavanda mi ricordava la casa nuova ancora vuota. Facevo lunghi bagni nella vasca con addosso gli abiti e chiudevo gli occhi.

Dimenticavo spesso di comprare il miele.

In cucina c'era solo qualche pentola e all'ingresso tenevo una candela profumata spenta, temevo che una volta accesa non avrebbe fatto più profumo.Tre anni dopo, l'accesi e la fiammella dell'accendino tremava come se avesse paura ad accendere quell'innocente candela che profumava di cannella. Oltre il calore della fiammella che scioglieva con lentezza la cera della candela, non c'era altro. Nessun odore nessun profumo, solo cera bianca che si sciolse del tutto,lasciando quella candela nei ricordi dei primi mesi in quella casa.
Quando dormivo lasciavo la porta della mia camera da letto aperta e la mattina seguente me ne dimenticavo e sussultavo. Stendevo i panni nell'orto alle spalle del bagno, non c'era alcunché se non la recinzione, la spessa rete e quattro fili per stendere i panni, ma lì il sole non sbatteva e gli abiti asciugavano lentamente. Mia madre diceva che bisognava tenere delle piante nei posti privi di luce poiché erano esse a chiamare la luce del sole. Lo feci e le piante morirono.
Le mura del salone avevano uno strano odore e tre giorni dopo il mio trasferimento comprai della carta da parati che tre anni dopo strappai con le mie stesse mani, cercando di ridipingere quelle pareti, ma come su di un corpo gracile e fragile, una volta creatasi una cicatrice essa rimane per sempre rimanendo visibile. La vernice non aveva di certo coperto ciò che c'era prima.Lo stesso giorno che misi la carta da parati, mi tagliai i capelli in bagno come fanno le donne disperate nei film o nei libri oppure nei video musicali,pizzicandomi un polpastrello con le forbici aspettai che uscisse il sangue che tardò a venire fuori, uscì e poche gocce sporcarono il lavandino. Quante cose succedono in un solo giorno? Non ero in grado di tenere il passo con il tempo e un giovedì mi accorsi che i miei capelli stavano già allungando e da quel giorno iniziai a trascorrere più tempo davanti al frigorifero che allo specchio.

Più vivevo in quella casa, più sembrava essere vuota. Una volta scattata la serratura della porta d'ingresso, il suono echeggiava in ogni stanza. Iniziai a mettere delle foto scattate con la polaroid, ma quegli scatti non riempivano di certo il vuoto che mi circondava.

Feci sesso sul divano del salone con un uomo conosciuto in un pub quella sera stessa. Era di bell'aspetto, con le dita delle mani affusolate e la mascella pronunciata. "Sembra non vivere nessuno in questa casa" aveva detto prima di alzarsi dal divano, aveva ragione. La cucina non era mai stata sporcata e all'ingresso non c'era alcuna traccia di impronte di fango o altro, come se non entrasse mai nessuno da quella porta e a Seoul era il periodo delle piogge...

Mia madre mi regalò due margherite sperando in un'eterna primavera in casa mia.Hoseok portò un perenne autunno con quelle mele caramellate e le camicie marroni con le fantasie a quadri. Le foglie secche che si attaccavano alla suola delle sue scarpe che portava poi in casa. Addosso sembrava sempre avere quell'eterno odore di bacche di Cassis. Casa mia non aveva stagioni se non l'autunno.

Hoseok era Autunno.

Una tazza bianca con del cappuccino al suo interno era il nostro sapore di felicità e mi bastava tenere stratta la sua mano alla mia per ricordare quel panino con la marmellata di fagioli rossi alla fermata dell'autobus, la pioggia e ricordavo poi di essere felice. La felicità è un ricordo, come l'autunno eterno di Hoseok e la sua calligrafia disordinata sui fogli bianchi in cucina.
Una mattina mi lasciò un post-it in cucina con su scritto il nome di una canzone jazz: Autumn Leaves di Chet Baker. "Jimin mi invia link di canzoni jazz, pensa che possano cambiare qualcosa", mi diceva Hoseok.
"Perché non è così?"
"Forse sì", ed era vero.
Se ho poi ascoltato quella canzone? Sì, ma solo i primi tre minuti. Hoseok mi lasciava spesso dei post-it, sempre in posti differenti, poi iniziò a non venire più a casa e senza di lui, l'autunno scomparì in casa mia. Non dormivo più sul letto, lo avevo lasciato ben fatto e con la finestra coperta da quelle tende bianche, lasciavo che entrasse la luce del sole e scaldasse il copriletto color tortora. Dormivo sul divano cercando invano la coperta che dimenticavo spesso tra le sedie della cucina. Mangiavo solo tonno in scatola e ramen confezionato . Le mensole si riempivano di polvere e la batteria della sveglia poggiata in camera da letta si era scaricata un pomeriggio, alle quattro e mezza. Quella sveglia era ferma da un po' e in casa non c'era altro che un silenzio così fitto da poterlo stringere tra le dita.
"Hoseok, perché non torni?" e intanto la carta da parati ingialliva e la lavatrice rotta rimaneva tale. Bevevo del Jack Daniel's , nonostante non mi piacesse il sapore e andavo a fare la spesa in pantofole e con gli occhi gonfi, dimenticando poi le buste della spazzatura nell'orto a casa.
Avevo comprato del caffè italiano e tornando a casa mi ricordai di non avere la caffettiera per poterlo preparare. Mi bloccai, feci per tornare indietro, ma mi diressi verso casa buttando a terra quella confezione di caffè italiano, "non so nemmeno come si usa una caffettiera".
Seduto sul portico, con le gambe al petto e il volto nascosto tra le ginocchia, Hoseok. In una mano teneva una busta di plastica e nell'altra un ombrello.Portai lo sguardo al cielo, quel giorno non c'era una sola nuvola in cielo eppure quella mano sottile stringeva un ombrello rotto.

"Hoseok", lo chiamai appena e faticai a sentire la mia stessa voce. Lui alzò il capo e mi guardò dritta negli occhi, "io...io non ce la faccio più" riuscì a dire senza smettere di piangere. Mi abbassai e presi quel viso tra le mani,baciandolo e sperai di non dover smettere.
"Io ti amo, Frida"
"Ed io amo te, Hoseok", sentii appena il suo calore ma mi bastò per capire che era ancora vivo ed era tra le mie braccia.







"Sì Taehyung, io sono Frida ed Hoseok era il mio Autunno".



飛び去る- Tobi SaruDove le storie prendono vita. Scoprilo ora