CAPITOLO 15: LET'S PLAY
Take a breath, take it deep
Calm yourself, he says to me
If you play, you play the key
Take the gun, and count to three
I'm sweating now, I'm moving slow
No time to think, my turn to go
And you can see my heart, beating,
You can see it through my chest
I'm terrified but I'm not leaving, no
I know that I must pass this test
So just pull the trigger
Prendi fiato,
fallo profondamente
calmati, mi dice lui
se giochi, fallo sul serio
prendi una pistola,
e conta fino a tre
sto sudando adesso,
mi muovo lentamente
non ho tempo per pensare,
tocca a me andare...
e puoi vedere il mio cuore che batte
puoi vederlo attraverso il mio petto
ho detto che sono terrorizzata
ma non me ne sto andando...
so che devo assolutamente
riuscire in questa prova
quindi premi il grilletto
Quando sua madre le aveva dato la notizia di quel trasferimento, per un momento Clarke si era congelata sul posto.
Era impazzita? La stava prendendo in giro? Beh, in ogni caso non era divertente ed era stato ancor meno divertente quando la ragazza aveva capito che non c'era nessuno scherzo: Abby non era mai stata tanto seria.
Come avevano potuto, lei e Marcus, prendere una decisione del genere senza consultarla? Quando poi le aveva comunicato che sarebbero partiti entro due giorni e che c'era qualcuno già interessato alla casa, Clarke era veramente esplosa.
Con furia aveva salito le tre rampe di scale che portavano fino alla mansarda, sbattendo con veemenza la porta alle sue spalle.
Ora poteva capire cosa avesse provato la vecchia nonna di Wells: rabbia, dolore, frustrazione, tradimento. Non riusciva ad immaginare come sua madre potesse anche solo prenderlo in considerazione. Era davvero così semplice per lei? Perché per Clarke non era così. Sì, era andata a vivere al campus, ma era una cosa totalmente diversa: sapeva che quando fosse tornata a Fort Hill, quella casa sarebbe stata lì ad aspettarla.
Quella casa così piena di ricordi degli ultimi anni di vita di suo padre. Ricordi di momenti felici che Clarke aveva vissuto con spensieratezza, consapevole del fatto di essere ancora una ragazzina e di potersi comportare come tale. In realtà Jake le aveva detto mille volte che per la sua età era fin troppo matura, che avrebbe dovuto pensare più a sé stessa, divertirsi, uscire, mentre lei era così concentrata sulla scuola e sul suo futuro. Un'autentica secchiona, su questo non poteva dare torto a Bellamy.
Ad ogni modo lei non aveva la minima intenzione di lasciare quella casa, non l'avrebbe fatto nemmeno se sua madre l'avesse trascinata fuori di lì a forza.
Per un po' le era parso come se le cose tra di loro stessero migliorando, si era illusa di poter ricostruire la perfetta famiglia che erano prima. Sì, prima. Quando Jake era ancora vivo. Ma Marcus non era Jake e lei sapeva bene che se in diciassette anni lei e sua madre erano andate d'accordo, era stato solo per via di suo padre. Era lui il collante di quella famiglia, era a lui che toccava l'arduo compito di tenere gli animi delle due donne acquietati e quando lui era mancato, si era creata una spaccatura.
Clarke si era allontanata, Abby aveva provato varie volte un approccio nei suoi confronti, ma non c'era stato verso. Clarke era sempre stata inavvicinabile nei confronti di chiunque. Poi era arrivata Thalia e allora la ragazza aveva cominciato a riaprirsi al mondo.
Adesso però tutto era stato di nuovo rovinato e Clarke non sapeva se stavolta sarebbe riuscita a perdonarla: metterla davanti a cose fatte le aveva provocato una tale furia da farla addirittura tremare.
Con rabbia, Clarke aveva afferrato il primo oggetto che le era capitato tra le mani. Sfortunatamente per lei, la scelta era ricaduta sulla lampada a cera che teneva sulla scrivania, accesa da diverse ore, lanciandola e facendole attraversare la stanza.
Aveva imprecato per il dolore dell'ustione che si era procurata nel momento in cui l'oggetto si era frantumato al suolo, spargendo il contenuto liquido e la cera bollenti sul pavimento, creando una macchia che bruciò irrimediabilmente il parquet.
«Cazzo!» aveva esclamato, guardando la sua mano rossa e bruciante. Era corsa in bagno e aveva aperto il getto di acqua fredda, dando sollievo a quel dolore insopportabile.
Era uscita dalla finestra della sua stanza, non voleva vedere sua madre e per tutto il resto del giorno non aveva fatto altro che camminare e camminare. Verso sera si era fermata al pub dei genitori di Monroe, giusto per mettere qualcosa nello stomaco e infine era nuovamente uscita. Ancora non voleva tornare a casa, dunque si era fermata lungo la strada, non sapeva nemmeno dove di preciso, sedendosi su un marciapiede.
Lì aveva incontrato Bellamy, o meglio... lui le si era materializzato davanti dal nulla e, brevemente, la ragazza gli aveva fatto il punto della situazione.
Il giovane l'aveva portata a casa sua per medicarla dopo aver notato la sua mano ustionata, dopodiché si era offerto di riaccompagnarla a casa.
Si erano arrampicati insieme fino alla sua stanza, sempre servendosi dell'albero e, una volta dentro, Yeti aveva spaventato a morte il ragazzo, emettendo un potente miagolio alquanto rabbioso. Sembrava che al gatto Bellamy non andasse per niente a genio.
Ora però Clarke non vi badò particolarmente, perché qualcosa aveva attirato la sua attenzione: un oggetto caduto dal portagioie che era finito per terra dopo il brusco scatto di Bellamy.
La ragazza lo raccolse, analizzando la piccola chiave con aria attenta e sconcertata. Un piccolo numero era inciso su uno dei lati: 21.
«Bellamy, questa è... ».
«La chiave di una cassetta di sicurezza» la interruppe lui, altrettanto interessato.
Clarke deglutì a vuoto, poi sentì dei passi lungo le scale, infilò la chiave in tasca e si rivolse nuovamente al ragazzo: «Va' via prima che mia madre ti trovi qui».
«E come facciamo per questo?» disse lui indicando la tasca dei suoi pantaloncini.
Clarke scarabocchiò velocemente qualcosa su un pezzo di carta che poi gli porse.
«Questo è il mio numero di telefono, ci sentiamo, ma ora vai! Muoviti!».
Lui afferrò il foglio che la bionda gli porgeva e sgusciò via pochi istanti prima che la porta della stanza si aprisse.
«Non si bussa più?» chiese lei in tono duro.
«Clarke... » il tono di sua madre era accondiscendente e questo forse la fece irritare ancor di più.
«No. Senti... tu e Marcus potete fare quello che diavolo volete, ma io... io non verrò con voi. Resterò qui, mi preparerò per il test d'ingresso a chirurgia e sceglierò l'Ark Medical Center come ospedale per l'internato. Perciò non provarci neanche a vendere questa casa».
Sua madre sembrava frastornata.
«E da quando avresti preso questa decisione?».
Da quando Bellamy mi ha dato l'idea, pensò.
«Da circa un'ora».
«Clarke, possiamo parlarne... ».
«Parlarne?! Come tu e Marcus avete parlato con me di questa vostra intenzione?! No, non esiste. Andate, non dico di no. Giocate pure alla coppia felice come avete fatto negli ultimi cinque anni, non sarò certo io a fermarvi, ma lasciatemi fuori da questa farsa. Così sarà meglio per tutti».
Fece una pausa, poi continuò: «Mamma, è inutile prendersi in giro... l'unica cosa che ci faceva andare d'accordo era papà, senza di lui... noi non funzioniamo bene. Possiamo vederci durante le feste, ai compleanni, a Natale. Ma vivere sotto lo stesso tetto? No, non fa per noi. Finiamo solo per distruggere quel poco che resta, quindi... è meglio così, credimi. Ognuno per la sua strada, com'è stato in questi anni».
Abby era pallida, la bocca semiaperta e gli occhi vuoti. Probabilmente non credeva a ciò che la figlia aveva appena detto e, per un attimo, Clarke si sentì in colpa, ma fu solo un momento.
Senza dire una parola, la donna si voltò, uscendo dalla stanza della figlia.
Clarke sospirò pesantemente, lasciandosi cadere sul letto, i gomiti piantati nelle ginocchia e il volto fra le mani.
Non seppe quanto tempo passò prima che il suo telefono vibrasse.
Clarke lo afferrò e aprì il messaggio, proveniente da un numero che non aveva salvato in rubrica.
"Tutto bene Principessa?" suo malgrado, Clarke sorrise, capendo immediatamente di chi si trattasse.
"Ho detto a mia madre che non mi trasferirò. Non l'ha presa molto bene, credo di aver fatto abbastanza la stronza".
