Capitolo 4 Damon

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Il dolore si mescola alle nostre emozioni

facendole sentire reali.

«Come ti senti?», Jamie si siede sulla sedia di fianco al mio letto.

Accenno un sorriso tirato, sento persino i muscoli del volto farmi male.

«Uno schifo», sibilo a denti stretti.

Mentre sognavo il profumo della sua pelle, ricordandomi ogni dettaglio di lei, con il suono del suo respiro che mi cullava attraverso il cellulare, sono stato rapito dalle fiamme del mio inferno. Il corpo ha iniziato il suo viaggio verso il fondo, mi sono aggrappato con tutta la forza al lenzuolo, stringendolo in un pugno. Volevo restare, cercare di respirare a pieni polmoni, mentre questi sembravano restringersi e strapparmi l'ultimo respiro. Il cuore martellava contro la gabbia toracica, schiantandosi in un suono sordo che mi fischiava nelle orecchie e il sudore ha coperto ogni centimetro del mio corpo, come se fossi appena riemerso dal mare che mi aveva inghiottito.

Ho chiuso la chiamata, ho lasciato che la mia voce venisse fuori facendo riecheggiare in tutto il piano un urlo disumano, capace di squarciare il cielo e spazzare via le stelle, per mostrarmi solo il cielo nero con il quale mi sarei dovuto scontrare finché tutto questo non avesse avuto una fine. Solo che mi chiedo se mai ci sarà.

«Lo sai che malgrado la terapia il tuo corpo necessita ancora di quello schifo».

Mi mordo il labbro pensando a quanto ci si possa fare male, mentre in realtà in quel momento ti senti solo invincibile, credi di avere il mondo in mano, quando invece sei tu a essere nelle sue mani, fino a quando queste non si chiudono schiacciandoti.

«Quando finirà tutto questo?», lo supplico in cerca di una risposta che non arriva, mi scontro solo con il suo sguardo che non mi dimostra tenerezza o pena, si limita solo a osservarmi in maniera neutrale. «Se dovesse venire...», cerco di dire al contempo che si solleva dalla sedia facendo un gran fracasso.

«Scusa, ho una chiamata», risponde imboccando la porta.

«Jamie, non fare lo stronzo!», sbraito, ma il suono della porta della camera che viene sbattuta è la sua unica risposta. «Coglione», mormoro.

Pesto il pugno contro il materasso una volta, poi un'altra e continuo senza però riuscire a sentire quella scarica di adrenalina che si impossessava di me, pervadendo ogni mia cellula e facendomi sentire in qualche modo vivo. Ora sono solo l'ombra di me stesso.

Mi alzo con le gambe che vacillano e vado verso la sala degli incontri. Una stanza all'ultimo piano della clinica, un ambiente circolare caratterizzato solo da una serie di sedie che vengono occupate dalle nostre vite incasinate.

Entro e mi sollevo appena il cappuccio della felpa calcandolo bene in testa; non mi sono mai piaciuti gli occhi addosso della gente, ma ora che non ti guardano soltanto ma cercano di spogliarti di quel poco che ti è rimasto, mi sento solo in trappola, come se cercassi di salvare quel poco che ancora è qui da qualche parte.

«Sanders, si accomodi», dice il dottor Nelson, un uomo sulla cinquantina, con capelli brizzolati e un occhiale dalla montatura sottile che scivola lungo il ponte del naso. Mi guardo attorno, ci sono ragazzi della mia età, altri sono un po' più grandi e qualcuno potrebbe anche essere un padre di famiglia. Prendo la sedia dalla spalliera, la faccio girare su sé stessa e mi siedo a cavalcioni, poggiando le braccia incrociate sullo schienale. «Le sembra questo il modo?», mi rimprovera.

Abbozzo un sorriso sghembo.

«Non so se sia questo il modo, ma di certo è uno di quelli che conosco. Non credo che il mio modo di sedermi possa fare la differenza», gli faccio notare e sono sul punto di andarmene; ho saltato diverse sedute di gruppo e potrei saltare facilmente anche questa.

Un Amore Proibito 2 - Vite LontaneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora