CAPITOLO 16: OUT OF CONTROL
Crawling in my skin
These wounds, they will not heal
Fear is how I fall
Confusing what is real
There's something inside me that pulls beneath the surface
Consuming, confusing
This lack of self control I fear is never ending
Controlling
I can't seem
To find myself again
My walls are closing in
Strisciando dentro la mia pelle
Queste ferite non guariranno
Sono caduta per paura
Confondendo ciò che è reale
Dentro di me, sotto la superficie c'è qualcosa che preme
Consumando, confondendo
Temo che questa assenza di autocontrollo sia senza fine
Controllando, non mi sembra di ritrovare me stessa
Le mie pareti mi stanno intrappolando
Clarke sentiva una voce, da qualche parte in un angolo remoto della sua mente, ma era solo un'eco lontana. Un rimbombo distante, appartenente ad un'altra vita, la sua vita precedente prima di cadere nel limbo in cui era rimasta intrappolata.
Non sapeva a chi appartenesse, era come se fosse bloccata nella sua pelle, non riusciva a muoversi e non riusciva a pensare.
Poi per qualche istante, o forse qualche ora, o magari anni, la voce si interruppe e un silenzio assordante rimbombò nelle sue orecchie, dilatandosi all'infinito e confondendola.
Sentì una stretta sulle braccia, ma non riusciva a tornare in sé, fino a quando un volto vagamente familiare entrò nel suo campo visivo e lei impiegò qualche istante per riconoscerlo.
Bellamy.
«Clarke... Clarke, per favore... guardami. Clarke!».
Poco a poco, prese più consapevolezza di ciò che le stava accadendo, era una cosa che aveva imparato a conoscere fin troppo bene negli ultimi anni in cui aveva studiato medicina ad Harvard.
La definizione medica era: stato di sofferenza dei tessuti dovuto alla mancanza di ossigeno che, se protratto, può portare a un danneggiamento irreversibile dell'organismo. In altre parole... shock.
Questo stato, aveva tre classificazioni: ipovolemico, dato da una perdita di liquidi, ma non era quello il suo caso.
Cardiogeno, dato dalla diminuzione della forza del muscolo cardiaco, ma il suo stato attuale non era dovuto neanche a quello.
Infine, c'era lo shock distributivo, seguito da una dilatazione dei vasi sanguigni che poteva essere dovuto a malattie o lesioni del midollo spinale, ad anafilassi, a setticemia, a dolori intensi o, nel suo caso, a forti emozioni. Nello specifico, prendeva il nome di shock psicogeno.
I sintomi, a loro volta, si dividevano in tre fasi.
La prima era lo shock compensato, caratterizzata dall'aumento della frequenza cardiaca, altrimenti nota come tachicardia e polso arterioso rapido. Ne facevano parte iniziali alterazioni dello stato di coscienza, che potevano andare da una sensazione di irrequietezza sino ad un modesto stato confusionale, ossia ciò che Clarke provava proprio in quel momento. In quella fase, solitamente la cute era pallida e le estremità delle dita fredde.
Poi si passava alla seconda fase, ossia la fase dello shock scompensato, in cui si aveva una diminuzione della pressione arteriosa, polso arterioso sempre più rapido e quasi impercettibile, respirazione difficoltosa, frequente e superficiale e alterazioni dello stato di coscienza che potevano evolvere dalla confusione mentale alla sonnolenza fino all'instaurarsi di una condizione d'incoscienza, comunemente conosciuta come coma.
La terza fase era quella dello shock irreversibile, nella quale ormai il danno agli organi nobili (cervello e cuore) era talmente grave che qualsiasi supporto sanitario sarebbe risultato inutile.
Clarke era pienamente consapevole di ciò che le stava accadendo e, proprio per questo, doveva cercare di tirarsene fuori, doveva trovare qualcosa a cui aggrapparsi per strapparsi da quello stato di torpore in cui era precipitata dopo aver visto il nome di sua madre nero su bianco su quella pagina.
Sua madre. Aveva preso parte a quell'esperimento. Come aveva potuto?! Lavorava per le persone che avevano ucciso suo padre, dunque?
«Clarke!».
Ed ecco di nuovo la voce di Bellamy. Sembrava avere una nota disperata.
Riuscì finalmente a tornare in sé e a quel punto fissò gli occhi in quelli del moro che, sollevato, sospirò, prendendole il volto tra le mani e poggiando la fronte sulla sua.
Clarke deglutì, posando le mani sui fianchi del ragazzo.
Bellamy espirò, mano a mano il suo respiro si faceva più regolare.
Restarono in silenzio, in quella posizione per diversi minuti, poi lui spostò lo sguardo su quei fogli sparsi per terra.
«Che cos'è questa roba, Clarke?».
«Il contenuto della cassetta 21».
«Aspetta... cosa?! E quando saresti andata a prenderla?».
«Stamattina» rispose lei con semplicità.
«Clarke, non ti avevo detto di non muoverti da sola in questa storia?!» si tirò indietro, interrompendo quel contatto e guardandola dritto negli occhi, sembrava arrabbiato.
Seguì qualche istante di silenzio, poi...
«Bellamy?».
«Cosa c'è?».
«Mia madre ha ucciso mio padre» quella non era una domanda.
L'espressione di lui adesso parve ammorbidirsi. La afferrò dalle ascelle e la aiutò a mettersi in piedi.
«Non saltare a conclusioni affrettate, non possiamo saperlo con certezza».
«Non possiamo saperlo con certezza?! Bellamy, è il nome di mia madre quello! Lei ne faceva parte, faceva parte di quell'esperimento e ha lasciato che per questo uccidessero mio padre! Mi ha mentito per anni!» la sua voce si era fatta più alta adesso. E piena di rabbia.
Il cuore di Clarke aveva iniziato a pompare nel petto, un rombo sordo di sangue ribollente le invase le orecchie e la ragazza ebbe come l'impressione di svenire. Non poteva reggere anche questa.
Mise una mano su un tavolino poco distante per restare in equilibrio, ma ottenne solo il risultato di rovesciarlo, mandando in frantumi l'abat-jour che vi stava sopra e facendo piombare la stanza nel buio.
Sentiva le lacrime premerle contro le palpebre e stavolta non sapeva se sarebbe riuscita a trattenersi. Non voleva trattenersi. Troppo a lungo lo aveva fatto in quegli anni, troppo a lungo aveva soppresso tutti i pianti che avrebbe voluto soffocare la notte nel cuscino, ma che non erano mai stati versati.
Per orgoglio non aveva pianto, o forse perché sapeva di essere sola, che nessuno era lì per lei. Ora però forse le cose erano cambiate, perché, nel momento del bisogno, Bellamy sembrava essere sempre lì.
E si lasciò andare, prorompendo in un singhiozzo che sembrò spaccarla a metà, esattamente come la notte dell'omicidio di suo padre.