La risposta di Bellamy non tardò ad arrivare.
"È una decisione per il tuo futuro, Clarke. E il tuo futuro riguarda te, non sei più una bambina, hai il diritto di decidere della tua vita".
Lei sorrise.
"Grazie Bellamy" era incredibile come, con poche parole, quel ragazzo fosse in grado di renderle tutto più facile, di farla sentire meno in colpa.
"Figurati, Principessa. Dunque... come hai intenzione di muoverti riguardo a quella chiave?".
La ragazza ci rifletté. In effetti quello era un bel rompicapo. Non aveva la minima idea di cosa fare.
"Probabilmente so in che banca si trovi quella cassetta, mio padre andava sempre nella stessa. Ma credo di dovermi procurare il suo certificato di morte per averne accesso".
"D'accordo. Ma senti.... Non fare niente da sola, ok? Tutta questa storia comincia a sembrarmi un po' troppo strana".
Nonostante tutto, leggendo quelle parole, un tenue sorriso si aprì sul suo volto.
"Cos'è Blake? Ti preoccupi per me?".
"Vai al diavolo, Griffin".
Ora la ragazza rise apertamente.
"Buonanotte Blake".
"Buonanotte Principessa".
Clarke salvò subito il numero e poi si alzò dal letto, cominciando a prepararsi per andare a dormire.
Una volta uscita dal bagno, Yeti saltò sul materasso, andando ad accoccolarsi al suo fianco e Clarke lo grattò un po' dietro le orecchie prima di sprofondare nel sonno.
Quando si svegliò il sole era alto nel cielo e lei schizzò giù dal letto, affamata. Fece colazione rapidamente e poi tornò in camera a cambiarsi.
Quella mattina decise che si sarebbe recata al comune per fare richiesta del certificato di morte di suo padre. Si trovava su un terreno sconosciuto, non aveva veramente la minima idea di come funzionassero quelle cose e lei voleva prendere tutte le precauzioni necessarie.
Aveva appeso la chiave ad una catenina che ora portava legata al collo, sotto la maglietta, il metallo freddo a contatto con la pelle. Era una sensazione sgradevole, come se improvvisamente si fosse caricata di qualcosa più grande di lei ed era come se quella piccola, innocua chiave, pesasse al suo collo come una gogna. Come se fosse una condannata a morte e quello le metteva un certo senso d'inquietudine.
Bellamy le aveva detto di non muoversi da sola, ma non voleva disturbarlo di mattina, non sapeva nemmeno se fosse al lavoro o meno e poi andare in comune per fare quella richiesta era certa che non le avrebbe procurato nessun guaio. D'altra parte era sua figlia, che cosa poteva esserci di male? O di sospetto?
Prese la macchina e si avviò verso il comune, era piuttosto lontano da casa sua.
Una volta lì, trovò una gran confusione; in effetti forse sarebbe stato meglio chiamare e prendere un appuntamento, non era neanche detto che riuscissero a vederla in giornata. Così, armandosi di pazienza, la ragazza si mise a sedere di fronte agli uffici aperti al pubblico e attese. Attese per almeno quattro ore prima che una donna minuta di mezza età e piuttosto in carne la chiamasse per entrare. Clarke ormai aveva quasi perso le speranze.
La donna la salutò cortesemente, chiedendole di cosa avesse bisogno.
«Vorrei ritirare il certificato di morte di Jake Griffin» disse la ragazza senza tanti preamboli.
L'impiegata infilò gli occhiali e fece una breve ricerca a computer.
«Mi dispiace signorina, qui mi risulta che soltanto Clarke Griffin possa ritirare quel certificato. È stata una specifica del defunto».
Clarke fu leggermente sorpresa della cosa, ma tirò fuori il portafogli, estraendo la sua carta d'identità.
«Sono io. Jake Griffin era mio padre».
La donna prese il documento e sorrise.
«Inoltro subito la sua richiesta allora. Mi servono solo un paio di firme, di solito ci vuole qualche giorno per queste cose. Le manderemo a casa un avviso quando potrà venire a ritirare il certificato».
«La ringrazio» disse Clarke sorridendo. Firmò i tre documenti che la donna le porse e si alzò, salutandola nuovamente e dirigendosi verso l'uscita.
Quattro ore di attesa per sbrigarsi in dieci minuti.
Si riavviò verso casa e, una volta scesa dall'auto, si sentì chiamare.
Wells la osservava dalla veranda di casa sua, si fece avanti e la raggiunse sul marciapiede.
«Ehi... ».
