Se non fosse stato sicuro che lei non sarebbe mai più tornata, sarebbe corso giù per le scale e avrebbe cominciato a cercarla ovunque. Ma sapeva che,una volta superata quella porta, la zingarella non avrebbe rimesso piede in quella cattedrale nemmeno se l'avessero obbligata; strinse forte la grosse Marie, nella vana speranza di trovarvi una consolazione che non arrivava mai, da quando l'aveva vista. Non pretendeva il suo amore, era conscio che non avrebbe mai potuto averlo, ma aveva sperato, almeno in parte, che quel piccolo angelo gli si affezionasse; certo non aveva pensato che se ne sarebbe andata così presto. Aveva progettato quasi tutto; voleva mostrarle tutta la cattedrale, insegnarle quel poco che sapeva, dirle che lì era al sicuro, che non avrebbe più sofferto il freddo o il caldo, che nessuno le avrebbe più fatto del male fin quando ci fosse stato lui, voleva che lei gli volesse bene. Se non come amante, almeno come amico. Aveva sofferto così tanto in quelle settimane in cui non l'aveva mai vista che ora non riusciva a capacitarsi di averla persa di nuovo; solo che, questa volta, non avrebbe più potuto posare il suo povero occhio sano su quel bel viso solare che, dopo pochi attimi, lo aveva accettato. Nessuno gli aveva sorriso dopo così poco tempo, nemmeno il suo padrone; anzi, lui non gli aveva mai sorriso. Gli aveva solo insegnato a vivere, a leggere e a scrivere; poi, non aveva fatto altro che addestrarlo a suo burattino, o almeno era così che gli sembrava ora che quella bambina arrivava ad illuminare il suo piccolo antro. Sospirò pesantemente, chiuse gli occhi. Non lo avrebbe mai amato; avrebbe potuto prenderle la luna e portargliela su un piatto d'argento, ma non le avrebbe strappato neanche una briciola d'amore; non quello che desiderava, almeno. Invece, il suo padrone ci riusciva. Ci riusciva, e senza fare assolutamente nulla; rideva al pensare a quanto fosse sciocco il suo maestro ad ostinarsi a starle lontano, pur sapendo che non avrebbe mai potuto farcela; rideva pensando che, oh, quei due erano così ciechi. Bastava la presenza di uno o dell'altra a mandarli in confusione; e se se ne era accorto lui, che aveva la nomea di essere uno stupido scimmione ammaestrato, allora potevano accorgersene tutti. Invidiava tantissimo don Claude; se si fosse deciso a cedere, se avesse avuto il fegato di farlo, avrebbe potuto avere tutto di quella ragazzina, che era evidentemente invaghita di lui. O forse della sua conoscenza. Oh, fosse stato anche lui un sapiente come il suo maestro! Forse la piccola sarebbe stata più vicina a lui che all'arcidiacono. Ma se a parlar del diavolo spuntano le corna, ecco apparire, laggiù, come un puntino nella torre del campanile, l'uomo vestito di nero, chino e perso nei suoi pensieri, con in mano un vassoio ricolmo di cibo e bevande; Quasimodo fu confuso a notare tutto quel ben d'iddio, e capì in pochi attimi che non fosse destinato a nessuno dei due, visto che don Claude non si decideva ad appoggiarlo da nessuna parte. Scese in rapidità, per poi fermarsi a pochi metri di distanza dal suo padrone, incuriosito quanto stranito.
<<Portali nella mia celletta.>> lesse sulle labbra di lui, e fu ancora più perplesso quando Frollo gli sistemò il vassoio in mano <<Veloce.>>
<<Ma maestro...>> lo interruppe <<... per chi sono tutte queste cose?>>
Il prete rimase silente a quella domanda, tenne gli occhi fissi sul pavimento, uno strano tremore gli scosse la mano destra; dunque, indicò la porta, innervosito, con le sopracciglia aggrottate e le palpebre serrate, tipica espressione dell'arcidiacono in momenti di sconforto indesiderato che egli desiderava sopprimere. Il gobbo annuì e, senza più voltarsi, uscì dal campanile, per scendere le scale con attenzione in direzione del chiostro.Quando girò la chiave nella serratura ed aprì la porta, trovò all'interno della celletta uno spettacolo inaspettato; là, sdraiata sul letto nella sua camicetta da notte, addormentata, giaceva Esmeralda, chiusa in posizione fetale, come se si stesse difendendo da qualcosa come il freddo o, perché no, da qualcuno. Posò il vassoio sulla caotica e piccola scrivania, si avvicinò a lei, confuso; che cosa ci faceva lì? L'aveva vista correre via, l'aveva percepita scomparire dalla sua vita non appena aveva voltato l'angolo ... ed ora era di nuovo là, solo più giù ... solo nel letto dell'arcidiacono. Un moto di rabbia lo scosse, aggrottò le sopracciglia: aveva forse osato metterle le mani addosso, forzandola e facendola sua? Oppure no? Probabilmente, non era successo alcunché. Anche perché, si disse il ragazzo dopo un po', se davvero fosse successo qualcosa, l'arcidiacono non si sarebbe fatto vedere da lui per tutto il giorno. Accarezzò dolcemente i capelli della ragazza, sospirò sorpreso nel rendersi conto di quanto fosse bello lasciarvi scorrere le dita, che non si bloccavano in nessuno modo, anzi, arrivavano alla fine della lunghezza della capigliatura in una maniera così fantastica da dargli le vertigini; eh, se avesse potuto ... se non fosse stato così brutto ... avrebbe passato la vita con le dita tra quei riccioli corvini. La percepì muoversi, allontanò la mano, scappò via, a sistemarsi dietro la scrivania, non volendo spaventarla; la zingara si stiracchiò elegantemente, per poi aprire gli occhioni neri al giorno, il rossore le dipinse le guance ambrate nel vederlo.
<<Oh, Quasimodo.>> le lesse sulle labbra <<Sei tu.>>
In una certa maniera, il gobbo poté notare del sollievo sul visino di lei, come se non avesse sperato di vedere qualcun'altro, come se davvero avesse voluto lui, almeno per un po'; il cuore fece una capriola nel largo petto del giovane, un sorriso storpiato gli comparve sulle labbra.
<<Ti ho portato da mangiare.>> le disse, nel tentativo di suonare il più dolce possibile; dunque, afferrò il vassoio, le si avvicinò e glielo porse, per poi sorridere nel vedere come il volto della piccola si illuminasse al vedere tutto quel cibo. Ella sollevò il capo, si incassò nelle spalle: <<È tutto per me?>> domandò. Lui annuì, ma la ragazzina non sembrò soddisfatta dalla risposta: <<No, Quasimodo, è troppo.>> disse <<Non posso ...>>
<<Non c'è del veleno dentro!>> ironizzò il gobbo <<Non credo che nessuno ti voglia così male da avvelenare il cibo...>>
La piccola rise: <<Eh, forse qualcuno lo farebbe..>> mormorò prima di abbassare il capo, improvvisamente rabbuiandosi. Il ragazzo rimase ad osservarla, come inebetito dalla sua bellezza insolente, che splendeva davanti a lui in ogni istante, e il cuore batteva forte nel suo petto, come mai aveva fatto prima; le sistemò il vassoio sulle ginocchia, con un piccolo sorriso sul labbro calloso: <<Vedrai, ti piacerà tanto. Questo è cibo buono.>> la rassicurò <<Ne ho mangiato poco nella mia vita di questo, ma posso garantirti che non è affatto male.>>
Lei rise di nuovo; Quasimodo soffrì nel desiderare ardentemente di udire quella risata, che doveva essere così cristallina, così limpida, tanto da sembrare acqua, ma a lui quel piacere era proibito, come tutti gli altri,in fondo. La vide afferrare coltello e forchetta e, con goffa disabitudine, tagliare un pezzettino di carne; dunque, avvicinò la forchetta alla bocca, per mordere quel delizioso cibo; masticò per qualche istante, un sorriso si dipinse sulle sue labbra carnose: <<È davvero buono!>> commentò poi. Il gobbo annuì, sempre più perso nella dolce bellezza di quel momento, solo per loro, custodito solamente da loro. Esmeralda tagliò un nuovo pezzetto di carne, per poi porgere la forchetta al ragazzo, che sobbalzò; egli indietreggiò lentamente, scosse il capo: <<No,no...>> mormorò <<Quello è per te ... non darlo a me.>>
La manina sottile della ragazza gli raggiunse il viso, lo costrinse con dolcezza a sollevare il mento e a fargli vedere quegli occhioni neri scintillare di tenerezza, di nuovo lei gli porse la forchetta; pur esitante, lui la prese e, arrossendo vistosamente in viso, mangiò il pezzo di carne che, effettivamente, era davvero deliziosa. La zingarella sorrise, chinando leggermente il capo verso destra: <<È buona, vero?>> fece poi <<Se vuoi possiamo dividerla.>>
<<Ma tu ne hai più bisogno di me ...>>
<<Oh, non dire sciocchezze!>> esclamò la ragazza mentre agitava una mano nell'aria <<Tieni. Dividiamo. Se vuoi io mangio con le mani, così tu puoi usare le posate.>>
Quasimodo scosse fortemente il capo a quella proposta, tanto velocemente da quasi scuotere anche il suo cervello, o almeno così gli sembrò: <<No, davvero, non posso.>> disse allontanandosi <<Non posso.>>
La piccola rimase inebetita a quel modo di fare, ma non gli impedì di percorrere la stanzetta e di uscire dalla celletta, senza chiuderla a chiave dietro di sé. Il gobbo scappò via, spaventato dalle emozioni che irrompevano dentro di lui; Dio, come era ingiusto quel suo mondo di deformità, sordità e cecità. Bloccato dentro una bolla che nessuno mai avrebbe voluto perforare.
Nessuno lo avrebbe mai amato come lui amava lei. Nessuno.Esmeralda ora sedeva su quel lettino leggermente scomodo, con il vassoio sulle ginocchia, e il profumo della carne che la chiamava praticamente per nome; il suo stomachino di bimba prese a gorgogliare, facendola ridere: oh, quanto aveva bisogno di mangiare! Ma certo non sarebbe andata in giro a fare la carità domandando del cibo, e ancora prima non si sarebbe mai e poi mai rivolta all'arcidiacono. Non dopo la delusione di quella sera.
Abbassò il capo, rattristata; come era cambiato ai suoi occhi, e quanto non erano cambiati i suoi sentimenti! Pur avendo visto quanto codardo, meschino e vizioso fosse, non riusciva ad impedirsi di amarlo, di volergli stare accanto, nonostante le avesse praticamente rovinato la vita, togliendole il fratello. Altre lacrime le percorsero le guance, se le asciugò in fretta; doveva farsene una ragione, Clopin non sarebbe mai tornato. Ora riposava in silenzio là sotto, nel sotterraneo di Montfaucon; chissà, forse anche in pace. Si alzò, lasciò il vassoio sul tavolino, si avvicinò alla porta della celletta e, aggrappandosi alla finestrella e mettendosi sulle punte, a fatica poté localizzarsi all'interno della cattedrale; si trovava in quei corridoi particolari che passavano attraverso il colonnato, alla fine del quale si intuiva un piccolo giardinetto nascosto, quello che tanto la aveva ipnotizzata tempo prima. Sospirò al ricordo, lasciò andare la presa e si strinse nella camicetta, uno strano nodo alla gola le impedì di muoversi; era stato così gentile con lei ... ciò che le aveva fatto vedere quella sera non poteva essere lui. Non era il vero don Claude; il vero arcidiacono era una persona adorabile,un po' rude all'inizio, ma con nascosto in sé un cuore d'oro, non quel pazzo, quell'assassino, quel mostro. No, non poteva essere così. Non doveva. Era come se qualcosa lo avesse cambiato profondamente, all'improvviso, e senza alcun preavviso; si domandò se fosse stata proprio lei la causa di quel pandemonio, e la risposta fu affermativa. Sì, era stata lei. Gliel'aveva detto Clopin ... ! Era stata così sciocca! Lo aveva provocato, ed eccone qui i risultati: aveva rischiato d'annegare e aveva perso un fratello. Fu strano per lei pensare a come l'egoismo portasse la gente ad impazzire; scosse il capo, nel vano tentativo di distrarsi da quei pensieri, si sedette nuovamente sul letto e, pur riluttante, riprese a mangiare, con un unico obbiettivo in mente: capire qualcosa di più su don Claude.
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Amor Amara Dat
Romance> Odero, si potero; si non, invitus amabo. Ti odierò, se potrò; altrimenti ti amerò mio malgrado. 1.03.2017 --> 11.09.2017