Prontamente, sentì due braccia afferrarla. Con tutta la forza che aveva si aggrappò alla maglietta di Bellamy, la strinse e lo strattonò, graffiandolo, prendendolo a pugni, soffocando le urla contro il suo petto. Stava perdendo il controllo, anzi, lo aveva già perso. Era fuori controllo.
Il ragazzo non diceva niente, se ne stava lì, stringendola forte, lasciando che lei si sfogasse sul suo corpo, lui che le era stato accanto nei suoi momenti peggiori.
E poi non ce la fece più, così si accasciò e Bellamy la sorresse, proprio come aveva sempre fatto. La sollevò, portandola al piano di sopra, facendola sdraiare sul suo letto e poi rialzandosi, ma Clarke non voleva che andasse via, voleva che restasse, ne aveva bisogno.
Lo afferrò per l'orlo della maglietta e lo trascinò di nuovo su di sé.
«Ma che... ?».
«Resta. Ho bisogno di te» disse solo e stavolta fu lei a stringerlo.
Per un momento le parve come se fosse rimasto bloccato, sorpreso di quelle parole che di certo da lei non si sarebbe aspettato, poi le sue braccia le restituirono la stretta e lui sospirò tra i suoi capelli.
«Sono qui».
E solo allora la ragazza cadde in un sonno profondo.
Quella notte sognò suo padre su un tavolo operatorio, sveglio e terrorizzato, con la consapevolezza che qualcosa di terribile stava per accadergli.
Gli occhi spalancati iniettati di sangue, un tubo infilato in gola che non gli permetteva di parlare, polsi e caviglie bloccati al letto da robuste fasce di cuoio. Cercò di urlare, ma era tutto inutile.
Poi qualcosa, o meglio, qualcuno attirò la sua attenzione: un medico era entrato nella stanza, un chirurgo probabilmente.
Si avvicinò al tavolo sul quale suo padre si trovava disteso e soltanto quando si tolse la mascherina Clarke riuscì a vederlo bene in faccia. O meglio... vederla. Sua madre se ne stava lì in piedi, con un ghigno beffardo e occhi spietati, un bisturi in mano.
«Avresti dovuto farti gli affari tuoi, Jake» e, detto ciò, incise il torace di suo padre, che sgranò ulteriormente gli occhi e lanciò un grido che, se fosse stato in grado di emettere un suono comprensibile, probabilmente si sarebbe sentito a distanza di isolati.
Clarke si svegliò urlando e in un bagno di sudore.
«Clarke! Clarke! Ehi, è tutto a posto, è tutto a posto. Ci sono qui io, calmati».
La voce rassicurante di Bellamy emerse da qualche parte in quell'oscurità.
«Bellamy... ».
Lo cercò nel buio, lui le prese una mano.
«Stavolta è troppo. Non ce la faccio».
«Sì, Clarke. Sì che ce la fai, sei la persona più forte che io conosca e... se non ce la farai da sola... ce la faremo insieme. Te lo prometto, non ti lascerò affrontare questa cosa da sola».
«Resti con me?».
«Ho detto insieme. Certo che resto con te. Era sempre il solito incubo?».
«No... no. Stavolta era diverso. Stavolta era molto peggio» così, brevemente, la ragazza gli raccontò cosa aveva visto.
«Clarke, tua madre potrà anche essere implicata in questa storia, ma di certo non ha fatto una cosa del genere a tuo padre, credimi. Non lo avrebbe mai fatto. Il tuo incubo è solo il risultato di ciò che hai scoperto stasera ed è normale, credimi. Chiunque avrebbe fatto un brutto sogno simile nella tua situazione, ma non devi aver paura, ok? Io sono qui e non permetterò che ti accada qualcosa di brutto, hai capito? Te lo prometto».
Lei annuì, abbracciandolo e posando la testa nell'incavo del suo collo.
«Grazie, Bellamy».
«Cerca di dormire, Principessa. Io sono qui».
La bionda annuì, poi tornò a sdraiarsi, imitata da lui e nel giro di pochi istanti si addormentò di nuovo.
Quando riaprì gli occhi, una tenue luce filtrava dalla tenda, doveva essere ancora presto. Si voltò nel letto, convinta del fatto che avrebbe trovato Bellamy al suo fianco, ma tutto ciò che vide fu il lenzuolo disordinato e il materasso vuoto.
Uno strano senso di freddo la pervase.
Si alzò dal letto, avviandosi al piano inferiore e vide la porta dello studio di suo padre accostata, così si avvicinò e la spinse, trovando il ragazzo seduto alla scrivania che per tanti anni era stata occupata prima da suo padre, poi da Marcus. Aveva lo sguardo assorto di una persona che non si sarebbe nemmeno accorta se un aereo fosse precipitato sul tetto di casa, il viso pallido e gli occhi cerchiati.
«Bellamy?» un senso d'inquietudine serpeggiò in Clarke quando si accorse del fatto che il ragazzo stava leggendo i documenti che la sera precedente avevano lasciato lì. Quegli stessi documenti che lei non aveva letto perché era piombata in una sorta di stato di catatonia non appena aveva visto la firma di sua madre.
In un primo momento il moro non parve neanche sentirla, poi, lentamente, alzò lo sguardo.
«Hai letto questa roba?».
Clarke fece cenno di diniego con la testa.
«Dovresti farlo allora perché sono tutte cose mediche e io non ci capisco nulla».
La bionda abbozzò un sorriso, poi prese in mano i documenti che Bellamy le porgeva.
Ad una scorsa veloce sembrava lo studio per un nuovo farmaco, ma non era un'esperta in materia, non poteva esserne certa.
«Di che si tratta?» chiese il ragazzo dopo un po'.
«Credo che stessero lavorando ad un farmaco di nuova generazione, o forse un vaccino, le informazioni sono ridotte al minimo e io non ho assolutamente esperienza nel campo, non saprei dirlo con certezza».
«Posso chiederti una cosa?» prese parola lui dopo qualche altro minuto.
«Te l'ho già detto una volta, Bellamy: tu chiedi, io semmai ti mando al diavolo».
Il ragazzo sfoderò un mezzo sorrisetto, poi disse: «Pensi che le parlerai? Che le chiederai spiegazioni?».
«Di che stai parlando?».
«Di tua madre, naturalmente».
La bionda emise una mezza risata priva di qualunque allegria.
«Secondo te cosa potrei chiederle Bellamy? Ciao mamma, per caso sei coinvolta nella morte di papà? No. Lei non parlerebbe mai».
«Dovrà pur dirti qualcosa!».
E solo in quel momento Clarke si ricordò di un dettaglio che le era sfuggito, che le era sembrato strano sì, ma a cui non aveva dato troppo peso.
«La mattina al comune... » disse solo e non fece caso all'espressione interrogativa di Bellamy.
«Di che stai parlando?».
«La mattina in cui sono andata al comune per richiedere il certificato di morte di mio padre, l'impiegata ha detto che solo io avrei potuto ritirarlo e che questa era stata una sua richiesta specifica. Non ti sembra strano? Da quanto ne so io è un documento che dovrebbe essere accessibile a chiunque, mentre lui non ha voluto. Lui sapeva del coinvolgimento di mia madre in questa storia, forse l'ha scoperto all'ultimo e ha capito di essere nei guai. Non si fidava più di mia madre».
L'espressione del ragazzo di fronte a sé era cupa, le braccia incrociate al petto e la mascella serrata.
«Clarke, questa storia non mi piace affatto, dobbiamo andarci cauti e dobbiamo coinvolgere la polizia. Ne parlerò con Lincoln».
«Arresterebbero mia madre. Lei è un pezzo grosso e se non fosse l'unica ad essere coinvolta? La polizia di Brooklyn sei anni fa non mosse un dito per indagare sul caso, se anche loro ne fossero al corrente? Se fosse coinvolto Kane? All'epoca dell'omicidio lui lavorava al Dipartimento di Brooklyn».
«Clarke, mettiti bene in testa una cosa: io non rischierò la tua vita per questo».
A quelle parole, la ragazza rimase immobile per un momento, osservando il ragazzo come se lo vedesse per la prima volta.
«Ma Bellamy... si tratta di mio padre! Dopo quasi sette anni posso finalmente scoprire cosa gli è successo davvero!».
«Lo so Clarke, ma per quanto sia orribile da dire, lui ormai non c'è più. Tu invece sei proprio qui e sei così viva. Se ti succedesse qualcosa? Se rimanessi ferita o peggio? Credi che tuo padre avrebbe voluto una cosa del genere? Credi che vorrebbe che mettessi in pericolo la tua vita per questo?».
Bellamy sembrava sul punto di dire qualcos'altro, ma poi parve ripensarci e Clarke sospirò pesantemente, passandosi una mano sulla fronte.
«Non lo so Bellamy. Io non lo so. So soltanto che deve esserci un motivo per cui ha voluto che io, e solo io, potessi richiedere quel maledetto certificato».
Il moro chiuse gli occhi e annuì.
«Sei la persona più dannatamente testarda che io abbia mai conosciuto, ma va bene. Se proprio non hai intenzione di lasciar perdere questa cosa, la faremo insieme. Quindi non provare più a fare qualcosa per conto tuo e avvertimi, la prossima volta. Anche se è qualcosa di stupido come andare a richiedere un certificato di morte o andare a ritirare la cassetta di sicurezza. È chiaro?».
«D'accordo. E... Bellamy?».
«Sì?».
«Grazie».
Lui annuì nuovamente.
Seguì qualche istante di silenzio prima che Clarke riprendesse parola.
«Se su quei documenti c'era il nome di mia madre, deve esserci anche quello degli altri medici coinvolti, aiutami a controllare, ok?».
Così, i due si misero alla ricerca. Passarono almeno mezz'ora con i nasi tra quei fogli, finché Bellamy non alzò un foglio dicendo: «Trovato!».
Clarke gli si avvicinò immediatamente, sbirciando da sopra la sua spalla. C'era una lista di nomi suddivisa in due colonne, non era molto lunga, più o meno una dozzina di nomi in tutto, ma fu uno in particolare a colpire l'attenzione di Clarke: Dottoressa Lorelei Tsing.
La ragazza cercò di concentrarsi... perché quel nome le suonava tanto familiare? D'un tratto spalancò gli occhi, trattenendo il respiro.
«Clarke! Che cosa succede?».
La voce di Bellamy sembrava preoccupata.
Un rapido flashback passò nella testa di lei, riportandola alla notte in cui suo padre era morto.
*Una donna alta e magra uscì dal blocco delle sale operatorie, la carnagione olivastra e gli occhi scuri, i capelli raccolti nascosti da una cuffia da chirurgo erano neri, l'espressione fredda.
«Salve. Lei è la signorina Griffin?» le chiese con un tono privo di qualsiasi inflessione.
Clarke, pallida e con gli occhi arrossati annuì, tremando all'idea di ciò che la donna stava per dirle. Quando era bambina, sua madre la portava spesso al lavoro perché non sapeva a chi lasciarla e molte volte le aveva visto quell'espressione dopo aver perso un paziente, al momento di comunicarlo alla famiglia.
«Io sono la dottoressa Tsing. Mi dispiace terribilmente Clarke, ma... tuo padre non ce l'ha fatta. Abbiamo tentato tutto ciò che era umanamente possibile, ma non c'è stato nulla da fare. L'entità della ferita riportata era troppo grave. Non c'è più»*.
Con quelle parole, il mondo che Clarke conosceva era finito. "Tutto ciò che era umanamente possibile". Aveva sempre detestato quella frase. L'aveva sentita spesso nei film e nelle serie tv mediche e poi era stata rivolta a lei. E lei l'aveva davvero odiata.
Solo allora la ragazza poté finalmente rendersi conto di quanto quella storia era stata magistralmente montata in modo che tutto sembrasse casuale, uno sfortunato incidente. Adesso che però ogni pezzo del puzzle stava tornando al suo posto, le cose poco a poco si facevano sempre più chiare.
Chiaro come molte persone di cui avrebbe dovuto fidarsi fossero coinvolte nell'omicidio dell'unica persona a cui fosse stata veramente legata nella sua vita. Chiaro come suo padre fosse stato lasciato morire su quel tavolo operatorio.
Quella scoperta le provocò un tale senso di nausea e una tale rabbia, che Clarke non riuscì a capire se aveva bisogno di vomitare o di distruggere qualcosa.
Di nuovo, fu la voce di Bellamy che la riportò indietro dai suoi pensieri.
«Clarke!».
«Lei era lì... ».
«Di che stai parlando?».
«Questa... questa dottoressa Tsing... è stata lei ad operare mio padre la notte in cui è morto. È stata lei a dirmi che non ce l'aveva fatta».
A quelle parole Bellamy parve immobilizzarsi sul posto.
«Dobbiamo scoprire la verità, Bellamy. Dobbiamo sapere chi altro era in sala operatoria quella notte e capire com'è andata davvero».
Il ragazzo la guardò dritto negli occhi e annuì.
«C'è solo una cosa che non mi torna e io sono totalmente ignorante in materia per cui se sto per dire una stronzata fermami, ma... se stavano lavorando ad un nuovo farmaco... quale bisogno c'era di avere dei chirurghi in équipe?».
Quella domanda lasciò Clarke interdetta per qualche istante, poi, un'ipotesi tanto improbabile quanto orribile cominciò a farsi strada nella sua mente.
«Questo dipende. Bellamy... ho un'idea, ma è così orribile che non voglio neanche pensarci».
Lui la osservò con sguardo intenso e attese che continuasse.
«Non stavano testando il nuovo farmaco su qualcosa... lo stavano testando su qualcuno».
Seguì qualche istante di silenzio teso prima che Bellamy riprendesse parola.
«Me ne occuperò io Clarke, tu non farlo».
Per un momento, la ragazza rimase interdetta.
«Bellamy, il tuo volermi proteggere è molto bello, ma... questa cosa riguarda me, la mia famiglia. Non puoi proteggermi da questo».
«Posso, invece. Mi porto via i documenti, me ne occuperò mentre sono in ferie» disse alzandosi dalla sedia e raccogliendo i fogli sparsi sulla scrivania, ma Clarke gli si piazzò davanti.
«No. Non esiste. Non farmi pentire di averti coinvolto. Hai detto insieme, no? Quindi lo faremo insieme».
Un vago lampo di rabbia misto a rassegnazione passò negli occhi del moro.
La ragazza lesse con più attenzione quei documenti e allora, poco a poco, riuscì a dare un senso e a mettere insieme tutto ciò che aveva trovato fino a quel momento. I test genetici erano stati fatti per arrivare fino a quel farmaco. Avere delle cavie umane era più attendibile di qualche topo da laboratorio e più immediato, meno dispendioso. C'erano meno tentativi da fare e sembrava che su certe persone avesse maggiore effetto che su altre.
Più andava avanti più le veniva la pelle d'oca e Clarke nemmeno si accorse della presenza di Bellamy, figura imponente in piedi al suo fianco. Non si rendeva conto di nulla se non di quelle parole così crudeli e così inequivocabili stampate nero su bianco.
Irrisorie, era come se le dicessero: "Ecco qui, ecco qual era la tua famiglia perfetta, ecco come la tua intera vita è stata costruita sopra una bugia. Un castello di carte crollato non appena la prima è venuta a mancare".
Clarke credeva che quelle parole l'avrebbero paralizzata lì sul posto, su quel divano, esattamente com'era successo il giorno prima quando aveva visto la firma di sua madre.
Ma ora? Ora una rabbia folle iniziò a montarle dentro, violenta e inarrestabile, dilagante, facendole venire voglia di mettersi nuovamente a lanciare oggetti in giro per casa. In quel momento sarebbe stata capace di demolire quella casa mattone dopo mattone, lo sguardo vuoto puntato dinnanzi a sé, le braccia cominciarono a tremare.
«Clarke?».
La voce di Bellamy, che prima per lei era stato un balsamo, adesso le urtò i nervi, come un fischio fastidioso di cui non riesci a liberarti. In cuor suo sapeva che lui era stato l'unico a non averla mai tradita, a non averla mai delusa, ma forse proprio per questo in quel momento doveva allontanarsi da lui.
Allora dove poteva andare? Perché aveva perso, aveva perso tutto.
E improvvisamente fu come se la nebbia nella sua mente si diradasse, facendo tornare tutto estremamente chiaro e solo allora seppe. Seppe cosa doveva fare, finalmente era pronta.
Scattò in piedi e, più velocemente di quanto credesse possibile, si ritrovò sulla porta e poi giù lungo le scale e infine in macchina, prima di rendersene conto.
Partì, e Bellamy ben presto divenne solo un punto sfocato e lontano sul ciglio della strada.
Era stata lì solo una volta, ma i suoi piedi la guidarono in mezzo alle tombe, su quel sentiero ghiaioso come se ci fosse andata ogni giorno negli ultimi sei anni.
Suo padre sorrideva sulla foto scelta da sua madre per l'epigrafe e quel sorriso la ferì, facendola sanguinare all'interno.
Cadde in ginocchio dinnanzi alla lapide e calde lacrime iniziarono a sgorgarle inesorabili dagli occhi, brucianti. Solo allora si rese pienamente conto di quanto Jake le mancasse. E fece male. Fece così male. Il dolore ben presto divenne fisico e lei si piegò in due, tenendosi l'addome, mentre tutto ciò che avrebbe voluto dire a suo padre sfociò in quelle lacrime, che caddero sulla sua tomba e così lei sperò che in qualche modo potessero arrivare anche a lui.
Non seppe quanto tempo passò, ma ad un certo punto non ebbe più neanche la forza per piangere, dunque percorse la strada inversa, tornando alla macchina e chiudendo gli occhi, abbandonandosi contro il sedile per qualche minuto.
Quando si fu ripresa mise in moto la macchina, dirigendosi nuovamente verso casa. Non sapeva quanto tempo fosse stata via, poi vide che ormai era quasi mezzogiorno. Impiegò un quarto d'ora per tornare e, quando mise piede nell'ingresso, vide Bellamy seduto sulle scale che portavano al piano superiore, lo sguardo fisso davanti a sé, che spostò su di lei non appena la vide.
«Sei ancora qui... » constatò lei.
«Ti sei calmata?».
La bionda annuì e lui si alzò.
«Sto preparando il pranzo» disse come se fosse la cosa più naturale del mondo, quando in realtà quella situazione di naturale non aveva proprio nulla.
Così, si avviarono in cucina, senza parlarsi né guardarsi.
A Clarke non sembrò strano nemmeno il fatto che Bellamy si fosse messo ad armeggiare tra pentole e padelle nella sua cucina, ma ormai poteva dire che sì, in qualche strano modo il loro rapporto era arrivato a quella confidenza, anche se nessuno dei due lo avrebbe mai ammesso. Erano entrambi troppo testardi e orgogliosi.
Finirono di preparare senza parlare, poi si sedettero al tavolo e cominciarono a mangiare.
Clarke sperava che Bellamy dicesse qualcosa, quel silenzio tra di loro non le piaceva e cominciava a farsi un po' troppo pesante, ma sapeva anche che era colpa sua e che quindi toccava a lei fare il primo passo.
«Mi dispiace» disse più rivolta al piatto che a lui, ma Bellamy smise di mangiare e alzò gli occhi.
«Ora vuoi dirmi cos'è successo?».
«Non ci ho più visto, Bellamy. Non dovevo scappare in quel modo, lo so, ma è stata l'unica cosa che mi sia venuta in mente, l'unica cosa che potessi fare, credimi. Era meglio che tu non mi vedessi in quello stato».
«Forse non hai ancora capito una cosa, Clarke: io posso sopportarlo. Posso sopportare ogni tuo stato d'animo, indipendentemente che tu sia arrabbiata, a pezzi o dilaniata dal dolore. Posso farlo. Ma se non mi parli e scappi... allora non so cosa fare. Non capisco perché non riesci a fidarti completamente di me, non so più come convincerti del fatto che sono dalla tua parte, che non ti lascerò affrontare questa cosa da sola».
A quelle parole, Clarke si sentì in colpa. Era vero: Bellamy non le aveva mai dato ragione di dubitare di lui. Il problema era lei: lei e il fatto che, semplicemente, dubitava di tutti e si aspettava di essere pugnalata alle spalle o delusa da chiunque in qualsiasi momento.
«Scusa» ripeté.
Bellamy le lanciò un altro sguardo intenso, poi sospirò.
«Va bene. Ma la prossima volta che scappi, per favore... dimmi dove vai».
A quelle parole Clarke abbozzò un sorriso e così fece lui.
L'atmosfera tornò a farsi distesa e quando finirono lavarono i piatti, rimettendo tutto in ordine, dopodiché tornarono nello studio.
Finalmente tutto stava cominciando a quadrare, ma c'erano ancora tante cose da scoprire e, il primo passo, sarebbe stato arrivare a tutte le persone che si trovavano nella sala operatoria in cui suo padre era morto.
Ora, costi quel che costi, Clarke era più decisa che mai a scoprire la verità.
Maybe it was all too much
Too much for a man to take
Everything's bound to break
Sooner or later, sooner or later
[...]
When it all falls, when it all falls down
I'll be your fire when the lights go out
When there's no one, no one else around
We'll be two souls in a ghost town
[...]
Tell me how we got this far
Every man for himself
Everything's gone to hell
We gotta stay strong, we're gonna hold on
Forse è stato tutto troppo
Troppo da chiedere a un solo uomo
Tutto è destinato a spezzarsi
Prima o poi, presto o tardi
[...]
Quando tutto cade, quando tutto crolla
Sarò il tuo fuoco quando le luci si spengono
Quando non c'è nessuno, nessun altro intorno
Saremo due anime in una città fantasma
[...]
Dimmi come siamo arrivati a questo punto
Ogni uomo per se stesso
Tutto è andato all'inferno
Dobbiamo rimanere forti, dobbiamo resistere
Se dieci anni prima avessero detto a Bellamy che si sarebbe trovato a quel punto, non ci avrebbe mai creduto, eppure adesso era lì: chiuso nello studio di casa Griffin a cercare informazioni completamente assurde. Con Clarke al suo fianco.
Quella ragazza era diventata poco a poco una presenza costante nella sua vita e lui non riusciva ad immaginare adesso come sarebbe potuto essere non averla più accanto a sé.
Era pienamente consapevole dei sentimenti che provava nei suoi confronti, specialmente dopo la serata al pub dei genitori di Monroe. Quando Atom l'aveva baciata, senza parlare di quel reietto di Finn poi... aveva veramente avuto voglia di rompere il naso ad entrambi, non gli importava se uno di essi era il suo migliore amico.
E quando era stato il suo turno di baciare qualcuno, avrebbe voluto che quella persona fosse Clarke, anche se era andata diversamente.
Ora si trovavano lì, in quello studio, cercando qualsiasi informazione che potesse aiutarli a scoprire finalmente tutta la verità sulla morte del dottor Griffin.
Dopo aver scoperto del coinvolgimento di Abby Griffin, Bellamy aveva visto Clarke crollare. Aveva perso il controllo, riversando su di lui tutta la sua rabbia e il dolore che fino a quel momento aveva cercato di reprimere e lui li aveva accolti... li aveva accolti perché sapeva che questo l'avrebbe fatta sentire meglio, l'avrebbe scaricata da tutta quella tensione che aveva accumulato.
Era stato il suo porto sicuro, qualcuno su cui contare mentre tutto intorno a lei crollava, persino le poche certezze che ormai le erano rimaste. E lui si era reso conto che voleva essere quella persona, che, in fin dei conti, loro erano molto simili, ognuno con i propri demoni da fronteggiare e il loro dolore. Come se fossero due anime perdute in un mondo troppo crudele per essere affrontato da solo.
Adesso guardò Clarke mentre non staccava gli occhi dai documenti trovati nella cassetta 21 e si rese conto di quanto veramente fosse stanca.
Erano le sei di pomeriggio ormai, erano stati rinchiusi lì dentro tutto il giorno e avevano bisogno di staccare un po' entrambi.
Così, Bellamy le si avvicinò, posandole una mano sulla spalla e lei distolse l'attenzione, portandola su di lui.
«Basta così, Clarke. Direi che per questi due giorni abbiamo scoperto abbastanza. Devi riposare».
«Ma... ».
«Niente ma. E per essere sicuro che davvero non starai con il naso infilato lì dentro fino a domattina, questi me li porto via io» disse cominciando a raccogliere i documenti.
«Bellamy aspetta. Tu puoi andare se sei stanco, ma lascia che io continui».
«No, Clarke. Il punto è proprio questo: hai bisogno di riposare, quindi non fare storie. Io adesso me ne torno a casa portando via tutta questa roba, mentre tu vai a farti una bella doccia, mangi qualcosa e poi te ne vai a letto. Sei distrutta, si capisce benissimo».
Lei sospirò, passandosi una mano tra i capelli.
«Va bene. Grazie Bellamy».
Il ragazzo sorrise.
«Ci sentiamo domani, d'accordo Principessa?».
Clarke gli lanciò un'occhiataccia.
«Piantala».
«Non lo farò mai, rassegnati».
La bionda sbuffò divertita.
«Sei odioso».
«Però ti faccio ridere. Buona serata» e detto questo, uscì dallo studio avviandosi lungo le scale che portavano al piano inferiore.
Riprese la sua auto, rimasta lì dalla sera precedente e si riavviò a casa.
Tutto era buio e immobile esattamente come lo aveva lasciato e subito il ragazzo si diresse in camera sua, portando con sé il plico di documenti e chiudendolo a chiave in un cassetto della sua scrivania.
Non sapeva di preciso perché lo avesse chiuso a chiave, d'altra parte viveva lì da solo e nessun altro a parte Clarke era a conoscenza di quei documenti, ad ogni modo volle prendere quella misura di sicurezza.
Mentre era lì prese dei vestiti puliti e si diresse in bagno. Aveva veramente bisogno di una doccia.
L'acqua scivolò sulla sua pelle in rivoli che si inseguirono tra i solchi dei suoi muscoli, in uno strano gioco che rimase a fissare affascinato per qualche minuto.
Gli piaceva la sensazione dell'acqua tiepida sul suo corpo, lo rilassava incredibilmente.
Quando sentì che i suoi muscoli erano un po' più sciolti uscì dalla cabina, avvolgendosi un asciugamano intorno alla vita.
In quel momento suonò il campanello e lui andò ad aprire, chiedendosi chi potesse essere.
«Per l'amor di Dio, mettiti qualcosa addosso».
Atom, il solito idiota.
Bellamy gli rivolse il suo classico mezzo sorriso arrogante e si scostò per lasciarlo entrare.
«Come mai da queste parti?» gli chiese.
«Non posso venire a rompere le scatole al mio migliore amico ogni volta che ne ho voglia?».
«Mmm... fammici riflettere un secondo. No» disse infine, ma fece una certa fatica per non mettersi a ridere a sua volta.
Atom entrò come se fosse a casa propria, d'altra parte il rapporto che aveva con Bellamy era quello: erano come fratelli e Bellamy non si comportava diversamente quando andava a trovare l'amico.
«Piuttosto Bell... non è che ti disturbo?».
Il padrone di casa lanciò una strana occhiata al ragazzo.
«Ti sembra che stessi facendo qualcosa di importante?».
«No, ma magari... sai, mi chiedevo se fossi in compagnia».
Bellamy impiegò qualche istante prima di recepire il reale messaggio che Atom gli stava mandando e subito cambiò atteggiamento, fulminandolo con uno sguardo.
«Ma quanto sei stronzo... ».
A quelle parole, Atom si mise a ridere.
«Oh, ma per favore. Se prima ne avevo solo il sospetto, dopo la serata al pub ne ho avuto la conferma, Bellamy: ti sei preso veramente una bella cotta per la Principessa. Chi l'avrebbe mai detto?».
Bellamy incrociò le braccia al petto con sguardo torvo, dopodiché, visto che non spiccicava parola, fu di nuovo Atom ad interrompere il silenzio.
«Sai una cosa? Devo ammettere che Clarke bacia davvero bene» disse con un sorrisetto furbo.
Ogni accenno di sorriso ora però era sparito dal viso di Bellamy, che invece sembrava essere diventato di marmo, freddo e immobile. La mascella serrata, gli occhi lievemente sgranati gli lanciarono uno sguardo omicida.
«E questo dovrebbe essere disinteresse? Amico... sei ridicolo».
Bellamy non disse niente e si avviò di nuovo in bagno per vestirsi.
Lo avrebbe ucciso. Una strana morsa gelida intanto gli aveva avvolto il cuore e finalmente ammise a sé stesso che non poteva trattarsi di altro se non gelosia e, quando fece ritorno in cucina, Atom era ancora lì, poggiato contro il tavolo, le braccia incrociate al petto ad osservarlo con aria vittoriosa.
«Ammettilo. Ammettilo e ti lascerò in pace. Ammettilo e potrei addirittura aiutarti con la tua bella».
«Sparisci» sputò il padrone di casa fuori dai denti, facendo scoppiare l'altro in una fragorosa risata.
A quel punto, Atom alzò le mani in segno di resa.
«D'accordo, d'accordo. Non c'è bisogno di scaldarsi tanto, ma lascia che te lo dica: sei un idiota e dovresti davvero parlare con Clarke, quella ragazza potrebbe sorprenderti. Adesso vado perché io, a differenza di qualcun altro, devo lavorare».
Bellamy gli diede una pacca sulla spalla, forse un po' più forte di quanto avrebbe dovuto, poi seguì l'amico all'ingresso e si salutarono.
«Ricorda le mie parole Bell: Clarke potrebbe sorprenderti!» e, detto ciò, gli voltò le spalle e si avviò lungo il vialetto.
Rimasto nuovamente solo, Bellamy tornò in casa, era quasi ora di cena, ma non aveva molta fame, così andò in camera sua e tirò nuovamente fuori i documenti dal cassetto.
Rilesse tutto, prestando maggiore attenzione ai fogli che Clarke aveva trovato all'interno della cassetta di sicurezza e solo allora si accorse di qualcosa che prima nessuno dei due aveva notato: una parola, scritta a mano e cerchiata con una penna rossa: "TIMELESS".
Prese il cellulare, pronto per chiamare Clarke, ma, quando stava per premere il pulsante verde sullo schermo, ritrasse nuovamente la mano. Era andato via per darle la possibilità di riposare, ne aveva bisogno; sapeva che lei lo avrebbe raggiunto senza pensarci due volte se l'avesse chiamata e quel pensiero lo fece desistere.
Dunque accese il suo portatile e provò a digitare quella parola sul motore di ricerca. Subito una sfilza di risultati riempì la pagina: un album musicale, una fabbrica, un ristorante, un negozio di orologi, la cover band di un gruppo rock. Nulla che lo aiutasse a capire.
Provò ad ampliare le sue vedute. A cos'altro avrebbe potuto riferirsi quella parola? Una password? Poteva anche essere, ma aveva bisogno dell'aiuto di Clarke per questo, lei di sicuro conosceva suo padre molto meglio di lui e forse, se quella parola le avesse detto qualcosa, avrebbe potuto metterli sulla strada giusta.
Ad ogni modo, quella sera non aveva intenzione di disturbarla, così decise di concentrarsi su altro, per esempio sulla dottoressa Lorelei Tsing e sull' équipe che la notte della morte di Jake Griffin si trovava in sala operatoria con lei.
Ciò che Clarke gli aveva detto era inconcepibile per lui. In che modo un gruppo di medici potevano aver usato altre persone come cavie umane? Che diavolo, erano forse tornati nel Medioevo? Come poteva essere compiuta al giorno d'oggi una tale barbarie?
Bellamy sospirò pesantemente e si mise al lavoro, anche se non sapeva da dove partire. Se solo avesse avuto qualcuno all'interno dell'ospedale che lo avesse aiutato avrebbe potuto... un'illuminazione parve folgorarlo. Octavia.
Lei lavorava in un ospedale, forse era a conoscenza di dove fossero reperibili quelle informazioni, ma poi ci pensò su un momento. Voleva davvero mettere Octavia in mezzo ad un affare simile? No, non doveva permetterlo, per lui sua sorella era troppo importante.
Però nulla gli impediva di sondare il terreno senza dare troppo nell'occhio e decise che avrebbe fatto così. Prese le chiavi della macchina e si avviò verso casa della sorella, sperando solo che lei non fosse in turno in ospedale.
Suonò il campanello e la ragazza venne ad aprire la porta dopo qualche istante.
«Ehi, fratellone! Come stai?» disse lei buttandogli le braccia al collo, abbracciandolo.
Lui restituì la stretta, poi si allontanò sorridendo e le scompigliò giocosamente i capelli.
«Vieni, entra pure» disse la ragazza scostandosi per lasciarlo passare.
Si sedettero entrambi sul divano del salotto e chiacchierarono un po' del più e del meno, fino a quando Octavia disse: «Ehi, sai cosa? In reparto è arrivata dalla rianimazione una certa Jenny, ha ventun anni e ha avuto un incidente stradale. Credo sia la ragazza che hai tirato fuori dalla macchina».
A quelle parole, Bellamy si illuminò.
«Sta bene?!».
«Bene è una parola grossa, ha parecchie fratture, anche brutte e ha perso il suo migliore amico. Diciamo che è viva. Però è molto positiva».
Lui sospirò.
«Salutamela tanto» a quel punto provò a sondare il terreno, il vero motivo per cui era andato lì.
«Senti O... tu sai per quanto restano registrate le équipe operatorie negli schedari dell'ospedale?».
«Mmm... se non sbaglio sono sette anni, almeno da noi all'Ark Medical. Come mai ti interessa?».
«Curiosità» disse lui sfoderando un sorrisetto che sperava l'avrebbe convinta e sua sorella non fece domande, quindi immaginò di essere riuscito nell'intento.
Sette anni. Sarebbero scattati a novembre di quell'anno, era arrivato giusto in tempo e doveva scoprirlo entro allora, altrimenti sarebbe andato tutto distrutto.
Non sapeva dove fossero conservati quei documenti, ma era meglio fermarsi lì per non insospettire Octavia, aveva già attirato abbastanza l'attenzione con la prima domanda e lei certamente non era stupida. Avrebbe capito che qualcosa non andava, che le sue domande erano mirate ad un fine.
Avrebbe sempre potuto chiedere a Clarke, tanto di certo lei avrebbe potuto aiutarlo in questo.
Spostò la conversazione per non destare sospetti in sua sorella e restarono a chiacchierare del più e del meno per un'altra ora circa.
Octavia non gli accennò nulla su Lincoln e non portava alcun anello al dito, dunque lui non le aveva ancora fatto la proposta. Bellamy si chiese cosa stesse aspettando, prima di ricordare che a breve sarebbe stato il loro anniversario e tra sé sorrise. Era proprio felice per la sua sorellina.
Si congedò quando ormai erano le dieci di sera e salutò Octavia con un bacio sulla guancia prima di rimettersi in macchina e tornare a casa.
Tutta la stanchezza accumulata in quei giorni si fece sentire all'improvviso ed ebbe appena il tempo di cambiarsi e lasciarsi cadere a peso morto sul letto prima di sprofondare in un sonno profondo e tranquillo.
La mattina seguente si svegliò carico e rinvigorito e saltò giù dal letto senza perdere tempo. Prese in mano il cellulare e trovò una chiamata persa da Clarke, così la richiamò subito.
«Principessa! Che succede? Non puoi fare a meno di me? Sentivi già la mia mancanza?».
«Taci Blake».
Ma Bellamy capì dal suo tono che probabilmente stava sorridendo. Anche lei sembrava di buon umore e questo fece ulteriormente allargare il suo sorriso.
Fu di nuovo Clarke a riprendere parola.
«Io mi sono riposata, perciò possiamo anche riprendere da dove eravamo rimasti. Ti raggiungo?».
Bellamy lanciò un'occhiata all'orologio.
«No, vengo io da te. Prendo i documenti e arrivo».
«D'accordo. Ti aspetto allora».
«A tra poco Principessa».
«Ciao Blake» disse lei in tono divertito e, subito dopo, riattaccò.
Dopo cinque minuti Bellamy era di nuovo in macchina, con il plico di fogli sul sedile del passeggero accanto a sé.
Non impiegò molto per arrivare davanti casa Griffin e, prima ancora di arrivare alla veranda, la porta si aprì, rivelando l'ingresso che ormai aveva imparato a conoscere.
«Principessa».
«Blake» si salutarono i due, non riuscendo poi a trattenere un sorriso divertito.
«Hai riposato?».
«Sì, grazie per l'interessamento. Ora però riprendiamo da dove eravamo rimasti».
«Io in realtà credo di aver trovato qualcosa, ma ho bisogno del tuo aiuto».
Subito l'espressione di Clarke mutò, facendosi seria e attenta.
«Dimmi tutto» e, detto ciò, si avviarono al piano di sopra, nello studio. Ormai quello sembrava essere diventato il loro quartier generale.
Bellamy tirò fuori i documenti, in particolare il foglio in cui era scritta quella parola.
«"Timeless"... non saprei a cosa potrebbe riferirsi, però l'ha cerchiata in rosso... sembrerebbe importante».
«Sono certo del fatto che se riusciamo a capire a cosa si riferisce arriveremo a un punto di svolta. A te non viene in mente nulla?».
«No, niente».
«Ho provato a cercare su internet, i risultati erano veramente infiniti. Un mucchio di posti tra ristoranti, fabbriche, un negozio di orologi, ma proprio non saprei a cosa collegarlo. Dobbiamo cercare di restringere il campo».
«D'accordo. Vado un momento in camera a prendere il mio portatile. Torno subito».
Bellamy annuì e nel frattempo avvicinò una poltrona alla scrivania, in modo che potessero sedersi entrambi, poi prese posto.
Ad un tratto una fitta acuta alla mano lo fece trasalire e lui fece un salto sulla sedia.
«Ma che cazz... ?!».
«Bellamy! Che succede?» la voce preoccupata di Clarke arrivò dalle scale e solo in quel momento lui si accorse della palla di pelo bianca che sfrecciò fuori dalla stanza a tutta velocità.
«Il tuo fottuto gatto! Ecco che succede!» tuonò adirato.
Controllò la mano, che sanguinava dove Yeti lo aveva graffiato.
La bionda fece il suo ingresso qualche istante dopo e gli andò subito vicino posando il pc sulla scrivania.
Gli prese la mano e la osservò con occhio clinico.
«Quante storie per un graffio, Blake» lo canzonò e lui la osservò stupito.
«Quel coso è un essere infernale!».
A quelle parole la ragazza scoppiò a ridere.
«Vieni in bagno... Principessa» lo prese in giro ulteriormente e Bellamy sgranò gli occhi, colto alla sprovvista.
«Attenta a quello che dici, Clarke».
Ma lei rise di nuovo e lo portò in bagno. Fece andare l'acqua fredda sulla ferita ed estrasse il disinfettante e una garza. Lasciò cadere un po' di disinfettante sul taglio e poi disse a Bellamy di tenere la garza premuta finché non avesse smesso di sanguinare, poi i due tornarono nello studio, mettendosi al lavoro.
Bellamy si mise al computer e Clarke prese posto al suo fianco.
Il moro digitò nuovamente quella parola sul motore di ricerca e di nuovo una sfilza di risultati comparve sulla pagina.
Restringendo il campo, videro che a Staten Island con quel nome c'erano un negozio di orologi, un ristorante e una fabbrica, che però era stata chiusa da almeno dieci anni.
«Che dici Principessa? Potremmo cominciare dal negozio... ».
Lei annuì e così decisero di andare subito, giusto per togliersi il dubbio.
Bellamy capì dal suo sguardo che non credeva avrebbero davvero trovato qualcosa, ma andare per tentativi era tutto ciò che potevano fare.
Guidò per almeno mezz'ora con Clarke al suo fianco prima di arrivare a destinazione.
Il negozio sembrava uno di quei classici posti da film che sembrava essere, proprio come diceva il nome, senza tempo e quando entrarono, rimasero entrambi sbalorditi sull'ingresso.
Gli orologi tappezzavano ogni centimetro delle quattro pareti della stanza e il ticchettio era assordante, tanto che Clarke trasalì. Bellamy ricordava di quando la ragazza gli aveva detto che odiava il ticchettio degli orologi e di quanto la mettesse a disagio.
Le posò una mano alla base della schiena, sospingendola in avanti, verso il bancone.
Una ragazza mora fasciata da un abito rosso li accolse con un sorriso.
«Buongiorno, io sono Alie. Posso esservi d'aiuto?».
Prima di farsi avanti, Clarke gli lanciò uno sguardo strano e Bellamy capì che tutto ciò che voleva fare era uscire alla svelta da quel posto.
«Salve... » probabilmente la sua voce sarebbe risultata calma ad un estraneo, ma Bellamy, che aveva imparato a conoscerla bene in quel periodo, capì che era nervosa e fece scivolare la mano su un fianco di lei, dandole una lieve stretta.
«Mi chiedevo se conosceste per caso quest'uomo» disse tirando fuori una foto di suo padre dal portafogli. «Si chiamava Jake Griffin» continuò.
La ragazza al bancone la osservò attentamente.
«Ricordo ogni cliente che ha varcato quella soglia, signorina e mi creda: quest'uomo non ha mai messo piede al negozio».
Clarke sospirò pesantemente.
«D'accordo. Grazie per il suo aiuto».
Alie rivolse loro un sorriso di circostanza e li salutò cordialmente.
C'era qualcosa in quel posto e in quella ragazza che aveva fatto venire la pelle d'oca a Bellamy e Clarke parve notevolmente sollevata quando tornarono all'aria aperta.
«È stato un buco nell'acqua» disse.
«Abbiamo solo cercato nel posto sbagliato, Principessa. Avanti, torniamo da te e riprendiamo le ricerche».
Lei annuì e, detto fatto, erano di nuovo in macchina.
Il viaggio di ritorno fu silenzioso. Bellamy lanciò spesso sguardi fugaci alla ragazza seduta al suo fianco e dall'espressione assorta e concentrata di lei poté capire quanto si stesse arrovellando per cercare una soluzione.
«Clarke... il tuo cervello andrà in autocombustione se continui ad assillarti».
A differenza di quanto potesse immaginarsi, la bionda si lasciò andare in una risata.
Piuttosto si sarebbe aspettato una delle sue solite risposte acide, ma non di certo una risata. Poi ripensò alle parole di Atom, sorprendendosi nel constatare che erano vere: Clarke lo stupiva, dunque rivalutò il discorso fatto dall'amico. E se avesse provato a parlarle di quello che, ormai innegabilmente, provava nei suoi confronti?
Scosse la testa. Bellamy Blake e le dichiarazioni d'amore non andavano sulla stessa lunghezza d'onda. Accantonò subito l'idea sentendosi un idiota per averci solo pensato e sospirò.
«Va tutto bene?» la voce incuriosita di Clarke lo riportò alla realtà.
«Certo Principessa» nascose il suo disagio con uno dei soliti sorrisetti arroganti che ormai per lui erano un marchio di fabbrica e continuò a guidare in direzione di casa Griffin.
Erano le quattro di pomeriggio passate da quasi mezz'ora e nel giro di dieci minuti arrivarono a destinazione. Senza perdere tempo dunque, salirono le scale che portavano al primo piano e si misero nuovamente al lavoro.
Bellamy se ne stava davanti allo schermo del computer, il mouse che si muoveva rapidamente tra un link e l'altro, ma, ad un tratto, una zaffata al profumo di gelsomino lo distolse dai suoi pensieri e lui si voltò, trovando il collo di Clarke a pochi centimetri dal suo viso.
La ragazza infatti si era alzata in piedi, era alle sue spalle, la schiena incurvata in avanti e le braccia posate sulla scrivania a sostenerla.
Bellamy deglutì a vuoto. La tenera pelle scoperta del collo di Clarke era un richiamo quasi impossibile da respingere per lui, diafana come la porcellana e profumata come un campo di fiori.
Il ritmico pulsare della sua carotide scandiva gli immaginari rintocchi di un tempo che a lui parve dilatato all'infinito, intrappolandolo in un istante cristallizzato del qui e ora, di tutto quello che avrebbe potuto succedere se solo lui si fosse avvicinato a quel collo candido, posandovi sopra le labbra, cosa che avrebbe voluto fare più di ogni altra.
«Bellamy?» la voce di lei, lontana anni luce, lo richiamò all'ordine e i suoi pensieri s'infransero come un'onda che collide su uno scoglio, frantumandosi in mille schegge salate di acqua e schiuma.
Il ragazzo strizzò gli occhi e scosse la testa per scacciare quell'immagine dalla sua mente, riprendendosi e deglutendo un'altra volta.
«Scusa Principessa... mi ero bloccato».
Lei ridacchiò.
«Sì, lo avevo notato».
Sembrava non essersi accorta di nulla e onestamente non sapeva se fosse un bene o un male. Dopotutto... come poteva anche solo pensare di provare il tutto per tutto se lei non faceva neanche caso alla loro vicinanza?
Di nuovo, mandò tutto al diavolo e si concentrò nuovamente sullo schermo del portatile.
Aprì a caso un link che indicava "Timeless" come nome di un ristorante lì a Staten Island e ci cliccò sopra.
Clarke a quel punto prese nuovamente posto e si avvicinò a sua volta per leggere meglio.
Era un locale non poi così distante dal porto, l'esterno era incantevole, circondato da un enorme parco con al centro una fontana a forma di orologio che mandava zampilli d'acqua in ogni direzione, dando l'impressione che segnasse qualsiasi orario.
«Sembra uno di quei posti in cui per mangiare dovrei lasciarci uno stipendio» commentò lui sovrappensiero.
«Andrò per conto mio, non ti preoccupare. Mio padre mi ha lasciato dei soldi, che ancora non ho toccato. Non sapevo cosa farmene, ora ho deciso che li userò per ogni spesa che servirà per fare chiarezza su questa storia».
«Principessa... ti ho detto già più di una volta che non ti permetterò di giocare per conto tuo a Sherlock Holmes. Dunque... io ora me ne vado a casa. Passo a prenderti alle sette e mezza».
«È un invito a cena, Blake?» chiese lei con un sorriso malizioso che fece battere il suo cuore un po' più veloce.
«Può darsi... ».NOTE:
E rieccomi! Scusate, sono consapevole del fatto di avervi fatto attendere un po' più del solito, ma adesso sono qui!
Dunque... direi che anche in questo capitolo di cose ne abbiamo viste tra l'ESPERIMENTO 100 e tutto ciò che ne consegue.
Ora per di più è saltata fuori anche questa parola "Timeless".
Sono davvero curiosa di sapere cosa vi state immaginando, cosa vi potreste aspettare, dunque, sbizzarritevi con le ipotesi!
Ah, e scusate per l'epopea infinita sullo stato di shock, ma in quel momento serviva per comprendere la situazione, spero solo di non avervi confuso ulteriormente.
Che altro dire? Come si è capito, amo profondamente inserire qualche citazione dalla serie e di certo "I need you" e "Together" non potevano mancare.
Non vi anticipo nulla sul prossimo capitolo, sono aperta alle vostre ipotesi.
Bene. Vi saluto e come sempre mi auguro che il capitolo sia stato di vostro gradimento e all'altezza delle aspettative.
Un bacio a tutti!
Mel

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Demons
FanfictionSono passati sei anni da quando Clarke Griffin è partita per il college. Sei anni e un dolore autodistruttivo dovuto alla morte del padre di cui non è mai stato preso l'assassino. A ventitré anni, Clarke fa ritorno a casa, ma non aveva immaginato ch...