«Ehi...» lo salutò lei, leggermente imbarazzata.
Era ormai da due settimane che non si vedevano più, da quando... beh, da quando Wells l'aveva baciata al parco proprio davanti agli occhi di Bellamy.
«Ti va di entrare?».
Lui annuì, sembrava a disagio almeno quanto lei.
Clarke estrasse le chiavi di casa e aprì la porta. Sua madre doveva essere lì da qualche parte, quel giorno non sarebbe andata al lavoro, ma non ci teneva a vederla.
«Andiamo su» disse lei, cominciando a salire le scale.
Una volta giunti in mansarda la bionda chiuse la porta e si sedette sul letto, non sapendo di preciso cosa dire.
Poi vide Wells sgranare gli occhi e correrle in contro con aria preoccupata.
«Clarke, che cosa ti è successo?!» chiese prendendole il polso della mano fasciata con delicatezza.
«Oh... ehm... non è niente, solo un'ustione».
Lui la osservò con aria allarmata, ma non disse nulla, sedendosi invece al suo fianco sul letto«.
«Ho saputo da mio padre che tua madre vuole mettere in vendita la casa... che partite per il Texas... ».
Per un attimo Clarke si chiese come diavolo facesse a saperlo, prima di ricordarsi che Thelonius Jaha era uno dei più noti imprenditori edili della zona e aveva spesso a che fare con agenzie immobiliari e simili.
«Sì, cioè... mia madre e Marcus si trasferiranno. Io resterò qui, non voglio andare via».
A quelle parole, Wells parve rianimarsi.
«È fantastico! Insomma... il fatto che resterai qui» disse abbracciandola e Clarke si irrigidì per un momento.
Wells non mancò di notarlo e si tirò indietro.
«Scusami. Io... non sopportavo l'idea che partissi».
«Sei sparito nelle ultime settimane».
«Sì, io... lo so. Mi dispiace, è solo che... dopo l'ultima volta che ci siamo visti non ho più avuto il coraggio di farmi vedere».
Un silenzio imbarazzato aleggiò nella stanza per qualche istante, prima che Wells si voltasse verso di lei dicendo: «Che cosa c'è fra te e Bellamy?».
Già... che cosa c'era tra lei e Bellamy? Clarke non lo sapeva, ma aveva come l'impressione che qualcosa ci fosse davvero... o che almeno stesse iniziando.
«Non lo so. Non lo so Wells, è complicato. Lui mi sta aiutando molto».
«Perché non sei venuta da me, Clarke? Sono il tuo migliore amico, perché sei andata da lui?».
«È questo il punto: non sono stata io ad andare da lui o lui a venire da me. Semplicemente... ci siamo trovati, è qualcosa che non riesco a spiegare, ma credo che sia iniziata tanti anni fa».
Wells sospirò sconfitto, e Clarke rimase sorpresa dalle sue stesse parole. Perché in una semplice frase era riuscita ad esprimere come fossero davvero andate le cose tra lei e Bellamy ed in effetti era stato proprio così: nessuno era mai andato in cerca dell'altro, ma per via di una serie di circostanze fortuite le loro strade avevano continuato ad incrociarsi fino a portarli al punto in cui si trovavano ora.
Scosse la testa, tornando alla realtà, quando vide il ragazzo alzarsi, torreggiando sopra di lei. Wells era sempre stato alto e guardarlo da seduta la fece sentire ancor più piccola del solito. Si alzò anche lei e insieme si avviarono nuovamente verso l'ingresso.
«Beh... sono contento che resti, Clarke».
Lei sfoderò un sorriso di circostanza.
«A presto Wells» e, con un ultimo cenno, il ragazzo sparì oltre la porta.
In quel momento sua madre sbucò fuori dalla cucina.
«Avete fatto pace?».
Clarke la guardò confusa.
«Clarke, sono tua madre, me ne accorgo di quando le cose non vanno con qualcuno e Wells è uno dei tuoi più vecchi amici. Era chiaro che tra voi le cose non andassero molto bene».
«Credo che abbiamo fatto pace, sì».
«Lui è un bravo ragazzo. E poi tiene molto a te... ».
«E con questo cosa vorresti dire?».
«Niente, solo che... è da molto che non frequenti più un ragazzo. Da... Finn?».
Clarke sospirò. Sua madre aveva scelto proprio il momento sbagliato per iniziare a comportarsi come tale.
«Non c'è niente tra me e Wells e non ci sarà mai niente in quel senso».
Wells era esattamente il tipo di ragazzo che sua madre avrebbe voluto per lei: assennato, con la testa sulle spalle... il genere di ragazzo che coccola il tuo gatto e fa il carino con i tuoi genitori.
Poi pensò a Bellamy. Lui era tutto il contrario di ciò che Abby avrebbe voluto le girasse intorno. Se avesse potuto avrebbe dato fuoco a Yeti e di certo non perdeva tempo a fare il simpatico solo per ingraziarsi qualcuno. Anzi... di solito otteneva il risultato opposto.
Abby annuì e la fissò per un momento.
«Dove sei stata stamattina?».
«Ho fatto una passeggiata» tagliò corto lei, non voleva dare alcuna spiegazione.
Per un momento le due donne si fissarono, poi Clarke voltò le spalle a sua madre e tornò in camera.
Per il resto della giornata non combinò molto se non cercare su internet qualche informazione riguardo alle cassette di sicurezza e Clarke si chiese che cosa suo padre avesse potuto nascondere all'interno della cassetta numero 21. Tutta quella storia stava prendendo una piega davvero assurda e lei ne era sempre più ossessionata.
A sera si buttò a letto a guardare un film e anche il giorno dopo non fece un granché.
L'unica cosa, fu che sua madre sarebbe andata via, trasferendosi in Texas insieme a Marcus.
L'uomo era tornato per prendere alcune cose e per salutare Clarke, si era detto dispiaciuto del fatto che non andasse con loro, ma dal canto suo avrebbe anche potuto aspettarselo dopo averla messa davanti a cose fatte.
Il camion dei traslochi arrivò presto e sua madre e il suo patrigno dissero ai traslocatori cosa portare via. Così, Clarke vide l'archivio sparire dal vecchio studio di suo padre, che adesso era tornato esattamente com'era ai tempi in cui era Jake a chiudersi lì dentro per ore.
Quando la casa fu nuovamente silenziosa, la ragazza si sedette sul divano del salotto, quasi confusa. Era strano non avere più nessuno intorno con la consapevolezza che Abby e Marcus non sarebbero tornati a casa per cena, dopo il lavoro. Si erano trasferiti, lei adesso abitava lì da sola.
Era successo così in fretta che non aveva nemmeno avuto il tempo di metabolizzarlo, ma dopotutto la cosa non le dispiaceva.
D'altra parte... la solitudine faceva parte di lei da molti anni ormai, si era sempre trovata bene con sé stessa.
Erano le sette di sera quando il suo cellulare squillò, facendola sorridere quando la ragazza vide il nome sul display.
«Ehi, Jasper!».
«Ciao ragazza! Come stai? È da un pezzo che non ci sentiamo».
«Lo so, scusami! Sono successe un mucchio di cose... » tentò di giustificarsi lei.
«Hai da fare stasera? Perché io e Monty andiamo al pub dei genitori di Monroe, ci ha invitato lei e quindi, se magari non hai niente da fare, puoi aggiungerti a noi!».
Uscire era esattamente ciò di cui aveva bisogno Clarke in quel momento.
«Ma certo, mi unisco volentieri. A che ora?».
«Facciamo per le nove?».
«Affare fatto. A dopo Jasper!».
«A più tardi!».
Clarke riagganciò e decise di farsi una doccia prima di uscire per la serata.
In un'ora fu pronta, si preparò qualcosa di veloce per cena e alle nove meno un quarto era già in macchina pronta per partire.
Era venerdì sera e il pub era strapieno, dunque faticò sia per trovare parcheggio, sia per raggiungere il bancone.
Monty, Jasper e Monroe la stavano aspettando, quasi urlando per sovrastare il frastuono della musica.
La bionda venne abbracciata da Jasper e Monty e salutata dalla ragazza.
Cercarono di chiacchierare un po', ma la musica e il vociare della gente sembravano essere ancor più forti del solito e, dopo più di un'ora che erano lì, una voce familiare attirò la loro attenzione.
Clarke si voltò, restando gelata sul posto: era Finn.
Il ragazzo le andò vicino, salutandola, ma lei restò rigida e priva di qualsiasi inflessione nella voce.
Jasper era un po' allarmato, così come anche Monty, mentre Monroe sembrava serena, ma d'altra parte lei era sempre andata d'accordo con Finn. Dopo circa venti minuti dall'arrivo del ragazzo, un'altra voce li fece voltare.
«Bene bene... è qui la festa?».
Atom. Ma non era solo. Dietro di lui c'erano Octavia, Lincoln, Bellamy, Roma, Raven e un ragazzo che Clarke non aveva mai visto. La situazione cominciava a surriscaldarsi, facendosi imbarazzante.
Clarke non poté fare a meno di notare lo sguardo di fuoco che Bellamy riservò a Finn e nemmeno quello di Raven era tanto amichevole.
Atom si avvicinò a Monroe e dovette quasi urlare per farsi sentire dalla ragazza.
«Perché non ci porti in un posto un po' più tranquillo?».
Così, lei si fece avanti, aprendo la strada a tutto il gruppo, li portò oltre la saletta e dovettero quasi spintonare per arrivare fino ad una porta nascosta da una tenda. Monroe l'aprì, scendendo una rampa di scale che portava in una sorta di seminterrato.
«Oh caspita... ora sì che inizia la festa!» esclamò a quel punto il moro e, dalle centinaia di bottiglie riposte ordinatamente sugli scaffali, Clarke non ci mise molto per capire che si trovavano nel deposito dei super alcolici.
L'ultima ad entrare fu Roma, che richiuse la porta dietro di sé e un silenzio irreale calò nel seminterrato.
Giusto per interrompere quel clima teso, Octavia andò ad abbracciare Clarke, dandole due baci sulle guance.
«Questa sì che è una rimpatriata come si deve!» riprese Atom a quel punto e Clarke notò lo sguardo omicida che Bellamy gli lanciò in quell'istante. Avrebbe potuto fulminarlo.
Dal canto suo, la ragazza cominciava a sentirsi notevolmente a disagio e, per cercare di smorzare un po' la tensione, si avvicinò a Raven. A parte la brutta situazione in cui erano rimaste coinvolte a causa di Finn, Clarke non aveva mai avuto nulla contro di lei, anzi, l'aveva sempre reputata una persona molto intelligente.
La salutò con cortesia e lei ricambiò, presentandole il suo fidanzato, un certo Kyle Wick. Era lui il ragazzo che Clarke non aveva mai visto prima. Parlarono per un po', sembrava simpatico, dopodiché la loro attenzione venne nuovamente attirata da Atom.
«Mi è venuta un'idea!» esclamò.
«Qualunque cosa sia, noi non la vogliamo sapere» rispose prontamente Bellamy, con un altro sguardo di traverso.
«E piantala di fare il rompicoglioni, Bell» a quelle parole Octavia e Raven risero, mentre l'interessato alzò gli occhi al cielo e serrò la mascella, probabilmente trattenendosi a stento dal prendere a pugni il suo migliore amico.
«Giochiamo al gioco della bottiglia» propose a quel punto.
Fra tutte le cose che Clarke avrebbe potuto immaginare, quella era la meno probabile. Come diavolo potevano venirgli certe idee malsane?
«Non se ne parla».
Disse subito Bellamy.
«Oh avanti! Sarà divertente!» esclamò Octavia con un sorriso.
Clarke vide chiaramente l'espressione stupita del maggiore dei Blake, sembrava che non potesse contrastare il volere della sorella, anche perché, apparentemente, l'unico contrariato sembrava essere lui, dunque avrebbe dovuto mettersi il cuore in pace.
Nemmeno Clarke impazziva all'idea, ma non poteva neanche negare il brivido che le era corso lungo la schiena.
«Io non lo farò» ripeté lui.
«Cos'è, Blake... ti mancano le palle?» a sorpresa di tutti, era stata proprio Clarke a parlare e, per la prima volta in quella sera, i suoi occhi e quelli scuri del ragazzo si incrociarono, creando una certa elettricità.
Octavia emise un'esclamazione sbalordita e Atom proruppe in una risata.
«La Principessa ha parlato, signori! Allora...? Rispondi, amico... ti mancano le palle?».
«Fottiti Atom».
«Magari più tardi, ora ho proprio voglia di fare questo gioco».
Bellamy lo osservò per un altro istante prima di puntare nuovamente i suoi occhi su Clarke.
«Bene, allora. Giochiamo».
Così, presero tutti posto per terra, formando un cerchio.
«Sembriamo un gruppo di recupero degli alcolisti anonimi» commentò Bellamy con aria notevolmente scocciata.
«Ciao a tutti, io sono Atom e non bevo da circa trenta secondi» disse alzando in alto la bottiglia di birra ormai vuota che aveva in mano e scatenando l'ilarità generale.
«Sì, e si vedono i risultati» rispose a tono il suo migliore amico con un'altra occhiataccia.
Atom posò al centro la bottiglia, la afferrò saldamente e disse: «Il primo giro è per chi comincia» e così la fece ruotare rapidamente. L'oggetto puntò su Octavia, seduta fra Bellamy e Lincoln.
«A te il gioco, sorellina» disse Atom con un sorrisetto.
Una sorta di trepidante attesa parve crescere nel gruppo nel momento in cui la piccola di casa Blake afferrò la bottiglia, facendola girare.
Quella ruotò su sé stessa un paio di volte prima di fermarsi su Jasper.
«Dannazione Octavia, il tuo bacio è arrivato con sei anni di ritardo» commentò lui, facendole l'occhiolino.
Clarke sapeva benissimo che si stava riferendo alla cotta che aveva preso per Octavia tanti anni addietro. Aveva dovuto dissuaderlo dal provarci con lei per via di Bellamy. Temeva che se lo avesse scoperto, avrebbe potuto ucciderlo.
«Beh, meglio tardi che mai no?» rispose lei, ma, prima di avvicinarsi al moro, lanciò uno sguardo a Lincoln, come se volesse accertarsi che lui non se la sarebbe presa per ciò che stava per succedere.
Il suo ragazzo scosse la testa con aria divertita. Era solo un gioco in fin dei conti e questo era ciò di cui cercava di convincersi anche Clarke.
Era solo un gioco. D'altra parte... era stata lei a sfidare Bellamy, non poteva tentennare adesso che avevano iniziato.
Così, la ragazza si avvicinò a Jasper, facendo aderire le loro labbra e chiudendo gli occhi.
Rimasero in quel modo per qualche istante, Clarke osservò Bellamy: le braccia incrociate al petto, la mascella serrata e un sopracciglio inarcato. Dio, sembrava addirittura più geloso di Lincoln.
Lo trovò adorabile.
Quando si staccarono, nel gruppo si creò un po' di confusione: chi rise, chi batté le mani e chi lanciò urletti compiaciuti.
La bottiglia a quel punto venne presa in mano da Lincoln, seduto al fianco della sua fidanzata. Tutti rimasero a fissarla mentre girava, fino a che non si puntò su Raven.
Sembravano entrambi un po' imbarazzati a dire il vero, Clarke immaginò che non dovessero conoscersi poi così bene in fin dei conti. Dopotutto... Lincoln non aveva frequentato il liceo insieme a loro e quando si era trasferito, Raven probabilmente era ancora in giro per l'America perciò quella doveva essere una delle prime volte che si vedevano.
Si baciarono anche loro, poi tornarono al proprio posto, Raven leggermente accaldata e rossa in volto e Lincoln a testa china.
Dopo di loro toccò a Monroe, che sorteggiò Lincoln e poi a Jasper, a cui capitò Roma.
A quel punto la bottiglia passò nelle mani di Raven, che la prese saldamente e la fece ruotare.
La scelta ricadde su Bellamy e Clarke sentì una strana fitta allo stomaco, soprattutto quando vide che sul viso della ragazza si aprì un sorriso a metà tra il sollevato e il beffardo e che si diresse con sicurezza verso Bellamy.
Lui era in piedi di fronte a lei e, prima di baciarlo, la bruna si voltò verso il suo ragazzo.
«Sai che ti amo e che nulla potrà mai cambiare questa cosa, perciò non essere geloso, soprattutto dal momento in cui Bellamy per me è come un fratello».
«Fa' quello che devi, tu mi porterai dritto al manicomio» disse lui con un sorriso, ma voltò la testa dall'altra parte subito dopo.
Raven si alzò in punta di piedi, prendendo il volto di Bellamy fra le mani e attirandolo a sé. Lui le cinse i fianchi con le braccia e, anche se Clarke avrebbe tanto voluto distogliere lo sguardo proprio come aveva fatto Wick, non ci riuscì.
Non riusciva a staccare gli occhi dai loro corpi attaccati, dalle labbra di Bellamy che si muovevano con sicurezza su quelle di Raven, dalle sue braccia che la avvolgevano in quel modo e, quando si staccarono, fu come se riuscisse a respirare di nuovo.
«E questa, mio caro, sarà l'ultima volta che ti bacerò. Ritieniti onorato» disse lei in tono scherzoso, facendo ridere la maggior parte dei presenti.
Lui le pizzicò entrambi i fianchi e Raven saltò indietro con uno strillo.
«Sparisci, Reyes», ma anche sul volto di lui c'era un sorriso e questo servì solo ad irritare ulteriormente Clarke.
A quel punto fu il turno di Atom, che si alzò con aria baldanzosa.
«Molto presto farò felice qualcuno» disse con aria strafottente.
Clarke vide Bellamy alzare gli occhi al cielo, mentre Octavia rise, scuotendo la testa. La mano di Lincoln stretta nella sua.
Atom afferrò la bottiglia, facendola girare. Peccato che quella finì proprio su Bellamy.
Il ragazzo sgranò gli occhi e gli lanciò uno sguardo assassino.
«Prova solo a pensare di baciarmi e ti infilo la testa nel cesso, Atom».
A quelle parole tutti scoppiarono a ridere, compresa Clarke, che avrebbe proprio voluto vedere la reazione di Bellamy se Atom lo avesse baciato.
A quel punto intervenne Octavia, per acquietare gli animi.
«D'accordo, d'accordo. Allora... direi che in caso di morte imminente si può fare uno strappo alla regola e rifare il lancio, altrimenti temo per l'incolumità di Atom».
«Beh amico... non sai che ti sei perso» rise lui, con il chiaro intento di prenderlo in giro.
«Tu ringrazia solo di esserti perso un pugno nell'occhio».
Clarke non credeva di aver mai assistito ad una scena tanto esilarante in vita sua, doveva ammetterlo: Atom e Bellamy erano uno spasso alle volte.
Sorridendo, incrociò le braccia al petto e osservò Atom far ruotare di nuovo la bottiglia prima di rendersi conto che undici paia di occhi si erano puntati su di lei.
Improvvisamente si fece seria e guardò Atom. Poi osservò la bottiglia, che puntava dritta su di lei.
Il suo cuore perse un battito e alzò nuovamente lo sguardo verso Atom, che le porse una mano per farla alzare.
Clarke la afferrò senza nemmeno rendersene conto, mettendosi in piedi e, involontariamente, i suoi occhi scivolarono su Bellamy, che sembrava essersi congelato sul posto, la postura rigida e l'espressione statuaria. Sembrava essere improvvisamente diventato di granito, assumendone anche il colorito grigiastro.
Perfino Octavia sembrava essersi allarmata.
«Sto per realizzare i tuoi sogni, Principessa».
Clarke non osò nemmeno voltarsi ad osservare Bellamy in quel momento. Era certa che, qualsiasi cosa avesse visto, non le sarebbe piaciuta.
Non ebbe il tempo di pensarci, perché una mano del moro si posò sul suo collo avvicinandola a sé e con l'altro braccio le cinse la vita.
Quando le loro labbra si incontrarono, Clarke sussultò, spalancando gli occhi e poi chiudendoli subito. Inaspettatamente non fu così male come aveva pensato e si ritrovò a rispondere a quel bacio senza nemmeno rendersene conto, le venne istintivo, posando le mani sull'addome del ragazzo, sentendo il profilo degli addominali sotto la t-shirt scura.
Atom schiuse le labbra, approfondendo quel contatto già così intimo e, involontariamente, Clarke strinse il tessuto della sua maglietta, trattenendolo a sé, poi, poco a poco, si allontanarono l'uno dall'altra.
Clarke deglutì, il respiro ancora affannoso e gli occhi puntati in quelli chiari del ragazzo di fronte a sé, ansante anche lui.
Nel seminterrato il silenzio era totale, la tensione avrebbe potuto tagliarsi con un coltello e fu Raven ad interromperlo.
«Ragazzi... questo sì che era un bacio!» esclamò e solo allora i più del gruppo si aprirono in una risata.
Non tutti però.
Con un ultimo sorriso, Atom si rivolse a Clarke: «Quando vuoi, Principessa» disse facendole l'occhiolino e tornando al suo posto.
Clarke invece rimase al centro della stanza. Toccava a lei. Così, si chinò e fece ruotare l'oggetto ai suoi piedi.
La bottiglia iniziò a rallentare verso Octavia, scivolò oltre Bellamy e, con un ultimo, tenue scatto, si fermò su Finn.
Dio, pensò la ragazza. Avrebbe di gran lunga preferito baciare Octavia.
I think I'm drowning
Asphyxiated
I wanna break this spell
That you've created
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Demons
FanfictionSono passati sei anni da quando Clarke Griffin è partita per il college. Sei anni e un dolore autodistruttivo dovuto alla morte del padre di cui non è mai stato preso l'assassino. A ventitré anni, Clarke fa ritorno a casa, ma non aveva immaginato ch...