4. Tatuaggi

36 1 0
                                    

(Azzurra)

Non ricordi granché di quel che è accaduto la sera prima a casa di Rosalya, degenerata dopo che qualcuno dei presenti – Alexy ti pare – ha proposto di festeggiare in onore della nuova Satine.
E dopo vari brindisi, a cui più volte hai cercato di rinunciare senza successo, la tua mente ha iniziato ad andare alla deriva, vagando per un'indefinita nebbia zuccherosa, che diventava via via più labile e oscura, man mano che le gambe si alleggerivano e la testa si appesantiva, fino a non percepire più nulla; fatta eccezione per un lancinante dolore alle tempie e un'indescrivibile fitta alla bocca dello stomaco, perché, sebbene non ti sembrasse più di avere un corpo, c'era eccome, e ti avrebbe punito per la poca cura che ne avevi avuto.
Ti risvegli sentendoti ancora intorpidita, con l'emicrania e gli occhi che bruciano per quel poco di sole, che filtra oltre le tende, dal colore indefinito in penombra, della finestra. Ti porti una mano al viso, stringendo il setto nasale tra pollice e indice, nel tentativo di far passare il dolore, invano.
Provi ad alzarti, ma il tuo corpo non risponde, non riesci a muovere un singolo muscolo, lo avverti anchilosato e stanco, privo di prontezza, rigido e pesante come un macigno. Per un attimo, ti convinci di essere nel bel mezzo di una paralisi notturna e di avere solo il cervello accesso. Inizi ad iperventilare, il tuo petto si solleva e si abbassa velocissimamente, seguendo il ritmo cardiaco ormai in stato di allarme, i bulbi oculari ruotano vorticosamente in ogni direzione da sotto le palpebre chiuse, ma, quando stai per scivolare totalmente nel panico, qualcosa di unto e appiccicaticcio casca, letteralmente, sulla tua faccia. Apri gli occhi di scatto, ritrovandoti le fauci sguainate e luccicanti di un grosso cane nero a un soffio dal tuo naso, rendendoti subito conto che è il suo corpo massiccio ad ancorarti al materasso, negandoti ogni via di fuga. Gridi con tutto l'ossigeno che hai in corpo, ricavandone una leccata bavosa da quell'essere e un tonfo secco in lontananza, simile al rumore di qualcuno che cade. Nel giro di pochi minuti, un trafelato Castiel, con i capelli tutti arruffati e un colorito spento che farebbe invidia a uno zombie, irrompe nella stanza.
«Demon, scendi subito dal mio letto!».
L'animale esegue il comando, trottando tra le gambe del padrone in cerca di coccole.
Il suo letto?!
«Sei proprio un teppista», ingentilisce la voce, abbassandosi ad accarezzarlo, attenzioni a cui il cane risponde gettandosi a pancia all'aria per farsela grattare.
«Tieni quel cerbero lontano da me!», sbraiti, ripulendoti il volto con la maglia che porti, che, a giudicare dalla grandezza, appartiene al rosso, «Perché sono qui? Cosa mi hai fatto, schifoso depravato?!».
«Smettila di strofinarti la faccia nella mia maglietta! Ci sono delle salviettine sul comodino», addita un punto accanto a te. Ti chini sul mobile, afferrando il pacchetto indicato e ne sfili una.
«Non mi sono approfittato di te se è questo che pensi».
Lo guardi di sbieco in una chiara richiesta di spiegazioni.
«Ieri sera hai bevuto troppo. Alexy e Rosa ti hanno fatto scolare un bicchiere dietro l'altro fino a farti perdere i sensi. Ma non ti preoccupare, ti sei vendicata alla grande sul tappeto nuovo».
Lo fissi attonita, «Non è vero...».
«Oh sì, novellina, hai rimesso l'anima ieri sera», conferma ridendo di gusto, «Le sta proprio bene a quella cagacazzo di Rosalya».
Portandoti nuovamente le dita a stringere il naso, lo inviti a continuare, però Castiel ti intima ad aspettare lì buona, mentre sparisce oltre la soglia di quella che, ormai, sai essere camera sua. Torna un minuto più tardi con un bicchiere d'acqua e un'aspirina, «Per il mal di testa».
«Grazie», bevi la medicina tutto d'un sorso, «Non mi hai ancora detto cosa ci faccio qui».
Riprende il contenitore di vetro, lo poggia sul comodino e si accomoda sul bordo del letto, «Vedi, ieri sera eravamo tutti un po' più alticci del dovuto. Non era saggio lasciare andare voi matricole e Priya al dormitorio da soli a quell'ora, così Rosalya ha ospitato Priya nella camera degl'ospiti, Lysandre ha portato Alexy a casa sua ed io te a casa mia».
«E come avresti fatto a portarmi a casa tua, se ero incosciente? Potevo dormire con Priya nella camera degl'ospiti». Dopo quest'ultima frase, ti accorgi che il ragazzo difronte a te ha irrigidito la mascella, digrignando i denti. Lo squadri confusa, non capendo il motivo di un simile cambio di atteggiamento.
«Priya era completamente andata, è collassata sul letto come uno Snorlax, dritta al centro del materasso, e Rosalya non vuole che nessuno dorma sul suo prezioso divano», sbuffa, sottolineando la penultima parola, «Per rispondere alla tua domanda, è stato facile portarti qui, dato che vivo nell'attico sopra l'appartamento dei due sposini. Mi è bastato tenerti in piedi nell'ascensore e portarti in braccio fino al letto».
È riuscito a trasportare 47kg a peso morto... Notevole.
«Perché non mi hai portato nella camera degl'ospiti?».
«Non amo avere gente intorno, ho insonorizzato le pareti e l'ho trasformata in una sala prove». Per qualche ragione non ti stupisce, è incredibilmente da lui fare una cosa del genere.
Arrossisci, afferrando un lembo della t-shirt, «Chi mi ha messo questa?».
«Io», risponde schietto, «Biascicavi parole sconnesse sul fatto che avessi terribilmente caldo ed iniziasti a spogliarti, non riuscivo a tenerti ferma. Appena ti sei calmata, ti ho infilato quella maglietta, rimboccato le coperte e sono andato a dormire in salotto».
«Come ha fatto il cane a entrare?».
«Ho lasciato la porta socchiusa, nel caso ti svegliassi di soprassalto sentendoti male».
Abbassi gli occhi, improvvisamente attratta dal colore del tuo smalto, fai una smorfia – ti si è rotta un'unghia –, Rosa aveva ragione sul suo conto.
«Mi dispiace», affermi dopo un po'.
Il giovane inarca un sopracciglio, «Per cosa?».
«Per il disturbo che ti ho arrecato e...», lasci la frase in sospeso.
«...E cosa?».
Prendi un respiro profondo, Castiel non ha idea, non ancora almeno, ti quanto sia dura per te ammettere di avere torto, «E per averti giudicato male in principio. Non ne avevo il diritto, non ti conoscevo e, effettivamente, una serata in un bar non è sufficiente per definire una persona».
«A questo proposito vorrei farti anch'io le mie scuse», si gratta la nuca nervosamente, «Mi sono comportato male, non so neanche perché ho fatto quel che ho fatto. Dei drink offerti ricordo poco, ero sbronzo».
«Non reggi l'alcool?», ridi.
«Non sono te, ragazzina».
Sbuffi un sorriso, tirandogli una piccola spinta sul torso, senti i suoi pettorali scolpiti dare forma al tuo palmo, donandoti un istantaneo imbarazzo che ti scalda le gote; in un gesto brusco, scosti la mano e la nascondi sotto la trapunta.
«Avevi bevuto tanto, però», continui con voce tremante, «Ieri mi è parso che non fosse una tua abitudine».
Nuovamente Castiel ti fissa con quell'espressione sbigottita, «Mi stavi tenendo d'occhio, per caso?».
«N-no», balbetti, «P-perché avrei dovuto?».
Immediatamente sul suo volto compare un'espressione dilettata e sicura di sé, sta per dire qualcosa, una battuta, probabilmente, o una frecciatina, tuttavia quella frase gli muore sulla punta della lingua, seppellita da altri pensieri, che gli storpiano i lineamenti dritti e mascolini del viso in una manifestazione di afflizione.
Senti l'inaspettato bisogno di confortarlo, di stringergli la mano con la tua, ma è talmente ridotta la parte di pelle che riesci a coprire con il tuo palmo, da sentirti ridicola, una bambina che cerca goffamente di afferrare le mani del papà. Le mani di Castiel sono incredibilmente grandi in confronto alle tue, al punto da poterle quasi avvolgere entrambe con una sola, potrebbe tranquillamente tenerti per entrambi i polsi con una sola. Riflettendoci bene, Castiel in generale è incredibilmente grande in confronto a te. Ha un fisico considerevole, ben strutturato, ti super in altezza di almeno venti centimetri, frutto di tanto esercizio, ma anche di una buona costituzione metabolica di base.
Ti sorride sommessamente, invertendo la posizione delle vostre mani, ritrovandovi la tua inglobata nella sua. La rigira più volte, esaminandola da ogni angolazione, accarezzandola col pollice, «Piccina», lo senti sussurrare, così flebilmente da essere quasi inaudibile.
«Quella sera dovevamo suonare al The Big Red, non so se lo conosci, è in Holloway Road», incomincia a raccontare di punto in bianco.
Scuoti la testa a destra e a sinistra in dissenso, «Non sei a Londra da molto, dopotutto, rimedieremo. Insomma, dovevamo suonare in questo rock-bar molto in voga, era un'occasione d'oro per farci conoscere...», gli s'incrina la voce, «... ma ci hanno sostituiti con un gruppo indie emergente, qualche ora prima che salissimo sul palco. Indie, porca puttana! Indie!», aumenta la presa, inasprendo la mimica, «Il responsabile del locale disse che erano più adatti di noi per il genere di clientela che possiede. Che mucchio di boiate!», ti molla la mano per contrarre la sua in un pugno, con tale vigore da sbiancare le nocche, «Quello è un american saloon famoso per l'hard rock, la gente si sfida a biliardo, calcetto o freccette, quando non ci sono concerti dal vivo, non c'entra niente con quella musichetta da femminucce», digrigna i denti, «Avevamo già suonato lì, ed è stato un successo. Ci ha bidonati per i soldi, solo per questo! Abbiamo una discreta fama nell'ambiente, ci meritiamo un cachet più alto, avrebbe dovuto essere contento di averci lì: il sold-out era garantito».
Aspetti un poco prima di cercare di rincuorarlo, insicura che abbia finito di parlare, «Non ti abbattere, ci saranno altre occasioni», ti limiti a dire, un tantino smarrita da quel monologo saturo di elementi contrastanti.
Dispiacere, frustrazione e poi arroganza, insolenza, e di nuovo delusione, collera.
Non sempre sei riuscita a seguirlo nel suo soliloquio, che più che un'argomentazione ben organizzata, volta a spiegarti il suo turbamento, era un flusso di coscienza incontrollato, una fuoriuscita di parole sconnesse, che, nel mentre tentavi di immagazzinarle e riordinale, ti stordivano come una fuga di gas.
Più che le parole in sé, era Castiel a confonderti, così freddo e scostante all'apparenza, ma così sensibile e complesso nella sostanza.
Perché?, ti chiedi, Perché ha deciso di confidare proprio a me queste cose? Non ci conosciamo neppure...
Percepisci qualcosa di singolare in questo momento qui con lui; qualcosa che ti fa dimenticare tutto quell'astio iniziale provato nei suoi confronti, che ora ti appare così sciocco e insensato. Però, la cosa più anomala di tutte è che, nonostante tu sia nel suo letto – nel letto di un mero conoscente, che per di più dovresti detestare –, con addosso un suo indumento, indice che ti ha vista in mutande, con il trucco colato e non osi nemmeno immaginare in che stato siano i tuoi capelli, non provi alcun fastidio al fatto che lui, un giovane uomo, ti possa vedere così imperfetta, così vulnerabile, così naturale. Al contrario, ti fa sentire bene la sua presenza.
E stiamo parlando di Castiel, del marpione del pub!
Si rimette in piedi con irruenza, «È quello che dice anche Lys, ma lui non capisce. Ha un'alternativa se falliamo, un piano B. Io non ho nient'altro oltre alla musica».
«Non dire così», ti esponi oltre il letto col busto, «Hai sempre la laurea in legge».
«Bella roba!», ghigna nervoso, «Una strada che sono stato costretto a prendere».
«Costretto?».
«Mio padre è un magistrato altolocato, mi ha obbligato a seguire le sue orme. Pretende che prenda il suo posto nello studio di famiglia un giorno, come lui fece con mio nonno. Non gliene frega niente dei miei sogni, delle mie aspirazioni, per lui sono soltanto stupidi passatempi. Devo diventare un avvocato, era la condizione per avere tutto questo», conclude, allargando le braccia a mostrare la stanza, «Per avere un minimo di libertà».
Si lascia cadere sul letto con le gambe ciondolanti e la testa assurdamente vicina al tuo femore, «Che rottura», sibila.
Fai scivolare gli stinchi all'indietro, mettendoti in ginocchio e posizionando il viso in parallelo al suo, alcune ciocche more ricado intorno a lui come un baldacchino, «Non ti devi demoralizzare», stringi il pugno, «Continua a comporre, a scrivere; continua a suonare e abbassa il tiro se necessario. Dovete farvi notare da un talent scout. Se siete così bravi come tutti mi dicono, prima o poi una casa discografica vi vorrà».
«La fai facile, nella tua facoltà i produttori vengono apposta a caccia di talenti», distoglie lo sguardo.
«Non hai la possibilità di accumulare crediti tramite corsi a scelta?».
«... Sì», torna a guardarti dubbioso.
«E allora iscriviti al corso di Musicologia e partecipa ai saggi o agli spettacoli. In quelle occasioni sarà pieno di talent scout».
Ti guarda perso senza fiatare, poi i suoi occhi in tempesta assumono una sfumatura nuova, diventano di un grigio chiarissimo, quasi trasparente, e solo allora ti accorgi dei cerchiolini viola che circondano le pupille fosche. Per l'ennesima volta quella mattina le tue guance si tingono di un rosa vivace, ma fortunatamente la mente di Castiel e così lontana in questo momento da non accorgersene, complice anche la lieve penombra nella quale è immersa la stanza.
Al fine di nascondere la nuova nuance che alberga sulle tue gote, decidi di concentrarti sui tatuaggi che gli decorano entrambe le braccia. Nella fattispecie quello sul braccio sinistro, che prende anche il dorso della mano, sulla quale c'è il disegno indelebile di un teschio, piedistallo su cui rampa un grifone di profilo. L'ala spiegata copre l'intero avambraccio, circondato da nuvole in stile giapponese, che ricoprono la spalla, sino a ricreare una rosa dei venti proprio all'altezza del deltoide. Lo stesso motivo è replicato sull'altro braccio in maniera speculare, tralasciando la parte superiore che va ancora completata. Alla mano destra porta una fasciatura nera, simile a un guanto che lascia scoperte le dita affusolate.
«È ancora fresco, non posso esporlo al sole», risponde Castiel al tuo quesito inespresso.
«Ne so qualcosa».
«Sì, lo so», replica, costringendoti ad assumere un'espressione corrucciata, «Ho visto il tatuaggio che ti ricopre la spina dorsale», sgrani gl'occhi, schiudendo appena la bocca, «Ti sei già dimenticata di esserti denudata di fronte a me ieri notte?».
«Maledetto pervertito, non dovevi guardare!», affermi, tirandoti il copriletto fin sopra il capo.
Scoppia a ridere, cercando di scoprirti, «Ieri l'ho visto di sfuggita, fammelo vedere meglio».
«No!», la tua voce è attutita dalle coperte.
«No, eh?», pone e il tono in cui lo fa non presagisce nulla di buono, «Vediamo se rimani ferma sulle tue posizioni adesso», si butta su di te, racchiudendoti nell'incavo tra le sue ginocchia, per solleticarti da sopra la trapunta. Senti i suoi polpastrelli percorrere in lungo e in largo il tuo corpo attraverso il tessuto pesante, come se sapessero già dove andare a posizionarsi, fino a trovare il tuo punto più delicato: la pancia. Li senti premere sui fianchi, poi sotto l'ombelico, avanti e indietro, obbligandoti a raggomitolarti su te stessa, pur di sfuggirgli e sottrarti a quella piccola tortura. Ridi come reazione istintiva, ma non c'è niente di divertente, anzi, è una sensazione esasperante che a lungo andare porta all'esacerbamento. La resa è immediata, in un gesto secco ti scosti trapunta e lenzuolo, riemergendo paonazza in viso ed avida d'aria.
«Ho vinto io», si pavoneggia, facendoti segno di girarti a esporti la schiena. Esegui, alzando gli occhi al cielo, ancora in preda all'affanno. Lo senti sollevarti la maglietta, scoprendo la famosa opera. È un disegno semplice, essenziale, che richiama le linee precise e pulite dei mandala, stavolta riprodotte in verticale. Parte alla base della schiena con un rombo, da cui nascono delle foglie e un fiore di loto decapetalo, che a sua volta si trasforma nel musetto stilizzato di un gatto, realizzato da tanti tratti sottili simili a steli, foglioline e pistilli, che si ricongiungono alla corolla che dà forma alla fronte. Da essa prende vita un ultimo fiore, un tulipano composto da soli tre petali. Il tatuaggio si conclude con tre rombi concatenati sulla nuca. L'unica nota di colore sono gli occhi verdi del felino e il suo nasino rosa.
«È davvero bello», dichiara affascinato.
«Hai finito?», ribatti, strappandogli l'orlo della maglia di mano, riabbassandola a coprirti.
«Ha un significato in particolare?».
«Sì», sussurri stringendoti nelle spalle, «È una cosa personale»
«Lo capisco se non vuoi parlane».
Gli sorridi debolmente, avvertendo che forse lui potrebbe comprenderne il valore, «Magari un giorno».
«Facciamo un patto: ti racconterò la storia dei miei tatuaggi, quando anche tu sarai pronta per raccontarmi quella del tuo», ti tende il mignolo, ricambi il gesto annuendo.
Quel momento di fortuita vicinanza viene interrotto brutalmente da Demon che, gettandosi di malagrazia sul materasso oramai scoperto, atterra proprio in mezzo a voi due, strusciandosi contro di te e roteando su se stesso in cerca di attenzioni.
Scoppiate a ridere, mentre sfreghi energicamente le punte delle dita sotto al mento del Beauceron.
«Sembri grosso e cattivo, ma in realtà sei un cucciolone», gli parli con quel tono tipico che si usa con gl'infanti, piegandoti su di lui per fargli i grattini con ambedue le mani. L'effetto che ha sul cane è impagabile. In un nanosecondo, Demon molla la testa all'indietro sulla tua coscia, con la lingua a penzoloni, alitando e scodinzolando contento, la coda sbatte qua e là a mo' di frusta.
Percepisci gli occhi di Castiel su di te, ma non vi dai peso, ora come ora, neanche la consapevolezza di essere scrutata nei minimi particolari ti può infastidire.  

木漏れ日 - Luce che filtra tra le fronde (Dolce Flirt)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora