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Erano ben quattro giorni che non vedeva Esmeralda. Sapeva benissimo perché non si fosse più fatta vedere, ed era stata tutta colpa sua; si odiò ancora di più a ricordarsi quel gesto stupido, senza alcuna riflessione abbastanza sensata se non l'istinto animale in lui. Si strinse la tonaca con la mano destra, la stessa che,quattro giorni prima, aveva afferrato saldamente la zingarella per la vita, facendola arrossire in quella adorabile maniera tipica di lei; da quel momento, non era più riuscito a togliersi l'immagine di lei dalla mente, ancora più impressa in lui di quanto già non lo fosse stata in precedenza, il suo cuore di pietra sobbalzava ancora nel ricordare quel corpicino così bello premuto contro il suo, finalmente dal vivo, e non in un semplice sogno, o, per meglio dire, incubo. Per qualche istante, aveva avuto l'illusione che lei fosse tutta sua, solo sua e di nessun altro, che nessuno oltre a lui avrebbe potuto posare gli occhi su di lei; ma era ben conscio che, sfortunatamente, quell'idea non poteva essere altro che una sventurata utopia. Si massaggiò la fronte, innervosito; possibile che non riuscisse più a fare a meno di lei? E perché ora non la chiamava nemmeno più per nome? Il libro delle avventure di re Artù e dei suoi cavalieri giaceva davanti a lui, sulla sua scrivania, chiuso, eppure completamente intriso del profumo di donna che lei emanava e che lui aveva potuto godere per quei pochi istanti in cui l'aveva stretta a sé; rise nel rendersi conto di quanto fosse stato sciocco. Ma come gli era saltato in mente? No, non gli era nemmeno passato per l'anticamera del cervello; quello non era stato lui, qualcosa aveva preso potere sulle sue azioni, lui si era ripromesso di non metterle addosso nemmeno un dito. Lei sarebbe appassita ... e lui se ne sarebbe dato la colpa a vita, si sarebbe ferito ed odiato per il resto dei suoi giorni, se l'innocenza di quella bambina fosse andata gettata nel fosso a causa sua. Sognò di poter tornare indietro nel tempo, di poterla rivedere con quel vestito addosso, bellissima, scintillante di gioia, e si immaginò come potrebbe essere continuata la scena se lui, stupido inesperto, non avesse avuto l'ardore di fare ciò che aveva fatto. E ricordava ancora bene il bruciore dentro di lui, e quella sensazione di lietezza inestinguibile, nonché quella strana energia là dove credeva di aver sedato tutto ciò che era impuro ed illecito; oh, ma quando aveva percepito la sua forma appoggiarsi contro di lui, non aveva potuto resistere, era stato un impulso involontario, non era stata colpa sua, in realtà. O almeno così tentava di giustificarsi con se stesso e, soprattutto, con Dio. Era ben conscio di averlo deluso completamente e di essersi distratto dai suoi doveri di ecclesiastico, ma da un lato non se ne pentiva affatto; aveva potuto fare amicizia con quella deliziosa creatura, senza doverla forzare, senza doverla costringere, e ne era estremamente felice. Sempre che la loro si trattasse di amicizia. Certo, dal canto suo, Frollo poteva ben dire si trattasse di forte desiderio e, da quando lei era nuovamente scomparsa dalla sua vita, amore. Sì. Amore implacabile, doloroso, non ricambiato, furioso in lui come avrebbe potuto esserlo nel giovane Romeo invaghito di Rosalina; aveva finalmente compreso che cosa volesse dire amare. Temeva per lei ogni momento. Voleva sapere dove fosse, per poterla aiutare in caso di bisogno. Voleva averla accanto, per stringerla ancora a sé. Voleva consolarla quando stava male. Voleva sapere tutto ciò che le piaceva e ciò che invece non gradiva, era pronto a sacrificare tutto ciò che possedeva e che era pur di farla felice e di vederla finalmente lieta. Al tempo stesso desiderava, però, che anche lei provasse lo stesso per lui. Non pretendeva con la stessa intensità, ma pregava, di nascosto e soprattutto durante le preghiere notturne, che lei potesse notarlo non solo come un amico, o come un maestro, ma come qualcosa di più. Come un uomo. Una forte musica raggiunse le sue orecchie, sospirò pesantemente ricordandosi che giorno fosse: 14 febbraio. Ciò significava che, a breve, la festa del Jour d'Amour, quella festività zingaresca che si svolgeva in onore di san Valentino, sarebbe cominciata e che lui, ecclesiastico, avrebbe dovuto presenziarvi, a causa della referenza al santo a cui, poco dopo la fine dei diversi numeri creati dagli acrobati zingari, una bambina, o, più spesso, un bambino, cantava una canzone in un latino strascicato per onorare Valentino. Tutti svogliati all'idea di andare ad assistere ad un tale scempio, tutti gli ecclesiastici, qualche sera prima della festa, si riunivano in una delle varie sale di ritrovo del chiostro, per poi fare una sciocca conta, che spesso era un semplice tirare a sorte attraverso l'estrarre da una ciotola dei bastoncini; chi trovava il bastincino più corto, ovviamente, si ritrovava a doversi sedere in prima fila alla festa. E, guarda il caso, quella volta era toccato a lui. All'inizio, aveva sbuffato sonoramente, infastidito da quel colpo di sfortuna, ma poi, al pensiero che, forse, sarebbe riuscito a distrarsi da quei pensieri che gli tormentavano la mente, aveva accettato il suo destino e, pur di malavoglia, si era preparato alla piccola tortura.
E ora, udendo quella musica, comprese quanto poco mancasse al suo definitivo sprofondare nell'abisso della noia; si avvolse nel mantello, scese lentamente le scale della cattedrale, ne raggiunse l'uscita.

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