Continuano gli inconvenienti

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<<Molto bene!>> le sorrise il capitano Phoebus <<Allora ci vediamo questa sera, piccina cara.>> disse prima di lasciarle una dolce carezza sulla guancia. Esmeralda chinò il capo, arrossendo vistosamente: <<A stasera...>> mormorò, gli occhi fissi in quelli azzurri del soldato. Egli si alzò dal muretto, le sorrise ancora e, senza più voltarsi, si allontanò, sparendo dalla sua vista; la zingarella percepì il fuoco bruciare dentro di lei, mentre il cuore scoppiettava d'allegria al solo pensiero di che cosa sarebbe potuto succedere quella notte. Sapeva esattamente che genere di locale fosse "Le Pomme d'Eve", ma in realtà non le importava affatto, poiché le sarebbe bastato avere accanto Phoebus, e sarebbe andata in capo al mondo, se lui lo avesse voluto; in quelle settimane, si erano davvero avvicinati molto, frequentandosi per lunghi giorni interminabili e, di nascosto da Clopin, che non apprezzava il suo stare con un soldato, si erano persino intrufolati nella Corte dei Miracoli, sussurrandosi delle parole dolci all'orecchio, parole così belle e oniriche da far credere alla piccola di trovarsi in un altro Universo. Quell'uomo, da solo, riusciva a farle spuntare delle ali, e a farla volare verso il cielo, sino a toccare il sole, e poi ancora più su, sempre più su, verso le stelle!; gli bastava sorriderle per darle la sensazione di avere un'intera vita a disposizione, senza nessuno a farle d'antagonista sulla strada; e più stava con lui, più desiderava avere qualcosa di più. Molte volte, in quei giorni, aveva sognato di poterlo baciare, di farsi stringere tra le sue braccia e permettergli di avere il suo amore, quello che lei, sin da bambina, sapeva di non poter dare a causa dell'assenza di sua madre. Aprì la piccola bisaccia che aveva allacciato alla cintura pochi giorni prima, ne estrasse il sacchettino verde smeraldo che conteneva la scarpetta; essa, come le aveva detto Clopin, era stata fatta dalla sua vera madre biologica, e avrebbe dovuto restare vergine fin quando, un giorno, non avesse trovato colei che custodiva la gemella di quella piccola calzatura, ossia sua madre. Ma ormai era grande, era cresciuta, sapeva cavarsela da sola; a che le sarebbe servita una madre, quando poteva avere Phoebus accanto? Un sorrisetto sognante le si dipinse sulle labbra carnose, si strinse nelle spalle nell'immaginarsi il resto dei suoi giorni insieme a quel capitano; di certo lui l'avrebbe fatta rispettare da tutti, l'avrebbe adorata ed amata, e insieme avrebbero avuto tanti, bellissimi bambini dai capelli biondi, che avrebbero scorrazzato per il giardino del loro castello. Lei sarebbe stata la sua Ginevra, e lui Lancillotto. Tremò nel ripensare a quel libro, i giorni trascorsi nella cattedrale riemersero dagli abissi della sua memoria,ormai dimenticati e sotterrati dall'immagine scintillante di Phoebus; chinò il capo, come se si vergognasse di essersene scordata, il suo cuoricino gemette nel ricordare il viso del prete. Si accorse di come fosse sfumato nella sua memoria, e, per un attimo, si sentì in colpa, ebbe paura di averlo davvero dimenticato; ma poi, forse accecata dalla luce degli avvenimenti di quella mattina, scosse il capo, scoppiando in una sonora risata. Che le importava se anche se ne fosse dimenticata? A lui interessava solamente il suo corpo, no? Sicuramente non era nemmeno in pena per lei. O forse lo era. O forse la stava osservando proprio in quel momento. Si guardò attorno, spaventata all'idea, si alzò in piedi; cercò gli occhi color nocciola del prete ovunque, in ogni angolo nascosto della strada, ma, non vedendoli, il suo animo si divise in due parti. Da un lato, ne fu sollevata; dall'altro, ne fu delusa, ancora una volta. Che cosa pensasse di quel prete, ormai,non lo sapeva più nemmeno lei; non che se ne fosse fatta un problema, in quei giorni, visto che Phoebus era semplicemente un sogno vivente, ma qualcosa dentro di lei ancora le diceva di ripensarci, di tentare di rivalutare l'arcidiacono. Eppure, al tempo stesso, qualcos'altro glielo impediva, forse la voglia di godersi quei giorni illuminati dal capitano, forse l'orgoglio bruciante di un'anima ferita; purtroppo, non lo capiva nemmeno lei. Fece spallucce e si voltò verso la capretta, con un leggero sorrisino sulle labbra: <<Djali,>> chiamò, l'animaletto alzò lo sguardo <<Vieni, torniamo a casa.>>

