31| Bianco

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(19 maggio)

La prima cosa che pensò quando riaprì gli occhi fu che forse quella fine se l'era meritata a pieno, e non poteva scaricare la colpa su nessuno.

Una luce bianca accecante le bruciò gli occhi e tutto quel candore che la circondava non faceva altro che innervosirla.

Il medico che l'aveva visitata le aveva detto che sarebbe uscita entro un paio di giorni, salvo complicazioni. Olga invece le aveva chiesto di non preoccuparsi e restare calma.

Visto dall'esterno sembrava tutto più semplice, come se gli aghi nelle braccia non bruciassero, come se non avesse avuto costantemente voglia di vomitare. Come se non avesse finito tutte le sue lacrime e ora, dai suoi occhi non usciva più niente. I singhiozzi c'erano sempre, ma era un pianto spento il suo, finalizzato a se stesso, senza la minima intenzione di impietosire gli altri.

Aveva chiesto scusa e non sapeva nemmeno a chi. Forse a se stessa, perché alla fine cosa restava?
C'era solo lei a lottare.
Non c'era più nessuno.
Non c'era lui.

Suo padre era rimasto lì, solo che Idie non poteva saperlo, non l'aveva visto. Era rimasto fuori dalla porta, immobile, senza sapere cosa fare

Però c'era.

Erano le sette di sera, circa. La Juventus aveva alzato lo scudetto al cielo e Gigi Buffon aveva detto addio a quella squadra che amava e rispettava da diciassette anni.
In un altro momento storico, Idie sarebbe andata allo Stadio, avrebbe pianto dalla commozione e poi festeggiato la vittoria.

Invece.

Quando la porta si aprì lentamente, sbuffò. Aspettava di ritrovarsi difronte all'infermiera con l'odore di disinfettante addosso e i modi sgarbati che l'avevano urtata poco prima.

Invece, due occhi trasparenti la stavano fissando.

Paulo se ne stava con le spalle appoggiate alla porta, la maglia celebrativa della Juventus addosso e una sciarpa (bianconera) come bandana sulla testa.

In un'altra situazione, Idie l'avrebbe preso in giro fino a farlo innervosire o sospirare.
In quella situazione, Idie pensò a quanto fosse ridicolo tutto quello.

Si studiarono per un po', soppesarono gli sguardi e poi li distolsero (prima Paulo, poi Idie).

Idie era senza guance, le braccia più sottili e le labbra gonfie. La pelle era cadaverica, sotto agli occhi c'era ancora qualche residuo di trucco nero. Se ne stava stessa sulla branda rialzata e Paulo si rese conto di quanto fosse bella lo stesso, e di come andasse bene sempre e comunque, anche tra le mura di quell'ospedale.

E allora avrebbe voluto urlare, prenderla anche a schiaffi forse e questo sarebbe andato contro a tutto quello che gli era stato insegnato, contro la sua morale e la sua etica.
Ma semplicemente non ce la faceva a vederla così e sapere di essere lui, in gran parte, il colpevole.

La stanza puzzava di disinfettante e medicinali, a Paulo gli ospedali facevano schifo. Gli ricordavano suo padre, il modo in cui era andato via, la morte.

Il numero della camera era la 010 ed era silenziosa, illuminata, spaziosa, con un solo letto al centro.

«Non ce la fai proprio a non creare danni?» fu la sua domanda, con un sorriso ironico sulle labbra.

Idie non colse quell'ironia, anzi, si innervosì perché era una frase che troppo spesso aveva sentito e ne aveva -letteralmente- le palle piene.

𝕿𝖗𝖚𝖊 𝕮𝖔𝖑𝖔𝖗𝖘|| P.DDove le storie prendono vita. Scoprilo ora