Capitolo 22: Prigionia

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Apro gli occhi e torno rumorosamente a respirare, tirandomi a sedere di scatto. Sbatto le palpebre un paio di volte; giusto il tempo che Ethan si accorga che non sono stecchita che già cerca di strangolarmi in un abbraccio. Rido, ricambiando l'abbraccio e ricacciando le lacrime che ormai sgorgano copiose sulle sue guance.

-Non ridere.- mi riprende Cento -Pensi che sia facile esistere senza di te?

-Ehm... sì?- azzardo, è più una domanda che un'affermazione.

Lui mi stringe a sé e, facendomi rabbrividire, mi sussurra all'orecchio: -Rasenta i limiti dell'impossibile.

Ho sempre pensato che la cosa peggiore che possa capitare ad una persona che ama qualcuno è vedere quel qualcuno morire. Mi sbagliavo: la cosa peggiore che possa capitare a quell'individuo è essere costretto a stare lontano dalla persona che ama.

Da quando sono arrivata e ho ricevuto il mio numero, accettando impotente il destino di Erede di Peter Pan, ho sempre avuto la capacità di volare. Ero potente, potevo andare praticamente ovunque, non conoscevo limiti che non fossero la Cupola che ci proteggeva e intrappolava tutti. La distanza non è mai esistita per me.

Ora improvvisamente è tutto diverso.

Mrs. Olimpia fa separare me ed Ethan, per quanto io lotti non riesco a liberarmi, scivolo nel mio stesso sangue, cado a terra, striscio verso il ragazzo che si divincola dalla presa di quei diavoli in camice bianco degli scienziati, mi trascino senza forze verso di lui mentre lo portano sempre più lontano da me, il sangue scende copioso, la mia vista si appanna, tendo un braccio ma le mie membra sembrano pesare come piombo, la mia mano tinta di cremisi cade nel sangue schizzandomi gocce porpora sul viso mentre mi accascio su me stessa, le palpebre si abbassano sempre di più...

Buio.

I secondi, i minuti, le ore e i giorni si fondono in un unico miscuglio di tempo e non riesco più a stabilire da quanto sono rinchiusa nella cella vuota. E' una stanza bianca, fredda, con una lampada led al centro del soffitto che rimane sempre accesa; in un angolo della stanza c'è un materasso duro che puzza di disinfettante. Niente cuscini, niente coperte. L'unica via d'uscita è una porta d'acciaio rinforzato completamente liscia, senza serrature né cardini, con una specie di porticina per gatti che si può aprire solo dall'esterno e attraverso cui fanno passare una bottiglietta d'acqua, sempre rigorosamente senza tappo, in modo che io non possa cercare di ingoiarlo costringendoli ad intervenire per non farmi finire ammazzata, e del cibo, solitamente una specie di pasta malleabile insapore che però riusciva a calmare i crampi e i brontolii del mio stomaco. Spesso prima di mangiare quella pasta ci gioco, giusto per passare il tempo; faccio delle palline e gioco a biglie, oppure cerco di palleggiare in aria senza far cadere la pasta, ma i giochi durano sempre poco perché cedo alla fame e divoro il mio unico svago. L'acqua, invece, è talmente poca e talmente preziosa che non mi viene in mente di sprecarla, infatti avrei proprio bisogno di un bagno.

Quando mi sono risvegliata sul materasso la ferita alla pancia era stata medicata e si stava lentamente cicatrizzando, guarendo pian piano. Ho inveito e sfogato la mia ira sulla stanza, tirando pugni e calci alle pareti fino a sanguinare, rompendomi tutte le unghie cercando di staccare la porta, volando fino al soffitto e prendendolo a spallate per poi ricadere a quattro zampe sul freddo pavimento d'acciaio, sbucciandomi le ginocchia. La stanza si è colorata del rosso del mio sangue e ho scoperto che la mia ferita si era riaperta. Ho perso i sensi qualche ora dopo in una pozza cremisi. Quando ho aperto gli occhi per la seconda volta, la mia ferita era stata ricucita e le pareti ripulite; sarà stato qualche settimana fa e da allora sono intontita, certamente mettono delle droghe nel cibo o nell'acqua. Per quanto io cerchi di evitare di mangiare e bere, dimagrendo di colpo e diventando talmente scheletrica dal punto di non riuscire nemmeno a stare in piedi, i pochi pensieri che riesco a formulare sono incoerenti e confusi. Ho dimenticato i miei amici, ho dimenticato Robert, ho dimenticato il Programma di Ripopolazione e perché mi trovo lì. Ma non ho dimenticato che devo scappare. E non ho dimenticato Ethan.

-Marlene Hannah Peeters.- gracchia il piccolo altoparlante situato in un angolo della stanza. L'avevano rimontato, insieme alla minuscola telecamera, dopo che io l'avevo fracassato tirandolo contro la porta d'acciaio.

-Programmatori!- esclamo con voce roca, la gola mi brucia per mancanza d'acqua, lo stomaco gorgoglia e lancio un'occhiata alla pasta che da un po' avevo iniziato ad attaccare alla lampada, ricoprendola quasi per metà e guadagnandomi una lieve penombra parziale. Tossisco una risata, mi alzo dal pavimento e mi trascino con uno sforzo enorme fino al materasso, dove mi accascio dolorante e con il fiatone. Almeno sono lucida. E ricordo. Tendo le labbra in un sorriso e queste, secche e disidratate, si crepano e rompono. Lecco il sangue con un guizzo veloce della lingua.

-Ethan?- chiedo accomodandomi alla bell'e meglio sul materasso duro per fissare la telecamera.

-Sta ben...

Li interrompo con una risata che si spezza in un conato di vomito, sputo il sangue ma mi rimane sulle labbra il sapore odioso dei succhi gastrici.

-Sta bene come sto bene io?- domando sprezzante con tono tagliente fissando il muro, improvvisamente disgustata dalla vista di quell'odioso occhio meccanico e indiscreto che mi guarda costantemente.

Per tutta risposta, lo sportelletto del cibo si apre e una mano guantata di bianco infila nella mia cella una bottiglietta d'acqua senza tappo e un pezzo di pasta.

Digrigno i denti, mi rifiuto di restare intrappolata ancora a lungo.

-Di qui a una settimana verrai liberata.- promettono i Programmatori, e io rido ancora. La gola è roccia che si sgretola ad ogni parola: -Settimana più, settimana meno, a me non cambia nulla.

Rivolgo di nuovo lo sguardo tagliente alla telecamera e mi sembra quasi di sentirli sobbalzare alla vita dei miei occhi ridotti a due fessure, le iridi verde slavato, come bruciate dalla luce e corrose da pioggia acida, iniettate di sangue.

-Mi rifiuto di mangiare il vostro cibo e bere la vostra acqua. Rinuncio a ogni qualsiasi cura mi proporrete. Non mi sottoporrò più a voi, pretendo la mia libertà. E la mia libertà comprende anche Ethan. Vi odio, odio il mio stesso progetto e giuro, qui e ora e per sempre finché sarà nelle mie possibilità e oltre, di ribellarmi. Vi distruggerò, tentando con ogni mezzo disponibile, sfalderò ogni sbaglio io abbia mai creato.

Nessuno mi risponde, la telecamera continua a fissarmi e l'altoparlante rimane muto. Mi stendo sul letto e chiudo gli occhi.

"Dove sei, Ethan?" e mi addormento.

Gli Eredi di Peter PanDove le storie prendono vita. Scoprilo ora