La Corte dei Miracoli era davvero grande, ospitava tantissime piccole porticine che chiudevano diverse stanze, al cui interno vivevano tantissime persone, tra zingari, accattoni e malviventi vari; vista da lontano, la Corte era solo un insieme composto da una piazza mal lastricata ed uno sgangherato complesso di taverne, dunque passava davvero inosservata nella moltitudine di case di Parigi. Esmeralda amava stare con i suoi compagni, poiché lì poteva essere se stessa senza che nessuno la giudicasse o impazzisse alle sue spalle; la piccola scivolò all'interno della taverna, da cui emergeva una forte confusione che la incuriosiva alquanto. Pensò, annoiata, che si trattasse della solita rissa tra ladri, o in complessivo, poiché ogni volta che qualcuno cominciava a darsi a botte tutta la Corte prendeva a tirarsi cazzotti e a spezzarsi braccia e nasi; ma quando poi la voce di suo fratello attirò la sua attenzione, ebbe da ricredersi: <<Compagno!>> lo sentì ridere di gusto rivolto ad un ignoto <<Sei ben disgraziato, tu!>>
Seguì, accompagnata dalla cara Djali, il suono della voce, per raggiungere, non senza fatica, il luogo da cui proveniva: era una parte della taverna piuttosto macabra, che lei non amava frequentare, poiché sapeva bene che si trattasse della zona in cui gli intrusi o le spie venivano impiccati. Aveva sempre fatto il possibile per non portare Phoebus da quelle parti, quando erano scivolati attraverso le mura della Corte, anche perché Clopin quasi si divertiva a sedersi laggiù e ad attendere qualche bel pendaglio da forca; lei non apprezzava molto quel comportamento, ed il fratello lo sapeva, ma si giustificava con la scusa di voler rendere pan per focaccia ai "gentiluomini" di Parigi che tanto si divertivano ad impiccare i loro simili. Ad Esmeralda, tutto questo pareva infantile, ma lasciava correre, poiché, in fondo, non erano del tutto problemi che la riguardassero; nonostante le piacesse stare in compagnia, preferiva viversene per i fatti suoi, magari accampandosi nei cantucci destinati ai senzatetto in giro per tutta la città. Quando posò lo sguardo sulla goffa impalcatura che suo fratello, aiutato dall'imperatore di Galilea e dal duca d'Egitto, aveva costruito non appena avevano messo piede in città, vide un perticone dai lisci e lunghi capelli biondi, dallo sguardo perso, affranto e consapevole al tempo stesso, nonché leggermente spaventato poiché, in fondo, doveva tenere un bel po' alla sua pellaccia, visto che, poco distante da lui, giaceva il fantoccio ricolmo di campanelli che Clopin e gli altri due usavano per arruolare nuovi membri della Corte; attorno al collo, lo sfortunato elemento aveva la corda del cappio, e Bellevigne de l'Etoile, Andry il Rosso e Françoise Chante-Prune gli facevano la posta, come al solito, poiché loro erano una sorta di esecutori in quella buffa gerarchia egiziana. In quel disgraziato perticone, la gitana riconobbe quell'uomo che, poco prima della sua seconda visita, proprio dopo il loro incontro nel confessionale, le aveva dato più informazioni sull'arcidiacono, rivelandole alcune particolarità che effettivamente l'avevano aiutata a gestire meglio il rapporto con il prete; un brivido la percorse tutta, un filo d'amarezza le dipinse il viso. Be', se doveva morire, le dispiaceva, ma non le interessava troppo.
Ma è colui che sa praticamente tutto su don Claude ... le sussurrò una vocina meschina all'interno della sua testa, le sue orecchie si rizzarono a quella piccola vipera che serpeggiava ammaliatrice dentro di lei.

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