quattro.

157 16 9
                                    


A volte è l'idea che le persone hanno di te a determinare in parte chi poi sarai realmente.

Crescere sentendosi dire quanto fosse un bravo bambino, a differenza di quello scavezzacollo di suo fratello, lo aveva effettivamente portato ad essere un uomo adulto serio e responsabile.

Mentre suo fratello Abel era finito sottoterra.

Ma a volte Adam si chiedeva se gli piacesse quell'uomo che era diventato. O se non fosse arrivato a quel punto solo perché spinto da fattori esterni, da lodi e consigli altrui.

Le sue pagelle d'oro, le olimpiadi della matematica, la squadra di pallanuoto che aveva dovuto abbandonare per dare priorità alla scuola, sua madre che pretendeva dai suoi figli una laurea di tutto rispetto.

E lui? Cosa voleva lui?

Domandarselo ora non aveva molto senso, non quando indossava una camicia azzurra dal colletto perfettamente stirato e occupava una scrivania al ventitreesimo piano di un palazzo dall'anima di vetro ed acciaio.

Non quando aveva finalmente concluso un percorso di studi in un ateneo prestigioso e trovato un ottimo impiego. Non quando la sua laurea se ne stava abbandonata in un cassetto a prendere polvere e l'entità del suo salario mensile non importava più nulla.

Avrebbe voluto così tanto non essere stato il figlio prodigio, non aver messo inconsapevolmente in ombra quel suo fratello minore sempre così pieno di rabbia e risentimento.

Il suo lavoro dopotutto gli piaceva. Era una mansione solitaria. Gli venivano assegnati dei compiti, lui passava giorni interi impegnato nello sviluppo del software, dopodiché consegnava il prodotto ultimato al suo supervisore. In caso di necessità spendeva un altro paio di giorni a correggerlo e rifinirlo. Faceva quasi tutto sempre con le cuffie, il suo account Spotify perennemente in riproduzione casuale.

Guadagnava bene, l'ambiente di lavoro era tranquillo e i suoi colleghi erano cordiali e più o meno simpatici.

L'unico vero lato negativo, oltre alla totale mancanza di contatto umano, che però in quell'ultimo anno era stata una manna dal cielo, erano le continue emicranie che le dodici e più ore quotidiane di fronte allo schermo illuminato di un computer gli causavano. Aveva già perso svariate diottrie dai tempi delle scuole medie, ma neanche degli specifici occhiali parevano aiutarlo più di tanto a non affaticare in modo eccessivo la vista.

Era passato da poco mezzogiorno quando un volto si affacciò dalla soglia della porta. «Toc toc!»

Adam alzò gli occhi dalla tastiera e abbassò le cuffie, lasciandole penzolare attorno al collo.

«Ciao Asia», la salutò approfittandone per salvare il suo lavoro prima di allungare le braccia dietro di sé e stiracchiarsi la schiena.

«Ciao Adam! Tutto bene? Stamattina non ti ho visto. Ti va di venire a pranzo con noi?», domandò la ragazza facendo due passi dentro l'ufficio e sorridendogli incoraggiante.

Era una buffa ragazza, Asia. Aveva circa trent'anni, ma l'aspetto era quello di una ragazzina quindicenne. La sua bassa statura, l'assenza di make-up e la sua cocciutaggine nel vestirsi solo con magliette da vera nerd e Vans nere non aiutavano di certo.

Quel giorno indossava una maglia a maniche lunghe blu scuro, sopra cui si era infilata una t-shirt sulla quale era raffigurato Ant-Man. I corti capelli rossi erano umidi di pioggia, ma lei non sembrava farci caso.

Era sempre allegra, e fin dal primo giorno aveva fatto in modo di coinvolgere Adam in ogni attività dell'ufficio e di farlo sentire a suo agio. Pranzava con lui alla sua scrivania, lo invitava a bersi una birra dopo il lavoro con il resto del personale, gli portava il caffè quando le capitava di fermarsi al bar a fare colazione.

Chissà Dove SeiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora