Capitolo uno

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[DALILA]

23 Marzo 1944, nei pressi di Varsavia.

Fa freddo, e ogni frammento del mio corpo è intorpidito dal gelo. Non riesco nemmeno a ricordare quanto tempo sia passato dall'ultima volta che ho avvertito il calore umano di una persona, una carezza, un abbraccio. Qui, nel buio e nella solitudine, mi ritrovo nella speranza di non essere trovata, di non essere catturata e sbattuta dentro quel campo. Sono ebrea e oggi, essere tale significa essere ripudiata dagli altri e condannata all'eterna punizione.

Mi chiamo Dalila Coen, ho 18 anni. Il mio sogno era diventare una cantante, ma il corso degli eventi non ha giocato a mio favore. Sono già passati mesi da quando la mia famiglia è stata catturata. Mio padre, Caleb Coen, un insegnante di letteratura che io trovavo affascinante, con gli occhi scuri e i capelli castani, alto e possente, era il mio eroe. Mia madre, Lea Coen, una sarta incredibilmente abile, dai capelli color miele e gli occhi castani, era una donna dolce e sensibile, con un cuore d'oro.

Ricordo ancora nitidamente il giorno in cui i miei genitori furono portati via con la forza. Era dicembre dello scorso anno, eravamo nascosti in una cantina di una villetta abbandonata da chissà quanti anni. Un brivido mi percosse la schiena quando udii dei rumori avvicinarsi sempre di più. Mio padre, temendo di essere scoperti, mi afferrò e mi nascose in un piccolo buco nel muro, dietro a un vecchio armadio, dopodiché mi guardarono e mi dissero "Quando non sentirai più nessun rumore scappa via il più lontano possibile, mamma e papà ti voglio tanto bene", e uscirono dal nascondiglio per salvare almeno la mia vita.

Sono figlia unica, anche se originariamente dovevamo essere in due. Prima di me, mia madre perse una bambina, perdendo ogni speranza, finché il dottore non le annunciò di essere di nuovo incinta, di me. Ora, mi chiedo se sono ancora vivi, o se hanno subito la stessa sorte che ci è stata riservata a tutti.

Sento dei passi provenire dal piano di sopra, Il mio respiro si blocca, le gambe tremano. La mia ora è giunta. La porta si apre, e vedo il mio carnefice, colui che mi condurrà all'inferno.

Mi ritrovo qui, seduta nel buio di questo camion diretto al campo di prigionia. Dopo un paio di ore o almeno credo, il camion si ferma e ci fanno scendere, mettendoci in riga e scrutandoci attentamente prima di separarci tra donne, uomini e bambini. Fra di loro, noto il soldato che mi aveva trovata nello scantinato. Il suo sguardo sembra carico di compassione, ma forse è solo un'illusione.

Ci costringono a fare la doccia e ci lanciano degli indumenti a righe prima di mandarci in una struttura insieme ad altre donne. Nessuna osa parlare. Sono tutte magre, la pelle tesa sulle ossa come un fragile strato. I loro occhi sono segnati dalla mancanza di sonno e ognuna di loro porta un numero sulla maglia a righe. Siamo diventate solo numeri, senza più identità.

Il tempo passa e noto una ragazza dai capelli biondo cenere intenta a guardarsi le mani che stringevano gli indumenti che aveva addosso

"Io sono Dalila tu come ti chiami? " le chiedo

"Mi chiamo Rahel" .

È così giovane, così fragile agli occhi del mondo, di sicuro non aveva più di 15 anni. Le porte si aprono e i soldati ci conducono ai campi di lavoro.

Mentre scavavo mi feci male e Rahel mi guardò preoccupata, non capì subito il perché ma poi mi fu tutto chiaro, chi non riesce a mantenere il ritmo viene ucciso. Continuai a scavare cercando di nascondere il dolore. Devo resistere, devo sopravvivere. Mi sentì osservata e, voltandomi, vidi lo stesso soldato di prima intento a fissarmi.

Quell'amore nascosto ad AuschwitzDove le storie prendono vita. Scoprilo ora